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Autore: Val_Ser    01/12/2013    1 recensioni
Dietro gli alberi ci baciavamo, ci stringevamo, mescolavamo le nostre pelli senza pensare ad altro. Il regime spariva, crollavano i pregiudizi e le paure, diventavamo gli araldi del peccato, coscienti di trasformare quella che tutti consideravano ‘sodomia’ in amore. Fintanto che il sole non tramontava, eravamo due anime separate, bramose di incontrarsi lontane dagli sguardi di accusa. Sceglievamo i luoghi più appartati, dove nemmeno lo sguardo di Dio poteva raggiungerci, e nel buio, lontano dai tumulti, ci consumavamo sulle ceneri dei fuochi interiori. Non volevamo farli tacere. Non avremmo saputo come fare, in ogni caso.
Genere: Angst, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Meraviglia Manifesta

 
            Vi siete mai seduti ad una finestra? Non davanti, poggiando i piedi sul pavimento, sicuri che i metri che vi distanziano dalla strada, dall’interno delle vostre case, non possano minacciarvi. Intendo proprio in maniera opposta, dando la schiena alla stanza dove vi trovate, le gambe penzoloni nel vuoto, accomodati su quei pochi centimetri di marmo o pietra o di qualsiasi materiale l’architetto abbia scelto per voi.
            Provate.
            Io lo sto facendo adesso. È incredibile come si diventi improvvisamente coscienti di ogni centimetro del proprio corpo. Tutto quello che importa, adesso, è l’equilibrio. Non me ne manca, credo. Lo voglio sperare.
            Mentre sto qua, nessuno mi presta attenzione. Sono solo io, in un teatro minore di Lisbona, in una stanza dimenticata e polverosa. Fra poco terminerà l’ultimo spettacolo e io dovrò dare una mano a ripulire, prima di tornare nel mio appartamento, stanco come tutte le altre interminabili sere.
            Se scivolassi, per sbaglio, finirei in un vicolo e sarebbe finita lì. Morto, schiacciato dalla gravità. Mi ritroverebbero domani mattina, forse darei l’ultimo, fatale attacco di cuore a Iago, il custode.
            Probabilmente non più di dieci persone saprebbero del mio incidente. C’è chi muore come Marilyn Monroe o il presidente Kennedy, e gente che muore come morirà Iago. In silenzio, senza troppe indiscrezioni, senza neanche un titoletto di giornale. Io lo so bene.
            Nel 1938, in seguito al rifiuto del Primo Ministro di firmare il Patto Anti-Comintern, scoppiò il caos da Algarve a Viana do Castelo. I comunisti vennero repressi in maniere barbare e sanguinose. Il regime aveva deciso che “Deus, Pátria e Familía” dovevano essere i miei valori.
            Quello stesso anno li persi tutti. Mi sarei inginocchiato davanti a quel Dio, avrei rafforzato la mia fede cattolica e avrei appeso in casa un crocifisso, chiedendo perdono per i miei peccati, facendo affidamento sulla Sua misericordia. Tuttavia, la mia patria uccise l’uomo che amavo, togliendomi ogni prospettiva di avere una sorta di felicità, in un giorno lontano dalle condanne di Salazar. Anche Dio volse lo sguardo ad altri orizzonti.
            Ho smesso di lottare da ventisette anni. Non ho accarezzato gli ideali dei due decenni passati, non me ne importava niente. Ora, arrivato a quarantasette anni e a metà degli anni Sessanta, non capisco perché sia ancora qui. Perché non lasciare che la gravità mi schiacci?
           
            Quando scoppiavano i tumulti, io lavoravo in casa, insieme a mia madre. Rilegavamo libri a mano, mentre mio padre aveva un’officina nella stessa strada. Noi stavamo in silenzio, tendendo le orecchie in attesa di suoni esterni, recitando qualche preghiera quando le urla penetravano le mura e i vetri delle finestre.
            Per quanto mio padre fosse nei miei pensieri, le mie mani tremavano per qualcun altro. In quei momenti, Jorge si insidiava tra i fili delle copertine e nell’odore di pulito della stanza dove lavoravo, anche se sapevo bene che era fuori a giocare e professare il suo santo ruolo di operaio: entrava nelle case, lottava a gran voce sventolando bandiere rosse. Io tacevo. Non potevo mostrare alcuna emozione, alcun dispiacere o preoccupazione: la mia famiglia appoggiava il regime e, in ogni caso, non ci sarebbe stato spazio per un figlio sbagliato. Non il primogenito, non l’unico maschio. Per loro, mi sarei dovuto inginocchiare esclusivamente nel confessionale della chiesa.
            Io mi limitavo a non pensarci troppo. Ancora oggi, a dire il vero, mi chiedo a cosa pensassi tutto il tempo, tutti i giorni. Non mi interessava avere una posizione politica. Non mi interessava tormentarmi sui sentimenti che provavo. Probabilmente. i miei pensieri erano unicamente assorbiti da Jorge e niente, nemmeno un castigo dell’inferno, mi avrebbe distratto dal pregustare la sua voce bassa e il suo corpo forte di fabbrica.
            Poi, quando tutto tornava più o meno silente, lasciando cenci strappati sui marciapiedi e voltantini calpestati, scivolavo via, giù dalla finestra a primo piano.
            Jorge mi aspettava in strada. Era sudato e curvo, fumava sigarette di contrabbando. Si scuoteva la polvere dai capelli ed era meraviglioso. Mi attendeva con le braccia aperte, il sorriso che illuminava la sera, mi abbracciava, e mi diceva: «Ma quali manifesti del partito. Sei tu. Tu, l’unica meraviglia manifesta.»
            Io ridevo, avevo appena vent’anni. Ridevo perché mi sembravano le premesse di qualcosa di migliore, idealistico e idealizzato, le speranze di un mondo che sarebbe cambiato, senza sapere entro quali limiti. Utopia, penso adesso. Ma, quando hai vent’anni e hai l’amore, il futuro è del tutto superfluo.
            Dietro gli alberi ci baciavamo, ci stringevamo, mescolavamo le nostre pelli senza pensare ad altro. Il regime spariva, crollavano i pregiudizi e le paure, diventavamo gli araldi del peccato, coscienti di trasformare quella che tutti consideravano ‘sodomia’ in amore. Fintanto che il sole non tramontava, eravamo due anime separate, bramose di incontrarsi lontane dagli sguardi di accusa. Sceglievamo i luoghi più appartati, dove nemmeno lo sguardo di Dio poteva raggiungerci, e nel buio, lontano dai tumulti, ci consumavamo sulle ceneri dei fuochi interiori. Non volevamo farli tacere. Non avremmo saputo come fare, in ogni caso.
            Jorge lottava, io rilegavo. Quando ci amavamo, non eravamo più il comunista e il figlio del meccanico. Eravamo Jorge e Luiz, tutto il resto non ci interessava.
            Non l’avrebbe mai saputo nessuno, era impossibile sospettare di noi. Dovetti, quindi, dissimulare le lacrime fingendo una brutta allergia. Un giorno, sotto la mia finestra, il corpo di Jorge giaceva inerme. Dovetti fare del mio meglio per non tremare da capo a piedi, o avrei dovuto mettere in scena anche un attacco epilettico. Mentre il mio corpo rispondeva ai comandi della mia mente, rimanendo immobile, il mio cuore lentamente cadeva a pezzi. Potevo sentire i pezzi di tessuto muscolare gonfiarsi fino a lacerarsi, aderire al mio costato, piegarmi in due dal dolore. Ironico, a pensarci adesso. Forse la punizione divina arrivò in quel momento. Eravamo stati troppo audaci, troppo arditi, e anche se la legge dell’uomo non ci aveva raggiunto non si poteva dire altrettanto di quella di Dio. La sera prima era lì, appoggiato a quel muro, mentre quella mattina i suoi occhi vacui guardavano oltre, privi di vita ma fissi su di me.
            Mia madre mi portò dal medico. Non capivano cosa avessi. Non lo capivo neanche io. Al solo pensiero di essere rimasto l’unico dei due a respirare, mi saliva una nausea fortissima e temevo che il mio corpo si sarebbe, in qualche modo, autoimposto la morte. Ovviamente, non ci volle molto per arrivare a sperarlo.
            Jorge era morto per questioni di cui, forse stupidamente, non mi ero mai interessato. Ma ero certo che fosse vissuto per amare me, allo stesso modo di come io amavo lui. Era stato uno scambio equo, un rapporto alla pari, che aveva scavato in me come con un cucchiaio si spilucca un dolce. Eravamo stati uguali, fino alla morte. La morte non è mai giusta, non è mai uguale, non è mai onesta. Non c’è amore nella morte.
            E anche se io ero la sua meraviglia manifesta, anche se ero io quello che aveva amato, lui morì per il Manifesto.
Potevi restare vivo, Jorge. Restare vivo per noi. Forse dopo due, tre anni, ci saremmo innamorati di altre persone, di donne, avremmo costruito una famiglia, saremmo rimasti buoni amici, forse. Nella mia vita, però, non c’è stato mai altro spazio se non per Dio e per te.
            Neanche adesso, quasi trent’anni dopo, sembra sia cambiato qualcosa. L’unica differenza, nello svegliarsi ogni mattina, è la consapevolezza di non avere più nessuno accanto. Nessuno accanto come mi eri vicino tu. Nelle piccole cose, nelle minuzie. Quando torno a casa, nessuno mi lancia più sassi alla finestra, nessuno mi bacia più sotto le stelle, al riparo nelle ombre dei muri.
            Sono troppo grande, troppo vecchio e troppo solo per questo, ormai.
 
            Mi chiedo quante possibilità siano state recise, insieme alla sua vita.
            Se Jorge fosse qui adesso, dove saremmo entrambi? Come vivremmo? Nascosti, discreti? Senza nessuno che possa sospettare. Io e Jorge sapevamo bene come fare.
            Ventisette anni e niente mi ha tolto il fiato come ha fatto lui al suo tempo.
            Probabilmente, più della metà della mia vita si potrebbe chiamare ‘quello che non ho avuto e che rimpiangerò per sempre’. Non mi resta molto, adesso. Non mi resta nulla, in effetti.
            Sarebbe abbastanza per chiunque.
            E allora perché non farlo? C’è una lieve brezza che mi sfiora l’orlo dei pantaloni.
            Com’è umana la mia esitazione. Ho aspettato tanto, ma non sono mai stato così lucido. Confuso, timoroso ma lucido. Riesco persino ad immaginarci.
            Io e Jorge nel Paradiso, tra gli angeli e la luce. Senza bandiere, senza partiti, senza regimi, senza sangue. Nella grazia di Dio, saremmo solo io e lui. Al nostro cospetto, anche le dominazioni e gli arcangeli si inchinerebbero, decretando che non è peccato ciò che è dettato dalle leggi del cuore.
            Ma non siamo in Paradiso. Non io, almeno. Vivo ancora qui, in questa terra, dove il mondo resta solo della gente. Creato, distrutto e regolato dagli uomini. Ho aspettato abbastanza per avere ancora fede oppure è troppo, troppo anche per me?
           
            Vorrei rivederti per un minuto, Jorge, meu amor. Vorrei risentire di nuovo la tua voce. Vorrei, vorrei avere la certezza, ma posso solo avere fede.
            Sospiro. Le mani si stringono intorno agli infissi della finestra. Basterebbe sbattere forte contro il vetro alzato a metà. Sverrei, cadrei, morirei, senza accorgermene. Ma non posso avere questi pensieri codardi, vero Jorge?
            Vorrei sapere chi ti ha ucciso. Vorrei sapere se mi hai pensato, prima di spirare. L’avrai affrontato con spavalderia oppure sarai stato colto di sorpresa? In ogni caso, tu non mi avresti voluto codardo. Eravamo accorti, silenziosi, ben nascosti, eppure ho sempre racimolato e alimentato il mio coraggio, quello necessario ad amarti.
            Nella nostra guerra, siamo stati forti e valorosi.
            Non posso venir meno alle nostre tacite promesse.
Devo volerlo. Devo desiderare davvero di rivederti. Il mio atto di coraggio, alla fine. Ripagarti in maniera equa. Ridarci una speranza.
            Una campanella risuona tra le stanze. Lo spettacolo è finito.
            Cari datori di lavoro, consideratela come la mia lettera di dimissioni.
            Sedere qui era bello, le luci di Lisbona sono sempre belle. All’ultimo, questa città, questi anni mi paiono belli. È tutto così roboante, così pregno di vita che sento qualcosa smuoversi, nel petto. Vorrei rientrare, il mio corpo dice di smetterla. Che abbia dimenticato il calore delle tue mani? È invecchiato anche lui, dopotutto.
            Ho avuto la forza di elogiare la vita per tanto tempo. Non me ne pento, forse non sono abbastanza onesto con me stesso per farlo, però l’ho portata avanti per troppo tempo. È solo una blanda imitazione, un riflesso offuscato, se non ci sei tu.
            L’orologio suona le undici di sera. È tardi, tardi per tante cose.
            Ma non è troppo tardi per rivederti, vero?
 
            Aspettami, Jorge.
 
            Sto arrivando.











A/N: E Meraviglia Manifesta è arrivata. Olè. Almeno questa, finché non riprendo Arancione. 
Ho diverse cose da dire.
A) É la mia storia più corta ed interamente introspettiva. Non mi dispiace, anzi. Era da tempo che volevo scrivere qualcosa sulle parole 'Meraviglia Manifesta' (le avrò in testa da circa sei, sette anni) e questa storia è uscita naturale. Devo ammettere che un po' mi ha aiutato 'Nancy' di Faber. All'inizio Luiz doveva essere una donna. Appena ho scritto per la prima volta il nome di Jorge, tuttavia, la storia si è ribaltata nella versione che sto pubblicando adesso.
B) É la prima volta che scrivo qualcosa di Storico. Solitamente evito perchè trovo problematico rimanere credibili e attenersi alle vicende realmente avvenute, senza contare il fatto che sono un disastro con i calcoli. Quindi, se trovate problemi di numeri e logistica, fatemelo notare senza pietà. Scusate, inoltre, se mi sono tenuta sul vago riguardo la situazione politica. Ho cercato di fare del mio meglio.
C) Nonostante il tema del suicidio, l'ho scritta prima di 'Noi non finiamo qui'. Mi accorgo della coincidenza solo ora, mentre scrivo le note. Non era voluto, giuro che presto arriverò una storia più o meno allegra a stemperare la morte imminente nelle mie fic. 

Insomma, spero vi piaccia. Grazie per essere arrivati fin qua, e alla prossima <3

PS: per chi mi volesse trovare su FB, clicchi Q U I. Non mordo, non abbaio, tanti cari saluti :3
   
 
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