Lo mise con le
spalle al muro, in quella notte più buia di tutte le altre
che l'avevano
preceduta.
Lo costrinse a pronunciare quella
verità che le avrebbe
spezzato il cuore.
Bianca sapeva
che era troppo bello per essere vero. Sapeva che lui era
troppo bello
per essere vero.
Veniva a trovarla ogni notte, una
figura bianca sotto la
luce della luna.
Non avevano mai parlato molto:
aveva la sensazione che
fargli domande o insistere sul volere sapere qualcosa di lui avrebbe
spezzato
quel sublime incantesimo.
Era passato così tanto
tempo da quando un uomo l'aveva
guardata in quel modo!
Era sempre stata una ragazza
insignificante. I capelli
perennemente legati in una treccia e gli occhiali forse un po' troppo
grandi:
una di quelle bellezze che non sbocciano mai davvero, ma rimangono per
sempre
intrappolate in una informe adolescenza.
Gli occhiali li aveva persi anni
prima e non li aveva più
ricomprati, mentre i capelli le scendevano ora come una massa
indomabile e
selvaggia lungo le spalle, finalmente liberi: eppure ciò non
era servito a
lasciare uscire la bellezza rinchiusa nel profondo del suo essere.
Lui però riusciva a
vedere quella bellezza.
Bianca non aveva mai avuto il
coraggio di chiedergli come
esattamente potesse notare un fascino così nascosto agli
occhi del resto
dell'umanità.
Non lo aveva mai chiesto, ma non
dubitava della sincerità
dei suoi sentimenti: il brillare dei suoi occhi, quando la sfiorava,
era
inequivocabile. E quel brillare era tutto per lei.
Bianca amava ogni cosa di lui: il
suo pallore, il
contrasto tra i denti bianchissimi e l'oscurità della notte,
la luce non umana
del suo sguardo.
Sapeva che non era come gli altri.
Lo aveva sempre saputo, fin dal
primo istante in cui i
loro sguardi si erano incontrati.
Quella notte lui stringeva, con
quelle dita perfette come
quelle di un pianista, l'inferriata arrugginita del cimitero. Le
sorrideva,
come se quello fosse un posto come un altro per incontrarsi. Nessuno
andava mai
al vecchio cimitero, motivo per cui lei si era ritrovata suo malgrado a
fermarsi e guardarlo.
“Bianca.”
Aveva pronunciato il suo nome con
dolcezza, troppa
dolcezza. Nemmeno la sua stessa famiglia l'aveva mai chiamata con tanta
gentilezza.
Dietro di lui, su una lapide, un
corvo solitario
picchiettava il marmo, quasi un amante timido che bussi discreto alla
porta
della sua bella.
“Bianca.”
Non seppe mai se l'amata del corvo
aprì al suo nero
corteggiatore, ma lei di certo fece entrare il proprio.
Accolse lo sconosciuto nella sua
casa, quella notte. E
tutte le notti che seguirono.
Lui ogni volta usciva da quel
piccolo edificio nero più
felice di come era entrato, lasciando invece la sua innamorata
più svuotata e
stanca.
Bianca sapeva cosa faceva.
Lo aveva capito quella prima notte.
Quando, nel buio,
aveva sentito la puntura sul collo.
Non aveva urlato. Lo aveva solo
guardato, senza muoversi.
Non voleva se ne andasse. Non
voleva non tornasse più.
Così non aveva detto
nulla.
E, incontro dopo incontro,
continuò a lasciare che
prendesse da lei ciò che voleva.
Cosa poteva farsene del suo sangue?
Del sangue di una
come lei?
Era irrilevante. Tutto era
irrilevante purché lui ogni
notte tornasse insieme alla luna che sorgeva tra la nebbia e lo smog.
Quel suo amore rappresentava
l'unico contatto vero che
avesse in quel mondo di buio perenne, di tristezza, di miseria.
Così lo aspettava con
pazienza, sulla soglia della sua –
la loro, ormai – piccola casa nera, notte dopo notte.
Sapeva che quella situazione non
sarebbe potuta durare in
eterno... Ma cosa durava in eterno, dopo tutto?
I giorni erano diventati solo
tediose attese, e le notti
piccoli istanti preziosi totalmente al di fuori di quella che era la
sua vera
esistenza. Nelle tenebre poteva dimenticare chi era e immaginarsi di
essere
davvero come lui la vedeva.
Il suo fidanzato non veniva mai di
giorno. Mai. Il
lavoro, diceva. Bianca non aveva mai indagato oltre. In fondo non le
importava
davvero. Una piccola, sciocca, parte di lei era convinta che il fascino
che
vedeva fosse dovuto a qualche magico effetto della luna. Forse, sotto
l'implacabile
luce del sole, lui l'avrebbe vista come veramente era: indegna di
essere
toccata da dita tanto bianche e sottili. Non si trattava soltanto della
luce
del sole, comunque: nel dubbio, teneva le luci di casa spente mentre
lui era
lì.
E in questo modo non era nemmeno
costretta a vedere la
verità riflessa nei vetri polverosi della sua piccola
dimora.
Prima o poi, però,
sarebbe stata costretta a guardare.
Era come un sogno di cui Bianca
attendeva paziente il
termine.
Lo mise con le
spalle al muro, in quella notte più buia di tutte quelle che
l'avevano
preceduta.
Lo costrinse a pronunciare quella
verità che le avrebbe
spezzato il cuore.
Non voleva Bianca: voleva il sangue
di Bianca.
Lui l'abbracciò allora
come nessuno l'aveva mai
abbracciata prima, chiedendole di capire. Era la sua natura. Doveva
fare ciò
che stava facendo.
Il corvo volava da qualche parte,
fuori dalla piccola
casa nera, nel cuore del buio, su nuvole di fumo.
Era la sua natura.
Bianca sospirò
– una cosa che non faceva da anni.
Lasciò che le sue dita
accarezzassero per l'ultima volta
quel viso illuminato più dalle ombre che non dalla luce.
Stava piangendo? Forse
gli dispiaceva per lei?
Quando sentì quella
piccola fitta, come la puntura di uno
spillo, Bianca sospirò di nuovo: era per sé
stesso che piangeva, non per lei.
Strinse la presa su di lui,
chiudendo gli occhi: non
voleva guardarlo mentre...
Un rumore secco, seguito dal suono
che potrebbe fare un
cucchiaio in un budino.
Le dita di Bianca erano affondate
nel suo cervello come se
la scatola cranica fosse stata fatta di burro.
Quel corpo amatissimo si
accasciò come un sacco sul suolo
freddo, mentre una piccola siringa cadeva poco distante da lui, andando
in
pezzi.
Neanche un suono. Neppure il
più piccolo urlo.
Bianca portò le dita
scheletriche alla bocca, assaggiando
il sapore del sangue di lui, mentre le grandi orbite nere si posavano
sul
camice da medico, sporco di sangue e polvere.
Lo aveva intuito fin dall'inizio,
ma aveva lasciato che
quell'illusione continuasse: il sogno che un uomo potesse amarla
nonostante
fosse ormai fatta più di ossa che di carne era qualcosa di
troppo prezioso per
poter essere interrotto sul nascere.
Era stato per quel motivo che si
era fermata quella prima
notte, quando quello scienziato si era scioccamente introdotto nel
cimitero.
Era stata quella la ragione per cui aveva esitato a ucciderlo quando
invece
avrebbe dovuto.
Voleva sentirgli dire che l'amava.
E ogni volta che lui mentiva
dicendolo, lei gli
permetteva di vivere una notte in più. Gli concedeva di
continuare i suoi
esperimenti in laboratorio un giorno ancora.
Quella notte però, per
la prima volta, non aveva avuto il
coraggio di dirle che l'amava. Aveva forse scoperto qualcosa in quel
poco
sangue marcio che aveva raccolto da lei?
Non aveva più importanza.
Ora avrebbe riposato nella cripta
con tutti gli altri,
spalla a spalla con la famiglia di Bianca.
“Avevi cattive
intenzioni, amore,” mormorò la zombie,
chinandosi sullo scienziato un'ultima volta, “ma almeno hai
davvero un buon
cervello.”