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Autore: Ottachan    24/11/2013    2 recensioni
Sono passati dieci anni dai tornei e i ragazzi si sono persi di vista.
Makoto fa il maestro all'asilo e un giorno si presenta un bambino dagli occhi azzurri col broncio perenne, accompagnato dal suo papà, Haru, che adesso è sposato più o meno felicemente (NON con Rin, ma con una tizia random, che ignora il suo passato u_ù). Cosa succederà?
(prompt by Aika)
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Haruka Nanase, Makoto Tachibana
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Le prime Notti Bianche'
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Fic scritta per la prima Notte Bianca (29-09-2013) (si, lo posto proprio quando è ancora in atto la seconda Notte Bianca :°D) organizzata dalla pagina No ma Free lo guardo per la trama, eh. Prompt di Aika: 'Sono passati dieci anni dai tornei e i ragazzi si sono persi di vista. Makoto fa il maestro all'asilo e un giorno si presenta un bambino dagli occhi azzurri col broncio perenne, accompagnato dal suo papà, Haru, che adesso è sposato più o meno felicemente (NON con Rin, ma con una tizia random, che ignora il suo passato u_ù). Cosa succederà?'
Tipo ho amato e odiato Aika per colpa di questo prompt. Mi sono nutrita di gelato per una settimana intera solo per riprendermi dalla tristezza ç_ç Ma le voglio bene comunque <3 Buona lettura e chiedo scusa a tutti se la fic è un pò troppo triste ç.ç

 
In dieci anni

Aprile era finalmente arrivato, trasportato da una fresca brezza che profumava di fiori appena sbocciati. Makoto chiuse gli occhi ed emise un respiro profondo. Tra i vari aromi spiccava la fragranza delicata dei fiori di ciliegio. Riaprì gli occhi e sul suo viso si dipinse un’espressione malinconica.
Chissà come stanno i ragazzi…
Era passato parecchio tempo dall’ultima volta che li aveva sentiti.
Rin, dopo il liceo, era ritornato nella sua amata-odiata Australia per allenarsi con i migliori coach del paese.
Rei aveva scelto di frequentare la prestigiosa università di Tokyo, d’altronde era così intelligente. E Nagisa l’aveva seguito per non lasciarlo solo. ‘Goffo com’è combinerà solo guai lì nella capitale!’, così diceva.
Anche Haruka se ne era andato. I suoi genitori avevano insistito così tanto nel portarlo con loro in uno dei loro viaggi d’affari che il povero ragazzo non aveva neppure avuto un momento per reagire; era stato trascinato via di peso dalla sua cittadina natale ignorando il fatto che poi, alla fine, non sarebbe più ritornato ad Iwatobi. Bè, c’era da aspettarselo. Dopotutto i suoi genitori erano stati lontano da lui nel momento dell’adolescenza, il periodo più difficile da affrontare, quando non sei più un ragazzino ma hai ancora molta strada da percorrere prima di diventare uomo. Forse si erano pentiti di averlo lasciato solo, forse ora volevano stare con lui per offrirgli una figura adulta di riferimento che lo aiutasse nelle scelte future. O forse sentivano soltanto la sua mancanza.
Makoto era solito trovare giustificazioni per quanto riguardava i comportamenti ambigui delle persone. Era così di carattere: per lui c’era sempre un motivo preciso dietro a tutte le azioni più o meno razionali eseguite dagli esseri umani. Non sempre in positivo, ovviamente. Ma nel caso del trasferimento di Haruka, non era in grado di pensare a nulla al di fuori del grande affetto che zia e zio Nanase provavano nei confronti del proprio figlio e dalla loro grande voglia di tornare a vivere insieme come una famiglia unita.
I bambini, invece, erano diversi. Il loro modo di parlare era diretto; quello che passava nella loro mente, il secondo successivo usciva poi dalla loro bocca, non bisognava andare a cercare spiegazioni articolate dietro ai loro gesti o alle loro parole: agivano così nella più totale sincerità, punto e basta.
Forse era proprio quello il motivo che lo aveva spinto a seguire corsi di formazione per intraprendere la carriera di maestro d’asilo. Durante il periodo del liceo, prima del torneo nazionale, prima che vincesse la staffetta con il suo club e Rin, prima di tutto questo, aveva trascorso dei momenti piuttosto turbolenti caratterizzati da cose dette a metà, da paure e complessi difficili da superare, da fantasmi del passato che tornavano a tormentare lui e i suoi compagni… Era la sua mente che pretendeva stabilità. Era più facile occuparsi di un capriccio di un bambino rispetto a quello di un adolescente in preda alla pubertà. Desiderava seguire un percorso tranquillo, voleva navigare in pieno giorno e in acque calme, voleva evitare il mare in tempesta di notte. Forse il trasferimento di Haruka era stato un segno benedetto voluto dal karma: sembrava quasi di sentire una voce interiore che ripeteva nella propria testa: ‘Bene, adesso anche tu sei libero. Ora ci sei solo tu, prendi le tue decisioni autonomamente, vivi la tua vita. Vai avanti, volta pagina. Da adesso in poi tutto sarà più semplice’.
Per i primi due anni i due amici erano rimasti in contatto tramite mail. Se ne scambiavano una al giorno. Haruka chiedeva a Makoto di Iwatobi, se c’era stato qualche cambiamento. Makoto chiedeva ad Haruka delle sue giornate, se aveva trovato un appartamento con la piscina condominiale come sperava, come era la vita da universitario. Come succede per molti, la distanza allontana anche i cuori delle persone, e da una mail al giorno si era passati ad una mail a settimana, una al mese, una ogni festa comandata, fino a quando la casella di posta non aveva iniziato ad essere tristemente vuota.
Durante il periodo delle mail giornaliere, Makoto era solito andare a controllare la casa del suo migliore amico prima di dirigersi verso la scuola di preparazione. In maniera graduale però, complice anche il trasferimento di nuovi inquilini, aveva iniziato ad allontanarsi da essa. Prima si fermava in cima alla scalinata, si affacciava lungo la via e successivamente ritornava indietro. Poi aveva iniziato ad accontentarsi di alzare solo il viso verso i gradini restando sul livello della propria abitazione, ripercorrendo con la propria immaginazione la strada in salita. Iniziò presto a non voltarsi più. Aveva realizzato che in quella casa non avrebbe più trovato Haruka nella sua vasca o intento a cucinare, per l’ennesima volta, dello sgombro alla piastra.
La vita di Makoto era andata avanti. Si era diplomato a pieni voti, aveva trovato piuttosto velocemente un lavoro, era andato a vivere da solo in un piccolo appartamento vicino alla sua vecchia scuola elementare. Erano pur sempre passati dieci anni.
Makoto emise un altro respiro profondo. Il profumo di fiori di ciliegio divenne leggermente più percettibile. Si incamminò per qualche decina di metri lungo il viale di pioppi fino a trovarsi infine di fronte alla maestosa figura di quella chioma familiare coperta da fiori rosa. Il ragazzo si fermò, chiuse una seconda volta gli occhi e si lasciò inondare da quell’inconfondibile aroma. Forse, sotto sotto, era ancora rimasto legato al passato. Scosse la testa, accennando un piccolo sorriso che però non sembrava esprimere gioia e si diresse all’Asilo Comunale di Iwatobi.
Come ogni primo giorno di scuola che si rispetti, l’arrivo delle ‘matricole’ era atteso dagli insegnanti con un misto di euforia ma anche di preoccupazione. In fin dei conti si trattava della prima esperienza di distacco dalla figura genitoriale e per molti bambini quella situazione costituiva un evento molto traumatico. Non era raro che il pianto disperato di uno portava un altro bambino a frignare come se il mondo si stesse facendo a pezzi sotto ai propri piccoli piedi. Eppure c’era un ragazzino che non aveva avuto nessuna reazione esagerata quando la madre, dopo avergli schioccato un tenero bacio sulla fronte, si era allontanata verso l’uscita. Era più dispiaciuta lei del piccolo!
Si erano presentati nell’aula che Makoto supervisionava all’orario stabilito dalla struttura, puntualissimi. Lei era una bella signora, doveva avere all’incirca l’età di Makoto, se non un paio di anni in meno; teneva i suoi folti capelli castani legati da un lato e i suoi occhi verdi erano leggermente arrossati dalla commozione.
‘Piacere, sono Mio Takashi. Prenditi cura del mio piccolo Kensuke!’
Poche parole ma molto dirette.
Makoto si stava preparando a rispondere con uno dei suoi soliti sorrisi solari quando una strana sensazione proveniente dall’interno del suo corpo gli fece contorcere lo stomaco. Il piccolo Kensuke Takashi aveva un fisico longilineo, magro ma non tanto da sembrare malato. I suoi capelli castani cadevano pesantemente sul viso; la frangia dritta nascondeva le sopracciglia piegate verso l’interno, i suoi grandi occhi blu erano leggermente aggrottati in un’espressione quasi imbronciata, la quale era comunque sottolineata dalla forma della sua bocca con gli estremi rivolti verso il basso. Se non fosse stato per le sue labbra leggermente carnose e per il colore più chiaro dei capelli Makoto avrebbe giurato di trovarsi di fronte ad un mini clone del suo vecchio amico Haruka.
Durante tutto l’arco della giornata, non aveva smesso di guardarlo. Il modo di sedersi di Kensuke, la maniera con la quale poggiava la mano piccola e tonda sotto al mento per poi alzare lo sguardo verso la finestra, il fatto che preferiva stare da solo e in disparte ma quando qualche bambino provava ad avvicinarsi per parlargli non veniva cacciato via, anzi, veniva ascoltato fino alla fine, ricordavano Haruka in tutto e per tutto.
Makoto sorrise dolcemente. Forse avrebbe dovuto provare a rimettersi in contatto con l’amico. Doveva raccontargli assolutamente della sorpresa e della sensazione di nostalgia che aveva provato nel trovarsi di fronte la sua versione rimpicciolita. Chissà se anche questo bambino amava nuotare.
Nel primo pomeriggio, dopo pranzo, i vari insegnanti avevano tirato fuori fogli bianchi, matite e colori e avevano spinto i bambini a disegnare la prima cosa che passasse nella loro testa, un metodo semplice e dall’apparenza innocente per cercare di capire qualcosa sulla psicologia dei piccoli. Quello era un momento di pura gioia e confusione: dai un pastello ad un bambino e lui si creerà un mondo tutto suo! Tutti parlavano a voce alta, i bambini più grandi e curiosi andavano ad impicciarsi delle opere dei compagni più piccoli, c’era chi accusava uno di avergli copiato l’idea, chi piangeva perché il vicino di banco gli aveva rubato un pennarello, chi riempiva fogli su fogli canticchiando canzoncine infantili. E poi c’era Kensuke. La sua espressione non lasciava nessun dubbio: era concentratissimo su quello che stava disegnando, si era come isolato in un mondo tutto suo che escludeva totalmente il caos che era scoppiato a pochi centimetri dalla sua sedia. Colorava con movimenti lenti e precisi, sceglieva i colori con cura, lavorava con un perfezionismo mai visto in un bambino di così pochi anni. Makoto si avvicinò a lui incuriosito chiedendo delucidazioni sul soggetto da lui rappresentato.
Nella parte inferiore del foglio si stagliava un grande rettangolo celeste, alto fino alla metà del supporto, sul quale erano tracciate delle linee morbide ma sparse disordinatamente di colore blu scuro. Al centro esatto, nella parte superiore del foglio, una figura che doveva rappresentare una persona in piedi con il braccio destro alzato e quello sinistro steso lungo il fianco catturava l’attenzione. Aveva capelli e pantaloni corti di colore nero.
‘Un uomo in mare?’
Il piccolo Kensuke annuì e sul suo viso apparve come per magia un piccolo e imbarazzato sorriso.
‘E’ il mio papà!’
Un brivido improvviso scosse le spalle di Makoto.
‘Nuota benissimo!’
Il vuoto. Vuoto nella mente, vuoto nello stomaco. Una strana sensazione di nausea aveva incominciato a stringergli l’esofago proprio al centro del petto. O forse era il suo cuore che si era fermato per un momento. Forse si trattava di una coincidenza. Una strana quanto ironica coincidenza che gli stava irrigidendo le gambe e gli impediva di allontanarsi da quel bambino così esageratamente somigliante ad Haruka. Solo dopo alcuni minuti di autoconvincimento con pensieri che terminavano tutti con: ‘Sei uno stupido, non è possibile, ti sarai sbagliato’, finalmente Makoto trovò la forza di rialzarsi in piedi, proprio nel momento in cui Kensuke, prendendo con uno scatto felino il disegno dal proprio posto, corse velocemente verso la porta dell’aula. Alle sue spalle era arrivato il padre del piccolo, pronto per  riportarlo a casa o per andare a giocare da qualche parte all’aperto, magari sulla spiaggia. L’uomo indossava dei mocassini colo crema di buona fattura, paio di jeans scuri e sopra di essi una camicia chiara con l’ultimo bottone aperto. Quando Makoto sollevò lo sguardo,  rimase per la seconda volta congelato sul suo posto: Haruka, proprio lui, aveva preso in braccio Kensuke e stava rivolgendo al piccolo uno di quei suoi rarissimi sorrisi che in teoria avevano la capacità di riscaldare il cuore. In quel caso l’effetto ottenuto fu quello contrario.
‘…Haru…’
La voce di Makoto era strozzata. Il suo vecchio amico era davvero lì. Era davvero diventato padre.
‘Mako?’
Il sorriso di Haruka si trasformò in un’espressione di sorpresa con una leggera sfumatura di preoccupazione.
‘Che ci fai qui? Fai l’insegnante? Da quanto tempo?’
‘Da tre anni oramai…’
Un muro di silenzio calò pesante tra i due. Kensuke, ancora in braccio ad Haruka, girava la testa verso il maestro e il padre non nascondendo la propria confusione.
Fu Haruka a riprendere a parlare.
‘Sei rimasto qui ad Iwatobi?’
‘Già’
‘Non hai provato a costruirti un futuro fuori dal paese?’
Makoto sembrava in preda al panico. Perché quella domanda? Avrebbe dovuto raggiungerlo? Una strana sensazione di rabbia mista ad invidia gli pervase il corpo salendo velocemente fino alla testa che aveva iniziato a pulsare in maniera estremamente fastidiosa.
‘Ma dimmi un po’ tu… Non credevo ti fossi sposato. Il cognome del piccolo è diverso dal tuo’
Disse tutto velocemente senza quasi riprendere fiato.
‘No, non sono ancora sposato ma lo farò a breve. Per il momento io vivo ancora dai miei’
Certo. Doveva immaginarlo. Era talmente palese… Che idiota. Un emerito coglione. Haru doveva sprofondare nel mare in tempesta e soffocare e soffrire e...
 Il cervello di Makoto ripeteva queste poche frasi all’infinito. Voleva dare un pugno ad Haruka, voleva fargli uscire il sangue dal naso, voleva fargli sputare qualche dente, voleva rompergli qualche osso... Ma sapeva perfettamente che sarebbe stato lui stesso a sprofondare in mare, sotto terra, o in qualunque inferno dove potesse evitare di guardare il suo vecchio amico e quel piccolo bastardo che gli somigliava tanto ma che condivideva il sangue con una sconosciuta.
Già, bastardo.
Makoto si alzò in piedi e sorrise. Un sorriso strano, non di gioia, quasi inquietante, tanto diverso da quello a cui erano abituati i suoi vecchi compagni.
‘Quando sei tornato?’
‘Un mese fa. Ho preso un appartamento vicino al mare in modo da poter insegnare a Kensuke a nuotare. Ci trasferiremo tutti e tre lì a giorni. Se vuoi vienici a trovare sei il benvenuto’
‘Di sicuro…’
Haruka distese il braccio e spinse la propria mano vicino al corpo di Makoto.
La stretta di mano avvenne in maniera meccanica e priva di ogni coinvolgimento di qualunque tipo.
Padre e figlio finalmente uscirono dall’asilo e Makoto rimase nell’aula in compagnia degli ultimi bambini rimasti.
Non staccò gli occhi dall’amico fino a quando non fu più in grado di vederlo. Non riconosceva più quelle spalle. Quella non era più la schiena di Haruka, del suo vecchio Haruka.
Si appoggiò al muro, esausto, con tutto il corpo.
Era rimasto sicuramente tuttora ancorato al passato.
Ma quale karma e karma. Lui non era libero nella maniera più assoluta. Non lo sarebbe mai stato proprio perché aveva permesso ad Haruka di andare via.
Le ginocchia incominciarono a cedere, la sua schiena iniziò a scivolare verso il basso lungo il muro che fece attrito e che gli sollevò leggermente la maglia. Ma anche con la pelle direttamente a contatto con il freddo intonaco della parete, quella sensazione di straniamento, di nausea, di voglia di prendere un banco e scaraventarlo il più lontano possibile non lo abbandonò del tutto.
‘Calmati, ora è finita. Io sono libero. Io sono libero’
Stavolta il suo tentativo di autoconvincimento non andò a buon fine: le braccia iniziarono a tremare, la testa oramai non seguiva più un ragionamento logico tanto gli faceva male, le ginocchia erano diventate di pietra, immobili e inamovibili.
Non gli rimase altro che piangere, stringendosi le gambe, nascondendo il viso tra di esse.
Una bambina si accorse del suo strano comportamento e si avvicinò a lui. Rimase qualche secondo in piedi a fissarlo senza dire una parola. Poi si accostò di più al maestro ed iniziò ad accarezzargli i capelli.
‘Va tutto bene, va tutto bene’
I bambini erano diversi. Il loro modo di parlare era diretto: quello che passava nella loro mente, il secondo successivo usciva poi dalla loro bocca, non bisognava andare a cercare spiegazioni articolate dietro ai loro gesti e alle loro parole: agivano così nella più totale sincerità, punto e basta.
Non erano contorti come gli adulti.


NOTE (che sono le stesse postate sul LJ):
Ringrazio la chat della Notte Bianca e in particolare Hidechan e MiyuN che mi hanno dato una mano a trovare nome e cognome per il piccolo <3
Ora vado a riprendermi e a sfogarmi urlando dal terrazzo: 'HARUKA CULO!!!!' ç_ç
   
 
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