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Autore: Durhilwen    01/12/2013    4 recensioni
“Ma io non voglio... che cosa sei?” sembra una domanda sfacciata, antipatica, ma dopotutto è lecito che io, essere umano, chieda una cosa del genere ad un’aliena.
E’ questo che è, giusto? O forse...
“Una sirena.”
L’ha detto.
Rimango sinceramente spiazzata, poi le sorrido di nuovo perché non so proprio cosa dire.
Genere: Fantasy, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sento un brivido percorrermi la schiena scoperta, il piumone è ai piedi del letto, probabilmente caduto a causa del mio sonno alquanto movimentato.
Ricordo di aver sognato qualcosa di strano, ma attualmente mi sfugge il dettaglio.
Allungo un braccio oltre la sponda e riprendo la mia coperta calda, mi ci avviluppo come un bruco col suo bozzolo.
Il pallido sole di novembre fa capolino dalla finestra, sento il suo calore sulle guance: la luce si fa strada nelle tenebre con calma, portando in vita la mia stanza come ogni giorno.
Deve essere davvero presto, così mi decido a vedere l’ora, e le quattro e trentasette in verde neon della sveglia si incastrano tra le mie palpebre.
Mi concedo dieci minuti tanto per ricordarmi come mi chiamo, poi decido che è ora di godersi questo sabato.
Apro l’armadio piano, prendo una maglietta a collo alto, un paio di jeans e un maglione pesante, poi in bagno mi sciacquo il viso e mi vesto in silenzio.
Sistemo quei ciuffi disordinati che sono i miei capelli e scendo le scale senza il minimo rumore.
In cucina apro lo scaffale e vi trovo un pacchetto di biscotti con gocce di cioccolato, perfetti per l’occasione.
Lo poggio sul tavolo, poi rovistando nei cassetti trovo una penna e un blocco e lascio due parole ai miei:
 
“Se non mi trovate, non cercatemi. Sono andata al mare, torno più tardi.”
 
Ormai ci sono abituati, sarà strano ma è così: il sabato per me non è un giorno per stare con gli amici, ma il ‘giorno del mare’.
Mi alzo presto, esco di casa quando il sole non si vede ancora e torno verso metà mattina.
Tutti i sabati, tutte le settimane, tutto l’anno, da quando di anni ne avevo 12.
Mi piace stare lì a vedere l’alba, col mare che si tinge di blu e il cielo di rosso, il rumore delle onde, la sabbia sotto i piedi: vale più di 100 sabati in mezzo alla gente.
Lascio il foglio in bella vista sul tavolo, prendo i biscotti, un cappello e un paio di guanti, poi scappo nel silenzio più totale.
Sono circa le cinque, direi quasi di essere in ritardo per i miei standard.
Appena chiudo la porta il freddo comincia a farsi sentire, sento le mani intorpidite all’improvviso, la punta del naso farsi gelida e le guance immagino siano color papavero.
Ma non importa, fa tutto parte della magia del momento.
Corro in strada, giro a destra, ancora a destra, poi prendo la prima a sinistra e continuo a correre mentre la città si sta svegliando.
Finalmente raggiungo il lido: la sabbia scura è fredda al tatto, ma non umida, il mare è calmo, non ci sono increspature, il color petrolio tipico della stagione conferisce al luogo un’atmosfera lugubre, se non fosse per quel cielo rosato.
Scavalco la staccionata con agilità, mi avvicino alla riva e con la punta delle dita sfioro la superficie cristallina: sembra ghiaccio.
Con il sorriso stampato sulle labbra mi vado a sedere su uno scoglio piatto affacciato direttamente sull’acqua, quello che io chiamo ‘il mio scoglio’.          
I biscotti sono proprio quel che ci vuole: la pasta friabile è una delizia per il palato, e le gocce di cioccolato mi lasciano un sapore dolceamaro molto piacevole.
Il sole sorge, è meraviglioso: ogni sabato è una sorpresa, è una gioia nuova.
E’ strano, no? Ripetere lo stesso rituale da due anni e non stancarsi mai, pur sapendo ogni volta che quella giornata non avrebbe portato niente di nuovo.
Eppure oggi ci deve essere stato un errore, perché sento che qualcosa di nuovo sta per succedere.
 
Nel silenzio assoluto sento un pluff molto delicato, alle mie spalle.
Mi giro piano e avverto un movimento non umano nel punto in cui l’acqua del mare tocca gli scogli.
Finisco di girarmi e li vedo chiaramente: due grandi occhi blu notte che mi scrutano impauriti, ma con una punta di curiosità.
Non ho idea di cosa sia quella creatura strana, certo non ne ho paura, così provo ad alzarmi in piedi per avvicinarmi ma la cosa si rituffa dentro alla svelta.
Scorgo dal riflesso dell’acqua una coda, più lunga e filiforme di quelle dei delfini; e il busto semi umano.
Non riesco a vedere la mia faccia, ma immagino le pupille dilatate e la bocca spalancata.
Non esistono, sono creature mitologiche, lo sai bene.
Ma non mi convinco.
Così mi metto di nuovo seduta, il più immobile possibile, e aspetto.
Il sole sorge completamente, il rosa cede il posto all’azzurrino e poi al blu, la luna scompare.
Deve essere quasi mezzogiorno, e non vedo ancora niente.
Pazienza, per questa volta torno a casa.
Così decido di scendere e mi avvio, un po’ delusa sinceramente, ma contenta.
Ora che ci penso credo di aver visto con la coda dell’occhio uno strano spruzzo, ma non ne sono poi così sicura, potrebbe essere il riflesso del sole sul mare, o qualche pesce.
Sta di fatto che la curiosità è un pregio, ma anche un difetto, e per tutto il resto della settimana provo a disegnare quello che ho visto, a ricordarlo bene, ma più ci penso più lo vedo sfumarsi.
Il sabato successivo mi siedo sullo stesso scoglio, esattamente nello stesso punto della volta precedente, ma girata dall’altra parte.
Passano le quattro e non succede nulla...
Le cinque...
Le sei...
Verso le sei e mezza, mi accorgo di essermi quasi appisolata e aprendo gli occhi vedo quella cosa che mi guarda.
Se ne sta a circa due metri da me, completamente sotto la superficie dell’acqua, ad eccezione degli occhi e delle mani.
Mi ci soffermo con più attenzione e noto che sono simili a quelle umane, ma palmate come quelle delle ranocchie, lunghe dita affusolate.
La poca pelle che riesco a scorgere del corpo e di un pallido celeste, quasi luminoso. Intravedo delle squame.
E la cosa strana di tutto ciò, non è l’aspetto da creatura aliena, ma il fatto che io non mi stupisca affatto di vederla così: vorrei anzi che si mostrasse intera, qualsiasi cosa sia.
Provo ad alzare la testa e noto che sgranando gli occhi si abbassa: ha molta paura.
Non so sinceramente che fare, così provo ad abbozzare un sorriso, e vedo un effetto positivo: riemerge un poco, e dalla curva che prendono gli occhi suppongo stia sorridendo a sua volta.
Vorrei scorgere la bocca di quella cosa: piena di denti affilati pronti a squarciarmi la gola?
Direi che quando si scopre una specie nuova di qualche essere mai visto prima i denti non siano un dettaglio così irrilevante.
Me ne sto qualche minuto ferma a guardarla, poi provo un contatto: “Ciao!” le parole non mi escono.
Rimangono in gola, bloccate da non si sa cosa; eppure le labbra sono sicure di averle mosse.
Mi risponde una voce nella testa: ”Ciao...”
E’ chiara e particolarmente giovane, una ragazza.
Ora capisco, quella cosa ed io ci stiamo parlando telepaticamente.
A questo punto comincio a pensare di stare impazzendo, perché nella realtà tutto ciò è riservato alle favole per bambini.
Eppure sembra così vero...
Ci fissiamo al lungo, poi riprendo: “Guarda che non ho intenzione di farti del male.”
Lei rimane un po’ sorpresa: “E invece si.”
No, non me l’aspettavo.
Ma cosa dice?
“Come fai a pensarlo?”
“Lo so, mi hanno già fatto del male.”
“Ma io non voglio... che cosa sei?” sembra una domanda sfacciata, antipatica, ma dopotutto è lecito che io, essere umano, chieda una cosa del genere ad un’aliena.
E’ questo che è, giusto? O forse...
“Una sirena.”
L’ha detto.
Rimango sinceramente spiazzata, poi le sorrido di nuovo perché non so proprio cosa dire.
Lei riprende la parola (per così dire) e comincia a farmi le domande sul perché vengo qui ogni sabato.
“Mi hai vista? Mi hai spiata?”
“No... ma ogni sabato ti vedo qui, sopra la mia casa. Vuoi farmi del male, vero?”
“Ti ho detto di no, perché ti ostini a pensare che io voglia farti male?”
“Perché fate tutti così.”
“Tutti chi?”
“Tutti.”
Sul serio, non riesco a capire bene a cosa si riferisca, ma quasi mi fido, decido di crederle.
Non so ancora chi sia quel ‘tutti’ mi convinco che magari un giorno me lo dirà.
“Posso sapere come ti chiami?” azzardo io.
“Demetra, e tu umana?”
Che strano sentirsi chiamare così, con lo stesso tono con cui noi appelliamo gli estranei, i diversi...
“Annie.”
La tensione è quasi palpabile in quella frazione di attimo.
“Quindi non vuoi farmi nel male.”
Dovrebbe essere una domanda, ma io la capto più come un’affermazione.
Sento poi che il suo tono è cambiato, si è fatto un po’ più sereno, più fiducioso.
“Esattamente. E... ora posso muovermi senza che ti spaventi? Sto scomoda così.”
Demetra si allontana un poco, poi annuisce e io mi siedo meglio, pur rimanendo alla stessa distanza da lei che mi sta quasi scannerizzando con gli occhi.
Con rinnovata scioltezza continuiamo a discorrere di noi, e io riesco addirittura a muovere di tanto in tanto le mani per gesticolare: è un buon risultato, no?
“Si è fatto tardi, è quasi mezzogiorno...”
Lei mi fissa dritta negli occhi e avverto una punta di tristezza in quello sguardo.
“Va bene, va’. Torni sabato?”
Mi stupisco di questa richiesta, quasi ad affermare che le chiacchiere fatte con lei non siano state vane.
“Ma certo, tornerò.” concludo.
Poi mi alzo piano e lei mi sorride, prima di immergersi completamente e tornare sotto.
Raccolgo le mie cose e torno a casa.
Da quel giorno ogni settimana ho qualcuno con cui parlare il sabato mattina, e il nostro strano legame si rafforza.
Posso muovermi liberamente, posso avvicinarmi, gesticolare a braccia aperte e lei non si spaventa più, anzi, scherza con me.
 
Passano due mesi, è fine gennaio.
Niente neve esattamente come gli anni passati, ma sempre lo stesso gelo; è dura andare a trovare Demetra in queste condizioni, così abbiamo deciso insieme di rimandare i nostri incontri ad un orario più tardo, in genere ci vediamo verso le dieci e mezza.
Così anche oggi sono qui, che corro sul lastricato davanti casa per raggiungerla alla spiaggia: sento il vento che blocca i muscoli, il freddo nelle ossa, ma continuo a correre, sperando di scaldarmi un poco.
Arrivo trafelata e sicuramente color semaforo in viso, e vedo la testolina liscia di Demetra fare capolino da dietro lo scoglio.
E’ strano il nostro legame, è come qualcosa che in qualche modo doveva accadere, qualcosa di già scritto.
Saranno solo fantasticherie mi dico sempre, ma continuo ad essere fedele al mio intuito.
“Ciao, Annie!” mi fa lei, con un sorrisino delicato, ed iniziamo a parlare, poi ad un certo punto si alza un poco e mi fa una domanda che mi lascia letteralmente spiazzata: “Vuoi vedere casa mia?”.
Io sento l’impulso di dire ‘no, guarda, mi piacerebbe moltissimo ma non vedo proprio come potrei andare sott’acqua senza un paio di bombole e una muta’ ma tutto quello che mi esce è: “Si, certamente!”.
E’ quasi come una trance, vedo quello che succede senza esserne io la protagonista, solo una spettatrice.
Mi avvicino a lei, cauta, un po’ spaesata forse, ma non faccio in tempo a chiedermi cosa devo fare che la sua mano palmata mi afferra un braccio e mi scaraventa in acqua.
L’impatto con la superficie l’avrei immaginato doloroso, pungente, oserei dire letale, ma più che una morsa di ghiaccio mi sembra un tuffo nello zucchero filato.
Sento il vuoto intorno, un suono ovattato costante e la testa leggera; riesco a stabilizzarmi e ciò che mi fa quasi svenire dallo spavento sono le mie gambe: si muovono da sole, si avvicinano, si toccano... le vedo diventare di un colore scuro, si uniscono in una coda palmata e sento le branchie squarciarmi il collo.
Respiro.
“Ma... che succede? Insomma, tutto questo non può essere reale!” le chiedo, con un tono abbastanza isterico, ma lei si limita a sorridermi e a porgermi la mano.
Lo sento ancora, quel presentimento che mi dice ‘forza, vai, sappiamo entrambi che la tua curiosità ti porterà a scoprirlo’ così mi decido, le prendo la mano e mi faccio trasportare.
E’ la prima volta che la vedo intera: la sua coda è cerulea, come d’altronde la sua carnagione, il volto spigoloso, le braccia lunghe e delicate, sembra quasi una dea.
E’ strano, non ho mai visto altre sirene ma sono convinta che lei sia davvero bella nel loro mondo.
Comincia così il mio breve viaggio: la discesa è lunga, sembra non finire mai, immersa in quel buio totale mi affido totalmente a Demetra.
Le stringo la mano in cerca di conforto: “Ci siamo quasi!” dice lei, e sento nel suo tono di voce un’eccitazione.
Mi deve volere davvero bene per portarmi quaggiù, a scoprire la sua casa.
Ed ecco che dal buio più totale vedo una luce abbagliante che rischiara tutto: mi copro il volto con le mani (palmate, ovviamente) e quando sento che questa specie di onda luminosa si è ritirata spalanco gli occhi.
Davanti a me, torri e castelli di corallo, pesci dai mille colori che mi girano attorno incuriositi, enormi bandiere che sventolano a ritmo della corrente, sirene e tritoni che nuotano interdetti.
Credo di avere la bocca spalancata, perché sento Demetra chiedermi: “Senza parole eh? Vieni, andiamo a fare un giro!”.
Quindi è questo il loro mondo! Un mondo di colori, di allegria, dove la gente è serena e in armonia, dove non ci sono preoccupazioni, dove tutto è così bello da far mancare il fiato.
Cominciamo ad addentrarci tra i palazzi, e noto dagli sguardi divertiti di chi mi sta intorno che la mia faccia è il ritratto della meraviglia.
Possibile che l’uomo non abbia ancora scoperto niente di tutto questo?
Possibile che si sia fermato all’apparenza?
“Senti Demetra...” inizio “come mai nessuno di noi esseri umani ha mai scoperto questo posto? Sarebbe bello, no, che anche la nostra gente vedesse tutto ciò.
Di sicuro se ne farebbe un luogo turistico, tantissime persone ogni anno verrebbero...” ma mi interrompo, perché vedo che sul volto della mia amica stanno iniziando a cadere perle leggere.
“Ehi, ehi, scusami! Ti ho... offesa? C’è qualcosa che non avrei dovuto dire?” provo a rimediare.
Lei si asciuga le lacrime con un gesto veloce della mano e me la porge: “Seguimi, c’è qualcosa che devi vedere.”
Afferro il suo arto e cerco, con una stretta, di infonderle sicurezza: “Va bene, mostrami.”
Iniziamo così una corsa sfrenata fuori città, sento della tensione nella sua presa; ogni tanto mi dice qualcosa come un “E’ importante che tu lo veda” o “Capirai” ma sinceramente non ho ancora capito nulla.
Ad un certo punto, dopo una mezz’ora buona di velocità, ci fermiamo davanti ad un’enorme caverna, immersa nelle tenebre.
“Questo è come il vostro... com’è che lo chiamate? Cinema, si...” ma sembra che parli da sola.
Entriamo, lei sicura, io un po’ più titubante e malferma.
Appena varco la soglia del buio vengono sparate delle immagini sulla parete di fronte a me: è come un filmino, un cortometraggio in bianco e nero.
Vedo un paio di marinai su una grande nave, un peschereccio, che con un arpione enorme vanno uccidendo le balene; vedo il sangue che tinge di rosso le onde spumose.
Vedo un volantino dell’ottocento in cui viene raffigurata una sirena imbalsamata, esposta ad una mostra di animali esotici;
vedo una serie di avvistamenti di sirene da parte degli esseri umani, che iniziano con la caccia; vedo come vengono distrutte le barriere coralline, come intere colonie di pesci vengano annientate per la costruzione di ponti, o peggio, di tunnel sottomarini;
vedo come le petroliere e le loro perdite siano causa di disastri ambientali in tutto il mondo, ogni anno.
Finisce così la proiezione, e io mi giro verso Demetra: “E’ terribile..” dico con un filo di voce.
“Ora capisci perché vogliamo tenere tutto nascosto, capisci perché il nostro primo incontro ero così titubante, capisci perché ho avuto problemi a fidarmi di te?”
Provo a rispondere, ma le mie labbra non emettono alcun suono: c’è qualcosa che non va.
I contorni di Demetra iniziano a sfumare, la vedo quasi diventare una macchia di colore un po’ allungata; sento una voce nella mia testa: “Il tempo è scaduto, devi tornare”.
E qualcosa mi trascina indietro, una forza strana mi fa allontanare da quel che resta della mia amica, mi porta fuori la grotta.
Sento un dolore lancinante all’altezza delle ginocchia: si stanno staccando!
Sento dolore in ogni fibra del mio corpo, non riesco a muovermi, vorrei urlare ma capisco troppo tardi che le branche sono scomparse.
Un’enorme quantità d’acqua attraversa la mia gola, arriva alla trachea con foga e sento il cuore smettere di battere.
Buio.
Sono morta?
 
Mi sveglio di soprassalto, respirando affannosamente e tenendo le mani sul petto, come per accertarmi che il mio cuore stia ancora battendo.
Cerco di sedermi, mi tremano le gambe, ma riesco ad arrivare in bagno e bere una sorsata d’acqua; va già molto meglio.
Ritorno in camera senza oscillare, e scopro (ironia della sorte?) che sono esattamente le quattro e trentasette.
Ma era solo un sogno, no? Come è possibile che...
I miei piedi avvertono qualcosa di sottile e granuloso sul pavimento freddo: sabbia.
Sento il cuore martellare con foga, e in preda alla curiosità irrefrenabile arraffo le prime cose che mi capitano e corro in strada.
Ansimo, cerco di respirare regolarmente ma un po’ il freddo, un po’ l’ansia provocano alla mia milza fitte atroci.
Eccola là, la spiaggia.
Ancora nella penombra del mattino, ma per poco perché il sole sta per sorgere.
Tenendomi il fianco con una mano, arrivo fino allo scoglio col fiatone, salgo su di esso e aspetto.
Niente di nuovo o strano, perfetto, faccio quasi per girarmi ma con immensa gioia vedo il primo raggio del mattino: il cielo si tinge di rosa chiaro, il blu lascia spazio all’azzurro, e io quasi cado all’indietro alla vista di Demetra.
Fa capolino da dietro il solito scoglio, rimane immobile: “Si, ho capito davvero!” mi escono le parole quasi prima di averle formulate con la mente.
Ci guardiamo negli occhi: mi fa un sorriso, un occhiolino e la vedo immergersi di nuovo.
Si, ho capito davvero.

 
   
 
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