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Autore: Chimera in blue jeans    04/05/2008    14 recensioni
"Shikamaru sapeva che Kankuro non era uno Yakuza, contrariamente a quanto si sarebbe potuto dedurre dagli estesi tatuaggi. Non era che un coraggioso ribelle, un alternativo sfuggito alle redini della sua famiglia per ostentare sfacciataggine e violenza.
Il barista osservava, captava, immancabilmente ascoltava. Veniva a conoscenza dei fatti di tutti quei clienti che frequentavano abitualmente l’izakaya, convincendosi ogni giorno di più che ognuno portasse in petto un segreto oscuro.
Sapeva che Rock Lee era un disoccupato degenerato dall’alcol, conosceva ogni risvolto del suo pessimo trascorso. Sapeva che Karin, spesso in compagnia degli uomini di Sasuke, batteva la notte.
Sapeva che Sabaku no Kankuro aveva una sorella…
Stop. Quella era una storia proibita alla sua stessa memoria, facente parte della categoria ‘errori’."
Storia di un errore, forse nobile, forse semplicemente... sciocco. Vissuta fra ricordi e rimorsi, sconfitte e parole mai dette. Pericolose.
[Prima classificata al concorso ShikaTema indetto da bambi88 e arwen5786]
Genere: Romantico, Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kankuro, Temari, Altri, Ino Yamanaka, Shikamaru Nara
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note: Schadenfreude è una parola tedesca utilizzata internazionalmente; il significato è spiegato nel corso della fic. Originariamente era una one-shot, ma l’ho divisa in due capitoli per la lunghezza.
Una buona parte della storia è immersa nel passato, fra flashback e ricordi riesumati da particolari situazioni.
Altre note: L’izakaya è un locale tipicamente giapponese, riconducibile a una birreria adibita anche a ristorante, in cui si vende una gran varietà di sakè.




Prologo
.

Schadenfreude.
Tutti la provano.
Molti la amano.

Canini, pelo, unghie.
Spizzichi di gioia perversa, bocconi di dolce amarezza.
Il minimo di animale che è rimasto in ogni uomo.

[Quando vede il compagno crollare sotto le zanne del più forte e rimane in disparte ad assistere]

E la prova, quella gioia segreta.
Una gioia insita, l’essere al sicuro mentre la vittima di turno paga col suo sangue.
Una gioia oscura.

[Quando ride dell’amico che viene umiliato dinanzi alla folla]

Codardia?
No.
Cattiveria?
In parte.
Istinto, lotta per la sopravvivenza.
Questo sì.

[Quando nota con divertimento che la fortuna riprende a girare e che anche i migliori, finalmente, soccombono]

Schadenfreude
Che impera.
Schadenfreude
Che carbura il mondo.
Schadenfreude
Dentro ognuno di noi.

E’ un piacere colpevole.
E’ l’amarezza di subirla.
E’ la difficoltà nell’ammetterne l’esistenza.
E’ la forza che muove il delinquente, che fa strisciare il disgraziato, che fa godere il perverso.

Schadenfreude
E’ il piacere provocato dalla sofferenza altrui.

*

Capitolo 1


La cameriera scalciò.
Dopo un rapido, apprensivo controllo all’integrità degli appariscenti collant viola, si allontanò borbottando dal tavolino; i grandi occhi azzurri si rivolsero al barista, in una smorfia di pura accusa.
“Quella bestia mi ha messo le mani addosso!” pigolò, indicando con un cenno ben evidente l’avventore che la fissava famelico, inginocchiato sul suo tatami.
“Allora vai a dire a mia madre che ti dimetti”.
Quando il barista si limitò a sollevare le spalle con poche, graffianti parole, incassando fra di esse la testa dalla bizzarra pettinatura, Ino fece scattare preziosamente in alto il naso affilato, dirigendosi sulle lunghe gambe da stambecco verso la cucina del locale.
Il ragazzo sospirò, osservandola sparire oltre la tendina composta da sottili strisce di bambù.
Cosa si aspettava?
Un izakaya malfamato di periferia, frequentato dalle peggiori razze di delinquenti, un vestiario che metteva in evidenza il fisico perfetto, lunghi e lucidi capelli biondi; elementi che per la diciottenne determinavano l’indubbia inclinazione al pericolo, lavorando la sera nel locale dei Nara.
Raggiustandosi il codino di capelli mori, il barista tese le braccia sul bancone, abbandonandosi ad una apatica ammirazione del suo regno, momentaneamente quieto.
Nel suo splendore di insospettabile fallito si mostrava così Shikamaru Nara, vent’anni. Promessa scolastica ritiratasi dal liceo per eccessiva pigrizia, finito a lavorare nell’izakaya di famiglia.
Non che la sua vita fosse migliorata da quando i suoi genitori, profondamente delusi, l’avevano piazzato dietro il bancone, ad occuparsi della sezione bar.
No.
Semplicemente un vero inferno.
Il vociare soffuso dell’area ristorante condiva la luce notturna del locale di calda familiarità, investendo dolcemente i numerosi avventori seduti ai tavolini. Rumore di boccali sbattuti sul legno, di risate folli, di sottile, ambiguo degrado.
Falliti frequentavano il locale. Uomini e donne senza lavoro, senza compagno, senza famiglia.
Disgraziati frequentavano il locale. Immigrati, miseri individui viventi sotto un tetto precario o del tutto assente.
Mafiosi frequentavano il locale. Membri della Yakuza, celeberrima organizzazione mafiosa giapponese. Più clan, fra rivalità e alleanze, si presentavano ogni sera a bere un sorso, a discutere, a puntare vittime…
A controllare il locale.
Shikamaru represse uno sbadiglio, abbandonando stancamente i gomiti sul bancone. Persino i piedi terribilmente indolenziti furono accantonati dal suo pensiero, mentre tre uomini tatuati facevano il loro puntuale ingresso nel locale.
Il vociare s’interruppe per un momento. L’uomo che li guidava, dai lunghi capelli corvini scalati sul volto pallido, sembrava aver premuto il tasto di pausa di un telecomando al suo mostrarsi oltre la soglia. Le chiacchiere ripresero, frenetiche, mentre Sasuke Uchiha sedeva coi suoi compagni a un tavolo libero. Shikamaru sbuffò, avvertendo un brivido correre lungo la schiena.
Yakuza.
Chi per mestiere, chi per dovere, chi per piacere.
Schadenfreude.
L’indubbio piacere di imporre il proprio dominio, manifestato da parte di tutti i mafiosi tramite gli inconfondibili tatuaggi che ne ricoprivano il corpo.
Uchiha richiamò la cameriera con un cenno imperioso, assecondato all’istante; le iridi scure luccicarono, confuse fra la giungla di arabeschi neri che si diramavano per buona metà del suo volto inequivocabilmente attraente.
Gli occhi di Shikamaru si ravvivarono appena all’irruzione di un ragazzo corpulento, che lo raggiunse al bancone portandosi dietro l’umida aria fredda della statale. Un sorriso gli solcava il volto paffuto mentre piantava i piccoli occhi in quelli del barista, l’aria concitata.
“Il Lupo è in gabbia” elargì senza preamboli, trionfante.
Il ragazzo dovette apportare un cambiamento al pigro programma che caratterizzava il suo regolare approccio con Choji.
“Hanno preso Inuzuka?” chiese, moderando l’interesse nella voce. L’amico annuì freneticamente , facendo ondeggiare le scarmigliate ciocche castano chiaro.
“La polizia ha beccato alcuni spacciatori alla stazione” ansimò, sopraffatto dall’entusiasmo. “Ci sono stati degli intrallazzi, non so dirti esattamente ma… pare che l’abbiano consegnato quelli dell’Akatsuki”.
“Il clan di Pain e quello di Inuzuka sono alleati” borbottò il moro, scoccando un’occhiata seccata a un avventore che si avvicinava al bancone, pronto ad ordinare.
“Infatti credo che all’Akatsuki non la perdoneranno, questa” ghignò Choji. “Hanno consegnato un uomo del clan Konoha per salvare il culo ad uno del loro. Furbi, no?”
Shikamaru non s’informò sul come e sul perché.
“Sakè della casa” ordinò l’uomo al bancone, digrignando i denti su una sigaretta spenta. Scoccato un fiacco sguardo d’assenso a Choji, il barista si voltò verso le mensole stipate di bottiglie, gli occhi stanchi velati da una sottile malinconia.
Non riusciva a sentirsi entusiasta per la notizia.
Forse, semplicemente, aveva sperato in qualcos’altro che riguardasse l’Akatsuki.
Forse, semplicemente, una patina opaca si stendeva sul suo sguardo mentre ricordava un altro momento in cui si era ritrovato a cianciare di mafiosi con Choji.
Quella volta però, oltre bancone c’era una donna.

“Kirin grande anche per me”
Armata di vestito cremisi tanto succinto quanto pericoloso, la bionda sedette bruscamente sull’alto sgabello. Le forme generose, fasciate di sgargiante seta rossa, scesero invitanti con lei a portata d’occhi del barista.
“Vedo che ci vai pesante” biascicò, riaggiustandosi con forzata indifferenza il codino erto.
Un piede penzoloni e l’altro premuto contro il bancone, Choji ghignava scomposto, osservando l’amico allontanarsi per riempire di liquido ambrato due sostanziosi boccali.
La schiuma traboccò, accompagnata dal sordo battere dei boccali sul bancone; con un esperto, noncurante movimento di polso, Shikamaru li indirizzò ai due clienti, facendoli slittare rapidi sul piano bisunto.
Choji si avventò sulla birra, avido.
“Una volta nella vita potresti scomodarti a portare i boccali fin qui” sbottò la donna, generando l’involontario agitarsi dei quattro eccentrici codini. L’interpellato s’immobilizzò, lo sguardo puntato oltre la spalla abbronzata di lei.
“Nara” Le sopracciglia arcuate scattarono in alto, mettendo in evidenza due verdi occhi felini. “Perché quella faccia?”
Shikamaru perse presto interesse per la porta del locale, tornando a puntare i gomiti sul bancone con indolenza. Choji dispiegò le labbra con aria sorniona e spostò grossolanamente il suo sgabello, ravvicinandolo a quello della ragazza.
“Stava guardando i tizi appena entrati” suggerì, suscitando lo sguardo interrogativo di lei.
“Yakuza” fu l’eloquente spiegazione.
“Cosa?” La ragazza si voltò di scatto, incurante del gesto palese.
“Mafia, Temari. Mafiosi” ghignò il corpulento ragazzo, tracannando un sorso di birra da soffocamento. Una vaga irritazione si diffuse bruciando per la gola di Shikamaru, provocandogli uno sbuffo contrariato.
Lo sguardo di Temari vagò accigliato sui tatami illuminati di luce fioca e ambrata. Immersi nella penombra, tre giovani sedevano in un angolo, sigarette fra i denti e occhio provocatorio.
Il barista si strofinò le mani nel grembiule con malcelato nervosismo.
“Non girarti così, Mendekouze”.
Ma l’attenzione di Temari rimase inesorabilmente concentrata sui tre ceffi, alternandosi tra la croce uncinata sulla fronte del più alto, i tondi occhiali scuri dello Yakuza che gli sedeva accanto e la prorompente zampa artigliata che svettava sullo sterno del terzo.
La mente di Shikamaru corse a rimembranze poco piacevoli mentre il giovane si sbottonava ulteriormente la camicia, esibendo per intero l’eccentrico tatuaggio di un segugio infernale, valorizzato dal ghigno tronfio del suo proprietario.

“Passane un po’ anche a me, Shika”
Il bancone tornò quieto, animato solo dalle sparute chiacchiere di Choji.
Sguardi furtivi saettavano attraversavano la sala di tanto in tanto, la gran parte dei quali era indirizzata all’appetibile cameriera e ai silenziosi Yakuza.
Certo, fra i pezzi da novanta c’erano anche banconote false.
Stazza bovina, tatuaggi tribali che serpeggiavano affilati su avambracci e collo, arrivando alle sottili sopracciglia brune, Sabaku no Kankuro sedeva vicino alla porta, ululando il suo brillo umore con un compagno di bevute immerso nella penombra.
Shikamaru sapeva che Kankuro non era uno Yakuza, contrariamente a quanto si sarebbe potuto dedurre dagli estesi tatuaggi. Non era che un coraggioso ribelle, un alternativo sfuggito alle redini della sua famiglia per ostentare sfacciataggine e violenza.
Il barista osservava, captava, immancabilmente ascoltava. Veniva a conoscenza dei fatti di tutti quei clienti che frequentavano abitualmente l’izakaya, convincendosi ogni giorno di più che ognuno portasse in petto un segreto oscuro.
Sapeva che Rock Lee era un disoccupato degenerato dall’alcol, conosceva ogni risvolto del suo pessimo trascorso. Sapeva che Karin, spesso in compagnia degli uomini di Sasuke, batteva la notte.
Sapeva che Sabaku no Kankuro aveva una sorella…
Stop. Quella era una storia proibita alla sua stessa memoria, facente parte della categoria ‘errori’. Si costrinse ad escluderla dalla propria mente affollata.
Conosceva dettagli e segreti di molti, troppi altri clienti abituali, talvolta beandosi inconsciamente delle loro disgrazie.
Schadenfreude.
Ma aveva la spiacevole sensazione di sentirsi imbattuto.
Osservò Choji scolare il suo bicchiere, lasciandosi invadere dai riflussi della mente.

Choji si ticchettò una guancia con le dita callose, sorridendo.
“Guarda come si sente caldo stasera In-”
“Inuzuka, sì” tagliò corto il moro. Le sue labbra si incrinarono in una smorfia di disgusto, specchio dei suoi pessimi pensieri.
“Yakuza, dite?” Le dita di Temari si serrarono sul manico del boccale in un movimento che di femminile aveva ben poco. “A me sembrano più come quell’idiota di mio fratello. Wannabe… ridicole imitazioni di gangster”.
Shikamaru e Choji si rivolsero un rapido sguardo prima di scoppiare in una risata roca. La giovane si strinse imbronciata nelle spalle, mettendo in evidenza le morbide curve.
“Le donne sono una razza sveglia, lo dico sempre” ghignò sarcastico il moro, allontanandosi per ascoltare l’ordinazione di un oscillante impiegato.
“La vedi quella cosa sulla fronte di Hyuga?” proferì burbero Choji, indicando l’uomo in questione con un cenno del capo ispido.
La donna si voltò accigliata verso gli Yakuza, discretamente seguita dalla coda dell’occhio di Shikamaru. Il ragazzo filò verso i boccali, senza però perdere di vista la traiettoria seguita da quei magnetici occhi verdi.
Neji Hyuga, scuotendo la lunga chioma corvina, stava ammonendo con uno sguardo di puro gelo il compagno dai capelli castani, la cui mano più simile a un’irsuta zampa di licantropo aveva sfiorato la gamba svettante della cameriera.
“Be’? E’ una svastica” osservò Temari con indifferenza, mentre Ino si allontanava indispettita dal tavolino dei tre uomini, un vassoio d’alluminio stretto fra le unghie smaltate.
“Sì, e una svastica non si tatua per gioco” borbottò Choji in risposta, serio.
Le iridi smeraldine di lei si soffermarono sulle impugnature di quelle che erano inequivocabilmente mitragliette, sporgenti senza alcuna discrezione dalle cinture dei tre.
Le labbra carnose si inclinarono sotto il debole morso degli incisivi, forse non tanto alla vista delle letali Wz63, quanto per la constatazione di avere nettamente torto.
Quelli erano veramente Yakuza.
E lei era veramente, sfacciatamente sexy.
Il forte odore della birra penetrò nelle narici di Shikamaru mentre il liquido scivolava sulle sue dita, traboccato dal boccale già pieno.
Imprecò. Chiuse bruscamente la manopola del distributore e schiaffò il boccale ricolmo di fronte all’avventore, ciondolante in attesa.
E come se non bastasse, al suo ritorno di fronte ai due clienti notò con disappunto che erano molto, troppo vicini. I loro sguardi erano rivolti all’unanimità verso il mafioso dalle imperscrutabili lenti scure, presi da una fitta conversazione.
“Davvero, non sai quel che dici” stava ridacchiando Choji, sventolandole una mano di fronte al naso. “Lo sai come lo chiamano, a quello?”
“Spara” buttò lì Temari, affondando nel suo boccale di Kirin.
“La mantide di Osaka” rivelò l’Akimichi, facendo schioccare le labbra nel sommo compiacimento delle proprie conoscenze. Il tono sfumò sibilante, conferendo al titolo dello Yakuza un tocco di inquietante mistero.
“Mantide? E perché mai?” borbottò Temari, scrutando rabbuiata il fondo spesso del boccale.
Shikamaru si allungò placidamente sul bancone, la mano a sostenere il mento, un sorriso sghembo a ravvivare l’espressione ironica.
“Non sai che cos’è una mantide, Sabaku?”
“Oh, certo che lo so” Abbaiò la bionda, le labbra scarlatte disegnate in una smorfia d’irritazione. “Ma non vedo cosa c’entri con quel… coso”
Un robusto braccio villoso le passò attorno al collo, seguito dall’odore delle parole di Choji. Vacillanti e pregne d’alcool.
“Ti consiglio di non urlarlo, Temari” sogghignò, le ispide ciocche ramate contro il viso di lei. “Le mantidi sbranano il compagno dopo averlo usato… si dice che Aburame abbia sulla coscienza la pelle di parecchie donne di strada”.
Shikamaru estrasse uno straccio malridotto e si dedicò alla pulizia del rigido piano, reso opaco da gocce di varia e sconosciuta natura. Un grugnito d’irritazione gli incupì la gola.
Un grugnito di gelosia; i suoi occhi ricadevano a intermittenza su di lei.

Shikamaru allontanò le mani dal bancone, posando lo sguardo su quello rabbuiato di Choji.
Stava pensando.
Succedeva a tutti, presto o tardi, trovandosi di fronte ad un bicchiere di sakè.
Scrutando in religioso silenzio il liquido scuro, si contemplavano il proprio passato, i propri errori, il proprio oscuro segreto decantato sul fondo di vetro.
Quello di Shikamaru era che pagava il pizzo.
Distolse bruscamente lo sguardo, ritirandosi nella cucina. Le bianche mura, i vetri, i tavolini.
Si sentiva stranamente attaccato a quello squallore, ben sapendo che l’integrità dell’intero locale dipendeva dai suoi pagamenti.
Gli Yakuza non erano soltanto mafia.
Erano le sue catene. Il legittimo proprietario del locale, suo padre, non sapeva nulla di ciò. Si limitava a fissare quegli eccentrici uomini tatuati con sguardo critico, ignaro del ricatto che suo figlio subiva.
Uno Shikamaru ormai inespressivo osservò sua madre gettare in una padella della cipolla appena tagliata, presa dall’affanno del suo compito di cuoca.
Che umiliazione.
L’Akatsuki aveva semplicemente capito che lui, Shikamaru Nara, non avrebbe mai confessato del pizzo alla sua famiglia, che non l’avrebbe mai messa in pericolo. Non era l’uomo ‘cazzuto’ che tutti consideravano suo padre, mai sarebbe stato in grado di uscire dal racket delle estorsioni con una denuncia.
La codardia gliel’avevano letta negli occhi.

*

“Ancora sakè, piccola?”
La donna storse il naso in una smorfia involontaria, roteando il contenuto del bicchiere sul fondo di vetro. Si ritrasse contro lo schienale dello scomodo divanetto squadrato, rivolgendo uno sguardo astioso al biondo stravaccato dall’altra parte della sala.
Un volto ghignante si avvicinò al suo, illuminato dalle psichedeliche luci laser.
“No, grazie” urlò oltre i forti battiti vibranti di musica, costringendosi a distogliere lo sguardo dalle numerose scostumate che si prodigavano contro i pali da lap dance.
Li fissò invece sulla chioma albina dell’uomo che le sedeva accanto, meticolosamente allisciata contro la nuca da un’abbondante dose di gel.
Hidan la osservò al di sopra del bicchiere, un sorriso obliquo dischiuso sui denti perfetti.
“Sembri a disagio… Temari” La sua lingua dardeggiò vogliosa nel pronunciare il suo nome, quasi gustandolo.
“Non mi piacciono i locali” replicò lei, indifferente.
Mi ricordano pessime esperienze.
L’uomo scoppiò a ridere, osservando con moderato interesse una ragazza appena maggiorenne dare inizio a un provocante strip-tease.
“Tranquilla, dolcezza. Siamo solo di passaggio” le sibilò nell’orecchio, avido. “Giusto il tempo di far parlare Sasori col nostro amico, qui… Pain. Questioni d’affari”.
“Pain… qui?” la bionda si sistemò bruscamente un ribelle codino biondo, storcendo le labbra carnose al ricordo dell’uomo devastato da piercing. Fortunatamente, aveva avuto l’onore di incontrarlo poche volte insieme agli altri della gang.
“Oh, è il proprietario di questo Night Club. Non te l’avevo detto?” Le iridi ametista di Hidan luccicarono d’interesse, vive. Temari sfiorò con lo sguardo il muscoloso braccio che le passava attorno alle spalle, tatuato –come del resto gran parte del corpo- a rappresentare fedelmente lo scheletro dell’uomo, invisibile sotto la cute lattea.
Tacquero a lungo, osservando con distacco i corpi sinuosi muoversi a ritmo del martellante rumore. Nel lasso di tempo in cui attesero il ritorno di Sasori, numerose ragazze appena maggiorenni sparirono dalla pista in favore di luoghi più appartati, accompagnate da uomini più o meno giovani.
Anche Deidara era sparito, accompagnato da due o tre figure lampeggianti vestite di pizzo.
Spazzatura.
Il braccio di Hidan attorno al collo le risultò stretto, mentre l’ennesima sfilata di ombre percorreva il suo volto abbronzato.
Temari detestava quel degrado, quell’abbandono totale al lato più animale e sporco dell’essere umano. Aveva sempre disprezzato quelle puttane, quelle bestie, quegli sfruttatori.
Ma dopo che anche la fazione ‘perbene’ del mondo le aveva voltato le spalle, cosa le rimaneva? La spazzatura. La vita in adattamento, trastullata dalla compagnia degli amici di suo fratello.
L’uomo dai capelli rossi li raggiunse, provocando una forte pressione delle unghie di Hidan contro la sua spalla. La bestia era ansiosa, bramava.
Temari si sottrasse impercettibilmente al contatto.
La pallida cute come sempre solcata da tatuaggi permanenti, Sasori sistemò distrattamente un sacchetto in una borsa a tracolla, puntando i fiochi occhi fulvi su Hidan. Così vicino all’albino, a diretto confronto, era davvero difficile stabilire quale dei tatuaggi dei due uomini fosse di gusto peggiore.
“Andiamo?” Hidan si sollevò dal divano in un fluido, sensuale movimento.
“Andiamo” rispose Temari, schioccando la lingua al sapore acre del vino di riso. Pose il bicchiere su un tavolino e li seguì all’esterno.
L’uomo dai capelli rossi attraversò la pista senza dire una parola, etereo e impassibile fra la folla di femminile carne vivente.
Le labbra scarlatte della donna si spalancarono a contatto con l’aria esterna, frizzante, strappando un sorriso ibrido di malizia e compassione a Hidan, che alto ed elegante al suo fianco, la osservava morbosamente.
Mantenendo sguardo lontano e silenzio serrato, Temari scortò i due uomini verso la Mercedes grigio metallizzato, godendo della libertà appena guadagnata.
Bar, taverne, izakaya, night club; quali che fossero, detestava fieramente i locali.
Con tutto il cuore.

Prima di realizzare che Kankuro era perfettamente in grado di badare a sé stesso -tanto da non aver bisogno del suo costante controllo-, prima di ammettere a sé stessa che se continuava a tornarci ogni sera il movente non era certo suo fratello, Temari detestava dover passare la serata nell’izakaya dei Nara.
A questo ripensava mentre, sventolando con fiera indifferenza un ventaglio di gusto tipicamente giapponese, sedeva di fronte ai due uomini, le gambe accavallate.
A destra sedeva suo fratello, i tatuaggi tribali ben visibili sulla linea della mascella e sulle braccia poderose. Mentre l’altro…
Capelli rossi, di un cremisi tanto bruciante da sembrare sintetici.
Anelli sofisticati alle dita affusolate, occhi di un rosso fulvo e un pessimo tatuaggio full-body, che ritraeva sul corpo proporzionato numerose giunture lignee; ben delineate e diffuse, lo facevano assomigliare ad un’inquietante marionetta fuori misura.
Sì, decisamente l’astio per l’izakaya dei Nara ritornava a vociare quando suo fratello gli presentava gente del genere.
“Questo è Sasori, Tem” biascicò Kankuro, battendo un pugno sul tavolino.
“Piacere” esordì fredda, gettando indietro la chioma biondo miele. Lo sconosciuto tese pacatamente una mano, che lei strinse con diffidenza. Quegli occhi fermi, rossi ma inerti come tizzoni morenti, brillavano di una luce che non le piaceva. Affatto.
“Viene spesso qui dai Nara e mi ha fatto conoscere i suoi amici… gente tosta” proseguì Kankuro ridacchiando, gli occhi torbidi socchiusi.
“Pensavo di presentarteli tutti, girano da queste parti stasera, eh Sasori?”
L’uomo si limitò ad assentire, ignorando composto la gomitata nelle costole appena ricevuta dall’amico. Le labbra di Temari si storsero in una smorfia appena percettibile.
Voltò una rapida occhiata al barista. Testa ad ananas stagliata contro le mensole stipate di bottiglie, Shikamaru stava fissando Sasori con espressione indefinibile.
Preoccupata, forse. Oppure… gelosa.
“Va bene, Kankuro” esclamò la donna, il tono inutilmente elevato. “Fammi conoscere gli amici di… Sasori, giusto? Saranno sicuramente molto interessanti”.
Gli occhi felini balenarono ancora un istante verso il bancone, in un luccichio di caldo compiacimento.

I palazzi decadenti di un’Osaka periferica filavano cupi oltre il ciglio della strada.
Un gioco iniziato per seduzione, per suscitare stupida, infantile gelosia.
E così si ritrovava in macchina con questi ‘amici di Kankuro’, tatuati dalla testa ai piedi. Con un fratello simile in casa ci aveva pur fatto l’abitudine.
Il motore rombava ovattato, accompagnato dai discorsi dei due uomini, sempre così incomprensibili alle sue orecchie. Ticchettava le unghie contro il cruscotto, ritmicamente.
“Lo stai strizzando troppo, quel Nara”.
Temari sollevò lo sguardo, rivolgendolo verso Hidan. Seduto sul sedile posteriore, l’albino ghignava sornione, rivolgendosi a Sasori.
Nulla da stupirsi. La donna scosse la testa, facendo ondeggiare le lunghe ciocche dorate. Frequentavano tutti l’izakaya dei Nara, inutile sorprendersi del fatto che conoscessero quella famiglia di…
“Quando torni dal ragazzo a riscuotere?” proseguì l’uomo, un noncurante divertimento a insaporire il timbro inconfondibile della voce viscida. “Shikamaru, giusto?”
Gli occhi felini di Temari si spalancarono, accompagnando un insano interessamento.
Il suo orgoglio di donna lo urlava: non avrebbe dovuto neanche ascoltare. Ma…
Riscuotere cosa?
“Sì, Shikamaru” fu la lapidaria risposta del rosso. Sasori fissava la strada, le accecanti luci notturne riflesse sulle lenti convesse dei costosi Ray Ban. “Passo sempre a fine mese. Ancora undici giorni”.
“Ah!” Hidan gettò la testa indietro, abbandonandosi a una risata appagata. Temari aggrottò la fronte. “Tanin no fukou wa mitsu no aji, come si suol dire” commentò, languido.
Un brivido corse lungo la schiena della donna nell’udire il proverbio.
‘I mali altrui hanno il sapore del miele’.
“Deidara ha avuto occhio” proseguì, la lingua fra i denti. “E’ decisamente il moccioso che non ha le palle di denunciare. Succhi da una preda perfetta, Sasori”.
Un colpo, una fucilata in petto. La bionda voltò lentamente il capo sul poggiatesta, improvvisamente confusa.
“Denunciare… cosa?”
“Il pizzo, cara!” Sasori sorrise appena alla dichiarazione estasiata di Hidan. “Shikamaru Nara deve pagare il pizzo per evitare che noi della Yakuza gli bruciamo il locale”.
Inconfondibile, viscida…
Schadenfreude.
Fraintese lo sguardo di Temari, pietrificato.
“Avanti, non dirmi che non lo sapevi! Lo sa tutta la città… tranne i suoi genitori” spiegò, un ghigno a fior di labbra.
“Voi… voi Yakuza?”
Per un momento, l’unico suono ad animare l’abitacolo fu il sibilo dell’aria contro i vetri scuri. La Mercedes si arrestò al semaforo, silenziosa.
“Cristo” osservò Sasori, tranquillo.
“Infatti” ringhiò l’albino, divertito. “Kankuro non ti ha raccontato nulla di noi, Temari?”
No.
Kankuro non le aveva mai detto che aveva a che fare con dei mafiosi.
Kankuro non le aveva mai detto che Shikamaru Nara veniva ricattato.
Un baratro di prospettive le si spalancò sotto i piedi, convergendo in un’esplosione frenetica di terrore.
“Questa è estorsione!” gridò, voltandosi furente verso i due uomini. “Voi…” Smise di pensare, sentendo il sangue salire alla testa come il magma si prepara a traboccare dal vulcano.
Si scagliò contro lo sportello, spalancandolo di slancio sotto lo sguardo allibito di Sasori.
“Ehi, bambola!” Il ruggito di Hidan la raggiunse, seguito dalla sua mano prepotente.
“Mollami!” sbottò, divincolandosi dall’impietosa stretta al braccio. “Mollami, stronzo!”
“Che succede, quando scopri che i giocatori sono sporchi ti ritiri?” rise, sprezzante, trascinandola dentro. Temari si liberò dell’uomo con uno strattone, maledicendosi per essere stata così ingenua.
Sapeva che non avrebbero mai osato torcere un capello a lei, ma…
Il suo pensiero corse dove non doveva.
Lui l’aveva abbandonata, proferendo la fine di una storia a cui non era più interessato. Non poteva, non doveva considerarlo ancora parte della sua vita.
La strada bruciava via, slittando rapida sotto i suoi piedi. Mai l’asfalto era stato tanto effimero mentre lo divorava a passo veloce, i capelli dorati che morivano in scintille nel buio della notte.
Doveva parlare con Kankuro, al più presto possibile.

*

La mano sudata scivolò oltre la guancia, sull’orecchio, nei capelli ormai arruffati dal nervoso passaggio delle dita inquiete. Storse la bocca, sentendo la cute rigarsi sotto le unghie ormai spezzate.
Faceva freddo, schifosamente e incessantemente freddo.
Il tempo passava; troppo lento, troppo veloce.
Non avrebbe saputo dirlo. Semplicemente, mentre sedeva scomposta in cucina, ripeteva a sé stessa che avrebbe ammazzato Kankuro non appena avesse rimesso piede in casa.
Le sue gambe sembravano rifiutarsi di rimanere ferme, i muscoli contratti dalla tensione le provocavano mugolii di dolore repressi. Abbandonò la testa sul tavolo, percependo con un brivido il freddo legno sulla guancia.
Il degrado e l’abbandono facevano bella mostra ovunque nella gelida stanza; dalle maioliche scalzate del pavimento alle decine di oggetti abbandonati su mensole e ripiani, un vuoto silenzioso dilagava percettibilmente per tutto l’appartamento.
Un organo vitale in meno, un pezzo di famiglia decaduto, da quando Gaara se n’era andato. Da quando aveva intrapreso la lunga strada già battuta dal padre per diventare avvocato, guidato da una cieca ambizione, disconoscendo Kankuro come suo fratello. Un indegno, un delinquente di strada, sostenuto da quell’uomo mancato di sua sorella; forte di giudizi cinici e incapacità di provare rimorsi, il più giovane dei Sabaku si era discostato dalla sua famiglia, sorridendo di gelida soddisfazione per la propria carriera ben spianata all’orizzonte, contrapposta ai fallimenti universitari di Kankuro.
Schadenfreude.
Sempre lei.
E così Gaara aveva preso il volo. Primo abbandono, seguito da una serie di altri non meno dolorosi. Le dita di Temari si serrarono convulsamente sui palmi. A lungo i suoi occhi, brucianti, si posarono scivolando sulla cucina ampia e spoglia, senza realmente vederla.
Poi, finalmente, il suono del campanello arrivò. Sollevò immediatamente la bionda testa sfatta, sentendo la guancia appiccicata al piano ligneo distaccarsene dolorosamente; il cuore che le martellava in petto, corse per il corridoio e spalancò la porta d’ingresso, di slancio.
Una folata di gelido vento invase l’ingresso, inducendola a socchiudere gli occhi.
Storse il naso. Se non avesse avuto qualcosa di molto importante da riferire al fratello, gli occhi li avrebbe chiusi direttamente. Kankuro barcollò.
Fradicio. Ubriaco fradicio. Come sempre, d’altronde.
Le braccia tatuate pendevano inerti lungo i fianchi, seguendo il febbrile spostamento che effettuava alla ricerca dell’equilibrio; gli occhi di un verde cupo erano vacui, arrossati, la bocca dischiusa in una smorfia inebetita.
Reprimendo le lacrime con un ringhio, Temari lo afferrò per un braccio e lo trascinò dentro, suscitando colorite proteste nel ragazzone.
“Piano, cazz… ehi!” La ragazza lo strinse con maggior vigore, sino a sentire la pelle robusta congelarsi nella sua morsa d’acciaio. Si arrestò in cucina, dopo averlo spinto malamente a sedere.
Lasciò che le sue ispide ciocche castane si spargessero sul muro, che gli occhi stanchi si rivolgessero al soffitto nel gettare la testa indietro; poi, afferrandogli le spalle con forza, lo costrinse a guardarla in faccia.
“Perché non mi hai detto niente?” urlò, priva di controllo. Lo sguardo di Kankuro vagò per il suo volto paonazzo, annebbiato. Dalle labbra secche sgorgò un biascichio confuso:
“Che… sei fuori di testa?”
“Tu lo sapevi!” continuò Temari, una luce ancor più disperata negli occhi. “Tu sapevi che Sasori e gli altri sono mafiosi! Per quale cazzo di motivo non mi hai detto nulla?”
La mano del fratello si strinse impietosa sul suo polso, bloccandole i movimenti. Con un solo, fermo sguardo irrazionale la mise a tacere, ringhiante. “Lasciami…”
La ragazza indietreggiò, la frangia umida che ricadeva scomposta sugli occhi sbarrati. Kankuro reagì come una bestia minacciata, la percezione distorta dall’alcol; la spinse via con forza, mandandola a cozzare di fianco contro il lavandino con un solo, disperato colpo di mano.
Temari filò fuori dalla stanza, gli occhi umidi, inorridita e spaventata. Frustrata, oltre ogni dire.
Non poteva far nulla per lui, né lui poteva esserle di alcun aiuto. Aveva imparato a gestire le sbronze di suo fratello con la reclusione, di lui o di sé stessa.
Si chiuse la porta alle spalle, ruotò la chiave nella toppa e crollò riversa sul letto disfatto, esausta.
La sua mente aprì le porte a pensieri di ogni genere, che si affollarono impazziti per la sua testa martoriata. Primo fra tutti, un lume accecante, doloroso.
Ricattato dalla Yakuza. E non me l’ha mai detto.
Si coprì gli occhi con un braccio, respirando affannosamente.
Forse non si fidava veramente di lei.
Forse aveva soltanto avuto paura.
Ad ogni modo, le aveva nascosto la verità; e ciò non era che una variante del comune termine ‘mentire’.
Bugiardo.
Shikamaru era stato un bugiardo.
Un codardo che si rifugiava dietro una maschera pur di sfuggire ai problemi.
Temari si maledisse ancora, per non aver colto i piccoli segnali, per non essere stata in grado di comprendere dalle esperienze apparentemente più insignificanti. Digrignò i denti, lasciando che le immagini le invadessero la mente, correnti in un dirompente flusso di ricordi.

“Bugiardo”
Le sopracciglia di Shikamaru si aggrottarono, interrogative.
“Che c’è ora?”
“Bugiardo” ripeté, la voce che sgorgava a fatica dalla schiera di denti poco finemente digrignati.
Il ragazzo non indietreggiò neppure quando lei sollevò bruscamente un braccio, fasciato nella larga camicia da notte. Continuava a ostentare quell’odiosa espressione annoiata, da schiaffi.
“C’è che mi hai detto… che avresti avuto il turno fino a tardi all’izakaya”sbottò, quasi boccheggiando, i codini che danzavano furiosi attorno al viso arrossato. “E che non saresti potuto venire a cena con me stasera!”
Shikamaru roteò gli occhi, un pesante sbuffo a fior di labbra. Temari sedette bruscamente sulla lavastoviglie, le gambe nude che spuntavano oltre l’orlo fiorato della veste.
“Avanti, Tem… non potevo mica dirti che c’era la partita” buttò lì, con tutta l’aria di un padre razionale che tenta di far ragionare la figlia isterica. “Mi avresti sbranato se ti avessi detto che per stasera ti avrei piantato per vedere partita con Cho-”
“Ma l’hai fatto!” strepitò la bionda, piombando a piedi scalzi sul pavimento. “E’ questo il punto, l’hai fatto!”
“Avanti, seccatura… sono passato qui per stare con te, non ti ho mica dimenticata” sospirò lui, ficcandosi le mani in tasca con aria profondamente spossata.
Non si preoccupò neppure di chiederle come avesse scoperto che l’izakaya era in realtà chiuso, come avesse capito che era da Choji a vedere la partita. Menefreghista al massimo.
Temari gli diede la schiena, dirigendosi verso la camera da letto; pochi passi e lui la raggiunse, cingendole la vita con delicata lentezza.
Labbra calde le sfiorarono il collo, facendola rabbrividire.
“Dai, seccatura… mi perdoni se ti faccio compagnia stanotte?”
Le sfuggì un sorriso morbido, che represse con efficacia. Non si addiceva né a lei, né alla situazione.
“Non è questione di perdono, Shika” mormorò sciogliendosi dall’abbraccio, più quieta. “E’ che se mi racconti bugie per cose così piccole, posso davvero fidarmi di te?”
Si voltò, i loro sguardi s’incontrarono.
“Chi mi dice” proseguì, piano “che tu non mi nascondi anche cose più grandi?”
Un’ombra passò sul volto di Shikamaru.
In distaccato silenzio, distolse lo sguardo dal suo.

Il retrogusto amaro del sakè pervadeva ancora la sua bocca. Affondò il viso nel cuscino, sentendo il viscido contatto della stoffa bagnata impregnarsi di mascara.
Una lunga serie di colpi risuonò alla porta, ritmica; si rannicchiò su un fianco e attese che Kankuro terminasse di bussare, ignorandolo. Quando i passi del fratello si affievolirono, strascicando finalmente oltre la porta della sua stanza, Temari si morse con violenza il labbro inferiore. Serrò le palpebre.
Cosa avrebbe dovuto fare?
Avrebbe potuto denunciare, conoscendo i nomi degli Yakuza.
Avrebbe potuto… non fare. Perché sudare? Per chi, per lui?
Avrebbe potuto lasciarlo marcire, guardarlo morire lentamente, logorato dal racket.
E sarebbe stata meravigliosa, giustissima…
Schadenfreude.
O forse no.
Dormì un sonno inquieto, disturbato, contaminato. Spaccato in due.
Il suo orgoglio sanguinava da più parti.


***

Angolo dell’autrice:
Ok, questo è stato il mio primo concorso. Ho lavorato un mese e mezzo su una trama, poi… blocco creativo e cambio di programma. Ho sviluppato un’altra idea (questa) e l’ho elaborata durante un viaggio che sono stata costretta a fare. Quindi, negli ultimi quattro giorni di tempo rimasti, ho scritto come una pazza frenetica.
-Ho dovuto segare un giorno di scuola per fare in tempo a consegnare
-Ho praticamente avuto una crisi isterica per fare in tempo a consegnare
-Stressss… =_=
Alla fine non ero neppure così soddisfatta del risultato, ho trovato la fic… frammentaria. Ho elaborato la trama e le varie parti in giorni e giorni, ma in il risultato non mi soddisfaceva ugualmente. Morale della favola, mi sono letteralmente ammazzata.
Per questo la mia sconfinata gratitudine va ai due giudici del concorso bambi88 e arwen5786. *occhioni enormi* Sapere che tutto questo casino (sì, ho anche creato qualche problema con la casella e-mail perché non inviava la fic! Yay ^^) è stato apprezzato al punto di meritare il primo posto mi fa sentire… sì felice. Ci tenevo tanto a questo concorso, davvero.
Grazie.
Che altro dire? ^^
Spero che leggendo apprezzerete questa fic. Fatemi conoscere i vostri pareri! ** Posto il secondo capitolo.. uhm.. Mercoledì. Sì, Mercoledì.
Un bacio enorme a tutti, soprattutto ai nostri giudici e a tutte le partecipanti al concorso!
Chime

EDIT: Piccola aggiunta, sarò breve: per favore, non aggiungere questa fic ai preferiti se non avete intenzione di recensire . Ve lo chiedo come cortesia. Molte persone lo fanno, e ti lasciano quel senso come di... "Non saprò mai cosa le abbia spinte ad aggiungere ai preferiti la mia fic. Sarà piaciuta? Ci sarà finita per caso? Boh!"; per questo ho preso l'abitudine di ringraziare via e-mail queste persone, chiedendo la gentilezza di scrivermi il motivo per cui hanno apprezzato la fic, per e-mail o per recensione che sia.
Grazie in anticipo e a presto!
  
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