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Autore: Sundy    07/11/2004    1 recensioni
uno,due,tre stella ti volti e sei perduto comincia da capo... ancora nei pensieri del giovane Vincent e della sua guerra di nuvole ..e che continua se io conto fino a tre...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vedo Nuvole

 

 

Dal fronte

Il giovanissimo capitano della flotta di Sua Maestà Imperiale, Vincent Arthai, dovette impiegare tutte le sue forze per trattenere il conato di vomito che lo assalì nel trovarsi gli stivali impantanati nell’eruzione diarroica del sangue dei fucilieri. Appoggiò la mano sulla ringhiera per sostenersi, e la ritirò bagnata. Tutta la nave era ricoperta da un velo di nebbia appiccicosa, come se il suo enorme corpo metallico avesse cominciato a sudare in quell’afa gelida di un massacro annunciato

“ capitano, lei non dovrebbe trovarsi qui” disse una voce spezzata dal fragore degli spari e delle costole triturate. Non rispose, piegato dall’intenso dolore muscolare che il conato gli aveva lasciato, il fastidio faticoso delle membra, memorie di notti d’amore poco felici, memorie di pasti affrettati, memorie di liquore troppo forte. Memorie del corpo, contratto nel sibilo del vento e nell’aria impregnata di ferro. Emoglobina e polvere da sparo. Il giovanissimo capitano si alzò in piedi, appena in tempo per vedere un pallottola sfondare il cranio dell’ufficiale che lo aveva ammonito

“ capitano, lei non dovrebbe trovarsi qui”

lo sentì ripetere

“ capitano, lei non dovrebbe trovarsi qui”

udì chiaramente ogni lettera. Il morto gli aveva parlato con l’onestà  di una profezia. Gettò gli occhi oltre il parapetto e vide, avvolte nelle corde tese delle traiettorie polverose dell’artiglieria, nuvole lontane, livide di rumori sgraziati, impallidite come la pelle dei corpi morti. Si allontanò dal parapetto. Quando era entrato in Accademia aveva scoperto con suo enorme rammarico di soffrire di vertigini. In più, da qualche mese gli strapiombi gli provocavano un consapevole fremito d’orrore. La sua paura irrazionale gli risparmiò la vita. Il parapetto esplose sotto un colpo di artiglieria che lo sfiorò da vicino, e lo spostamento d’aria fece precipitare nel vuoto un paio di fucilieri che si erano rimessi faticosamente sulle gambe. Il giovanissimo capitano venne invece sbattuto contro la paratia di fondo, e si accasciò a terra, il respiro stroncato sotto il peso delle costole fratturate. Rimase sdraiato in quella morsa di gelo immobile. La pancia della nave era striata dalle lacrime di calcare di una pioggia ormai dimenticata.

Sputò un grumo di sangue ferroso. Le parole del morto continuavano a martellargli il cervello stanco. Lei non dovrebbe trovarsi qui. Gli riportarono alla mente gli occhi fermi, la piega amara del sorriso di Alex quando, nel salutarlo lasciando l’Accademia, aveva seccamente dichiarato

“Noi non combatteremo mai”.

Per una volta nella vita quello sguardo non lo aveva condannato, ma accolto in un silenzioso, fraterno abbraccio. Sputò, tossì, sputò ancora. Non combattere non era bastato a salvare Alex e Yuris dalla guerra e dalla morte, combattere non era bastato a lui per espiare il senso di impotenza  che aveva provato di fronte a quel quotidiano massacro. Voltò la testa. Chiodi per terra.

L’uniforme del morto aveva lo stesso azzurro della giacca di suo padre, anche se il generale Arthai aveva avuto diversa fortuna dall’uomo morto, in un istante, sul ponte di quella nave fetida. Suo padre aveva un principio di gotta a storcere il cilindro azzurro del suo busto corpulento, infilato a forza nell’uniforme anche quando sedeva in poltrona fumando sigari resi insipidi dalle cure per il diabete che lo avevano strappato alla Flotta Imperiale e alla sordida voluttà della moglie.

L’enorme generale, sempre più indolente e assorto nella contemplazione delle spirali di fumo e dei bottoni tirati della sua giacca azzurra, gli parlava senza guardarlo. Il capitano Vincent Arthai era il più piccolo di due sorelle che non sarebbero mai diventate ammiraglio. Suo padre aveva scelto per lui questo brillante avvenire. Lo ripeteva agli arazzi del salotto, agli scaffali coperti di una polvere insidiosamente fine, ai volti affacciati dalle stampe d’epoca, ai grossi volumi delle librerie, ai giornali che profumavano ancora di inchiostro economico, alla tazza scheggiata del the e al tubicino alieno del catetere che ogni tanto usciva dalla cintola e andava a cadere descrivendo un arco perfetto di gomma trasparente, da qualche parte, oltre la poltrona. Lo ripeteva a tutto e a tutti, tranne che a lui. Il piccolo Vincent si divertiva a strisciare di soppiatto dalla porta fino alla poltrona di suo padre, mentre il generale in prematura pensione parlava di ammiragli e grandi condottieri, visioni oniriche di un futuro accuratamente pianificato, figure esotiche, irreali, che per chissà quale caso portavano

 il suo stesso nome. Ma il bambino si faceva impressionare solo superficialmente da quelle immagini maestose del se stesso futuro. Il gioco consisteva nell’avvicinarsi strisciando alla poltrona del padre, mormorando tra se e se “uno, due, tre, stella!..uno, due, tre, stella!..”, il trionfo nel raggiungerla senza che l’uomo si voltasse verso di lui. Il generale Arthai fu un padre esemplare, ma non comprese mai il motivo dell’esultanza di suo figlio nel conquistare il robusto bracciolo di noce della sua poltrona. Vincent non perse mai nessuna di quelle partite.

Sputò, per l’ultima volta, la desolazione del suo rigurgito ferroso. Le spalle gli facevano male come dopo una brusca caduta, un colpo di tosse troppo forte, un turno di guardia nel gelo della notte invernale, un incontro d’amore poco felice, esercizi di punizione…

Sentì gli occhi gonfi di polvere e di lacrime fredde.

Acide.

Nessuno gridava più, neanche i cannoni. Due uomini spingevano, incespicando, un mitragliatore, tra i chiodi e i corpi sparsi sul pavimento. Pensò alle guardie del palazzo reale, abbandonati al loro sangue come stracci, nel cortile crivellato dalle bombe di Disith. Li vide muoversi come burattini in preda ai tremiti che scuotevano la pancia della balena che li trasportava attraverso la nebbia incandescente degli spari e delle nuvole dense. Nuvole a perdita d’occhio. I nemici, annegati anch’essi in quella cortina di vapore solido, respiravano l’afrore rancido di un altro sangue. Sentiva nella testa la voce del morto, rotta, adesso, dal ritornello ossessivo dei suoi solitari giochi d’infanzia..

...uno, due, tre, stella...

le nuvole di ovatta bagnata e sale sporco sfioravano la nave, frustandola come code di serpenti bianchi. Avvicinarsi senza essere visti.

...uno, due, tre, stella…

vedeva nuvole neutre, stese davanti ai suoi occhi come un lenzuolo, vedeva la sagoma nera del cannone avanzare a stento verso la paratia mutilata, che stendeva cigolando il suo braccio amputato nel vuoto. Il rombo della nave di Disith, vicina, dannatamente vicina, emerse dalle profondità del lenzuolo teso, a risvegliarlo. Non fare rumore.

...uno, due, tre, stella

ti muovi e sei perduto…

Non fare rumore, non ti scopriranno.

Vincent rimase immobile. Non fare rumore, si volterà verso di te. Perderai.

Noi non combatteremo.

...uno, due, tre, stella…

“ capitano, lei non dovrebbe trovarsi qui”

“non è vero, cazzo, non è vero” rantolò, facendo forza sui gomiti per alzarsi da terra. La costola spezzata gemette con lui. Con il passo ubriaco di notti più nere e più felici, la rabbia concentrata in una schiuma livida che gli bagnava gli angoli della bocca, raggiunse il cannone.

Noi non combatteremo mai.

“capitano” disse l’artigliere, l’occhio sinistro, rosso e tumefatto, insanguinato da un colpo violento. Vincent si eresse sulla schiena dolorante, ma strinse i denti e riuscì a non fare rumore “il cannone è pronto a sparare”

Le nuvole, vide, le nuvole serrate come un armatura intorno alla nave del nemico, le nuvole che invadevano con la loro nebbia venefica il ponte, le nuvole, nuvole dappertutto, in quel cielo trasformato dalla guerra nel fondo di un barile di stagno, livido di liquore mostruosamente umano e puzzolente di polvere da sparo. Strappò il fucile delle mani del morto che aveva smesso, adesso di parlargli. Il baratro, oltre la balaustra, lo chiamava con il suo rombo profondo, mentre le nuvole allungavano i loro artigli sul ponte sporco. Non diventerai mai ammiraglio, sarai solo un'altra bestia cieca che spara contro la nebbia la sua paura di morire, la sua fottuta rabbia, e tutte le sue sconfitte

...uno, due, tre, stella…

sarai sempre e solo un soldato

Noi non combatteremo mai.

Sputò l’ultimo grumo di sangue contro il baratro maledetto che mugghiava dal fondo della sua gola invisibile. Sarai sempre e solo un soldato di questa guerra di nuvole. Si sentì negli occhi tutta la rabbia del suo cielo sporcato di piombo e disinfettante. Non diventerai mai ammiraglio, dissero i suoi occhi, lo sguardo triste di Alex, il cranio perforato del morto, il fucile che stringeva tra le mani. Sarai sempre e solo un attorucolo di questo teatrino di massacri. Chinò la testa sulla canna del fucile, sull’uniforme sporca, sgualcita sul petto

 …e continua se

io conto fino a tre…

“ e l’ordine?” chiese il soldato con l’occhio rosso.

…uno, due tre…

“ fuoco”

 

 

 

  
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