People help the people.
Chapter one.

A tutte quelle ragazze che aspettano
solamente di essere salvate.

Sul marciapiede di fronte casa abita Phil.
Phil è un vagabondo, ed a volte si chiama Jackson, Derrick o Jeremiah: cambia sempre nome a suo piacimento, nessuno sa la sua vera identità.
Abita in un cartone consumato ed inzuppato di pioggia, ma a lui piace, e gli piace anche la pizza.
Ogni tanto gliela porto, mi chiede sempre quella ai peperoni, ma ogni volta che gliela porto li scansa e li porge al suo cane, Gabe.
Molto spesso ci mettiamo a parlare, ma è sempre impegnato a fare sculture strane con delle lattine di birra vuote e credo che a volte non mi ascolti veramente, ma almeno è l’unico che mi da retta e che non fa mai a gara di disgrazie, anche se ne avrebbe tutto il diritto, visto lo stato in cui vive.
Quando mi affaccio dalla finestra di camera mia mi chiedo sempre perché non faccia mai niente per migliorare la sua vita, ma poi rifletto. E se la sua vita fosse migliore della mia?
Lui non pianifica cosa mangiare nell’arco della giornata per andare a fare la spesa, lui non sa se il suo cartone sarà ancora al solito posto al ritorno, lui non sa se arriverà a fine giornata, ma è contento così.
Forse lui è l’unico ad assaporare il vero senso di libertà.
 
"Devo ancora capire come fai a bere quella roba" un sorrisetto inconfondibile mi si presenta davanti, e sento pressione sul lato destro del letto. Si sta sedendo.
È Oliver, mio fratello gemello, che contesta il mio delizioso e caldo thè verde.
"Non capisci nulla." Alzo per un attimo gli occhi, per notare l’evidente disappunto di mio fratello, che poi si trasforma in un tenero sorriso latteo.
"Bene sorellina, io esco, fai la brava" Mette una mano gelata sulla mia coscia, facendomi rabbrividire mentre improvviso un saluto militare con l’indice e il medio della mano destra in orizzontale sulla fronte, facendolo sorridere.
Amo mio fratello, lo amo perché mi ha sempre trattato come la sua piccolina, e si è sempre preso cura di me, nonostante avrebbe potuto benissimo andare a vivere con la sua ragazza a Londra e lasciarmi da sola nella nostra vecchia casa.
Ha un cuore grande, un cuore grande che vorrei tanto avere io, ed anche due occhioni azzurri che ha ereditato della mamma, ma che io non ho.
Io li ho grigi, grigi come lo smog del centro della città e trasparenti come le lacrime.
 
Oggi fa freddo.
È un maledettissimo pomeriggio gelato inglese, ma non ho intenzione di ritornare a casa.
Ho i miei Dr. Martens e potrei camminare per kilometri , nonostante il freddo.
Ho con me la mia macchinetta fotografica, per qualsiasi cosa mi possa attrarre particolarmente.
Uno scatto dopo l’altro, il tramonto cala, lasciando spazio alla notte.
Non è particolarmente stellata oggi, ma c’è sempre la luna, la protagonista del cielo.
E ne sono catturata, talmente tanto da restare per ore con la testa alzata, perché è come se i miei occhi assorbissero la sua lucentezza.
Come se quel grigio fosse diventato bianco grazie a lei.
"Sai che se chiudi un occhio ed alzi il pollice verso il cielo, la luna non sarai mai più grande di questo?"
È una voce roca. Non la conosco.
Non mi giro, aspetto che continui.
Ora però sento un brivido.
Sento afferrarmi la mano da due mani calde a grandissime.
Continuo a guardare il cielo, anche se sono tentata di girare lo sguardo verso il proprietario di quelle mani.
Chiude la mano in un pugno, lasciando fuori solamente il pollice, poi lo alza in direzione della luna.
"Visto?" Il calore del suo alito sull’orecchio mi da sollievo, insieme alla sua voce roca.
Giro la testa.