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Autore: RomanticaLuna    05/12/2013    1 recensioni
Erik Phelps, 17 anni, Distretto 1, figlio unico. Il ragazzo atletico, bello e muscoloso che tutte le ragazze vorrebbero al proprio fianco.
Rosaline Smith, 17 anni, Distretto 4, terza di quattro fratelli. Robusta, intelligente, atletica ed espansiva.
Jasmine Brave, 16 anni, Distretto 8, prima di sei fratelli. Mingherlina, paurosa e timida.
Oliver Parker, 16 anni, Distretto 10, una sorellina da mantenere, una grande forza d’animo, coraggio da vendere, amichevole ed affettuoso.
Quattro ragazzi, un solo destino: partecipare ai 60°Hunger Games. Quattro sogni, quattro caratteri, differenti ambizioni e passioni, differenti Distretti ed abitudini, ma la stessa missione: vincere e non essere uccisi. Quattro storie che si legano nell’arena, una sfida che affronteranno insieme.
Che i sessantesimi Hunger Games abbiano inizio e che la Fortuna vi assista!
Genere: Azione, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri tributi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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9 - Solitudine






Il mostro del lago allungò le sue lunghe braccia ed afferrò la caviglia del giovane Erik, che venne trasportato senza troppi complimenti sotto il pelo dell’acqua. Jasmine non si accorse subito dell’accaduto, sentì solamente qualcosa afferrarle la gamba e dovette lottare con tutte le proprie forze per rimanere ancorata al suolo. Fu in un secondo momento che si accorse della scomparsa del compagno, insieme alla sua scarpa. Si guardò intorno, capendo immediatamente che quel qualcosa che l’aveva trascinata giù era Erik. Impugnò i suoi pugnali, ma non poteva tirarli a caso, avrebbe sicuramente colpito anche lui. Cosa poteva fare? Si torturò a lungo, scervellandosi in cerca di una risposta, ma non le venne in mente niente. Tuffarsi nella speranza di recuperarlo, praticamente sicura di affogare nel tentativo o restare immobile sulla riva del lago in attesa della sua fine? Si tuffò. Assicurò un ramo lungo sotto una pietra e scese in profondità, più trascinata dalla corrente che per opera sua. Cercò di scrutare nel buio, ma non vide nulla. D’un tratto due fessure gialle si aprirono davanti a lei. Jasmine si avvicinò a quei due fari luminosi, accorgendosi troppo tardi che si trattava di due grandi occhi. Qualche bolla di ossigeno venne dispersa in acqua, i suoi polmoni stavano per scoppiare nel tentativo di tornare in superficie. Aveva fallito, non aveva trovato Erik e stava per morire affogata. Seguendo l’istinto di sopravvivenza salì aggrappandosi al lungo ramo ed uscì dall’acqua qualche secondo prima che il mostro le afferrasse la caviglia. Cercò di riprendersi. Distesa sulla pietra umida vomitava acqua. Le sue lacrime salate si unirono alle gocce dolci sul terreno. Era sola. E non sapeva cosa fare. Guardò il cielo dalle mille sfumature di giallo, la luce del sole la accecava. Il rumore che li aveva fatti nascondere tornò. Due grida sovrumane ruppero il silenzio, gli uccelli scapparono dai loro nidi, spaventati. Jasmine spiò leggermente verso la radura in cui, solo poco prima, erano accampati. Due ragazzi grandi e grossi, muscolosi ed armati, si stavano fronteggiando. Uno, il più scuro di carnagione, imbracciava una lama affilata, mentre l’altro stendeva davanti a sé due coltelli. Giravano attorno ad un cerchio immaginario, si guardavano negli occhi, si affrontavano con gli sguardi, ma non con i corpi. Poi il ragazzo più abbronzato fece un passo indietro e l’altro gli fu subito addosso. Allora partì una lotta all’ultimo sangue. Jasmine restò a guardarli, trattenendo la sensazione di nausea e di vuoto sotto di lei. Non le era piaciuto quando Oliver, Rosaline o Erik avevano ucciso, seppure per difendere loro stessi e lei. Ma l’aveva accettato, perché in fondo era questione di vita o di morte. Ma in quel momento, a quel modo, beh, le faceva accapponare la pelle. Pensare che Capitol City aspettava interi mesi solamente per poter vedere quella carneficina la faceva star male. Nemmeno lei, di cuore aperto e sempre pronto a trovare belle parole per tutti, riusciva a vedere il lato buono di quelle persone. Vedeva solo nero, buio e male nei loro cuori. Aspettò ancora nascosta dietro al masso. Una pozza di sangue si era già accumulata nel punto in cui stavano combattendo, eppure nessuno dei due sembrava ferito mortalmente. Se fosse stata solo un po’ più coraggiosa, avrebbe utilizzato quel momento di distrazione per trafiggerli. Ma non ne era capace e rimase zitta e ferma nel suo angolino. Le nocche bianche per la forza con cui stringeva i pugnali. Continuò a guardare, ancora e ancora. Quei due Tributi sembravano più agguerriti che mai, forse pensavano di essere gli ultimi due sopravvissuti, non sapevano che mancava anche lei. Ma se ne sarebbero accorti presto. Quando il vincitore non avrebbe visto l’hovercraft di Capitol City alla morte del nemico. Forse era meglio farsi vedere, attaccare. Nel momento che erano di spalle. Un urlo acuto le gelò il sangue nelle vene. Sembrava un urlo disumano, fatto da Satana in persona. Non era di paura era…di divertimento. Un’altra occhiata dal suo nascondiglio e Jasmine vide il Tributo più chiaro infilzare ripetutamente quello più abbronzato, steso a terra ormai morto. E nonostante la vita avesse lasciato quel povero ragazzo, l’altro continuava a trafiggerlo, non abbastanza contento del suo lavoro. E rideva. Una risata di pazzia. Ma alla fine, quasi tutti i vincitori degli Hunger Games diventavano matti, lo sarebbe diventata anche lei se avesse sconfitto quel ragazzo. Dopo tutta la morte che si vedeva nell’arena era una cosa normale, impazzire. Oppure si finiva sotto le dipendenze dell’alcool, o della droga. Nel suo Distretto ne aveva visti tanti finire sotto terra per aver bevuto un bicchierino di troppo o fumato una fogliolina che non andava bene. Beh, ormai non doveva più preoccuparsi di come sarebbe diventata una volta fuori dall’arena, ormai era più che certa di non essere in grado di uscire, da quell’arena. Il Tributo che doveva uccidere era più grosso, più alto, più muscoloso e più battagliero di lei. Senza considerare il fatto che cercava sangue fresco e la sua nuova vittima. I suoi occhi erano chiari o, per lo meno, lo erano sicuramente stati un tempo. In quel momento erano rossi, sembravano iniettati di sangue. La faccia era contorta in una smorfia di successo, sembrava più che altro il viso di un demone. E i denti erano appuntiti e…sporchi di sangue, come se avesse bevuto il liquido rosso dal corpo della sua vittima. A Jasmine ricordava il protagonista di un vecchio libro che aveva letto qualche anno prima, Mr Hyde, il nome doveva essere quello.
“So che ci sei!” urlò il giovane con una voce demoniaca. A Jasmine si fermò il cuore. Poi si alzò, si lisciò i capelli e spolverò i vestiti. Era pronta a raggiungere i suoi amici. A raggiungere sua madre. Uscì allo scoperto.
“Sono qui” disse con l’unico briciolo di coraggio che aveva in corpo. Il ragazzo la guardò e si mise a ridere. Una risata malvagia. Non seppe nemmeno lei come, ma il suo braccio si alzò ed il pugnale che teneva stretto in mano si staccò da lei. Andò a conficcarsi con forza nel cuore del nemico, facendo terminare quella malefica risata, facendo terminare ogni cosa. Nemmeno quando guardò il corpo steso a terra riuscì a capire cosa fosse successo. Una strana forza si era impossessata del suo braccio. Le aveva fatto scagliare il coltello con una precisione che non le apparteneva. Però ci era riuscita. L’ultimo Tributo rimasto oltre a lei era lì, a terra, morto. Lei era ufficialmente la vincitrice dei 60° Hunger Games! Non ebbe il tempo di esultare, non ci sarebbe riuscita comunque. L’hovercraft di Capitol City arrivò a prenderla ma, prima che Jasmine riuscì a salire a bordo del veicolo, sentì un brivido percorrerle la spina dorsale ed ebbe la sensazione che qualcuno la stesse baciando. Un bacio piccolo, sulla guancia, freddo e umido. Sorrise e si lasciò anestetizzare senza problemi.
 
Quando Jasmine riaprì gli occhi si trovava in una delle stanze dell’ospedale di Capitol City. La gamba era ancora fasciata, nel braccio era inserito l’ago per la flebo. Sentiva la testa pesante e non le era ancora passato il senso di nausea. Si toccò la testa con la mano libera, il viso, il collo. Con sorpresa trovò una collana che non le era mai appartenuta. La sfilò da sotto il camice ed estrasse una piccola pietra blu. C’era un’incisione, ma non riuscì a capire il suo significato. Jasmine la guardò, sorridendo. L’aveva già vista, quella pietra. L’aveva vista dondolare sul petto di Erik. Doveva avergliela data per proteggerla, la notte che rischiava di morire. E l’aveva protetta, senza ombra di dubbio. Provò a ripensare all’ultima giornata passata nell’arena. I ricordi che aveva non combaciavano e non erano in ordine temporale. Ricordava di essersi alzata dopo non sapeva nemmeno quanto tempo di buio. Aveva cercato Erik, aveva fatto colazione. Poi quel ramo spezzato. Erik l’aveva portata fino al lago, per nascondersi. Poi c’era uno strato di nebbia nella sua mente. Più si sforzava a ricordare, più la testa le faceva male. Un dottore entrò nella stanza, il camice era azzurro, come i suoi occhi.
“Allora, vedo che ti sei svegliata. Ti fa ancora male la gamba, signorina Brave?” chiese con malcelata dolcezza.
“No, è a posto. Non può staccarmi la flebo? Gli aghi mi fanno venire la nausea” disse lei, osservando quell’uomo. Se non avesse saputo che era un cittadino di Capitol City, avrebbe potuto anche pensare che si trattasse del fratello del signor Brown, il farmacista del suo Distretto. Gli somigliava molto.
“La flebo serve per tenere sotto controllo i tuoi dolori” continuò il dottore, controllando il cuore della paziente “ricordi qualcosa dell’altro ieri?”
“L’altro ieri? Vuol dire che ho dormito più di 24 ore?”
“Si. Ma è normale quando si è costretti ad ingurgitare medicine e calmanti. Non preoccuparti, avrai tutto il tempo per riprenderti. Allora, non hai ancora risposto” disse ancora il medico.
“Più o meno” rispose Jasmine “ricordo di essermi alzata e che io ed Erik ci siamo nascosti. Ma poi non riesco a ricordare niente e mi fa male la testa quando ci provo”
“Pian piano ci riuscirai. Se hai bisogno di aiuto, potranno dirti tutto i tuoi famigliari. O il tuo Mentore. Quando toglieremo i calmanti i ricordi ricompariranno, probabilmente tutti insieme, forse un po’ per volta”
“I miei fratelli sono qui?” chiese, interrompendo il discorso dell’uomo.
“Si, sono rimasti a dormire sulle panchine tutta notte. C’è anche tuo padre” rispose lui.
“E c’è anche Flint?”
“Certo. È stato il primo ad arrivare”
“Può farlo entrare? Solo lui però” disse, pregando con lo sguardo quell’uomo così diverso dalle sue aspettative. Il dottore uscì dalla porta e, qualche minuto dopo, il ragazzo alto e muscoloso, dai lunghi capelli neri che l’aveva accolta sul treno per Capitol City entrò nella stanza con un mazzo di fiori rosa e rossi.
“Buon giorno” disse gentilmente, con un tono di voce flebile. Si capiva che aveva pianto.
“Ciao” sorrise lei “alla fine ci siamo rivisti”. Flint Himmoy si avvicinò al letto di Jasmine, le strinse la mano tra le sue e lasciò cadere qualche lacrima sulle lenzuola candide.
“C’è stato un momento in cui pensavo di perdere anche te” piagnucolò.
“Solamente uno?” rise la ragazza “io pensavo che ci avrei lasciato le penne praticamente….sempre! Quando mi ha attaccato Emily, all’inizio, quando stavo per annegare, quando un orso mi ha azzannata, quando Erik ha cercato di trascinarmi sul fondo del lago con lui….” Contò sulle dita “credo si possa considerare un miracolo il fatto che sia ancora qui”
Flint la guardò. Quella ragazza riusciva a portare il buonumore nonostante la tristezza, sarebbe riuscita a riportare il sole durante la tempesta anche senza saperlo.
“Pensavo non ti ricordassi quasi niente dell’ultimo giorno nell’arena”
“Già, lo pensavo anche io. Ma l’immagine di me che cado nell’acqua e la sensazione che fosse Erik a portarmi giù si è impossessata di me. E, sinceramente, non mi sono nemmeno accorta di dirlo” sembrava piuttosto spaventata e confusa.
“Ti ho portato dei cioccolatini” esclamò Flint, cercando di cambiare argomento “so che ti piacciono. Durante la settimana di convivenza ne hai mangiati a scatole”. Rise. Una risata forzata ma che fece tornare il buon umore alla ragazza. Jasmine ringraziò, prima di addentare una di quelle squisitezze. Il cioccolato si scioglieva in bocca.
“Ora ti lascio, il dottore mi ha detto che devi riposare molto” disse. Le diede un bacio sulla fronte e, con un sorriso, si chiuse la porta alle spalle.
Quel bacio sulla fronte le fece venire in mente un’altra sensazione. L’aveva provata prima di salire sull’hovercraft, lo ricordava bene. Quella sensazione che qualcuno fosse insieme a lei, quel brivido che aveva sentito, quel bacio freddo. Il suo cuore le ripeteva che era stato il fantasma di Erik. E che era stato lui a darle la forza per uccidere l’altro Tributo. Altrimenti lei sarebbe rimasta ferma. Sorrise, si morse il labbro inferiore, strinse la pietra blu tra le mani e tornò a dormire.
 
Quando si risvegliò una lettera stropicciata era adagiata sul comodino al suo fianco. Jasmine si guardò intorno e, quando vide che la stanza era completamente vuota, la aprì. Iniziò a leggere.

Cara Mimi, se stai leggendo questa lettera significa che io sono morto, mentre tu sei ancora viva. Sono contento che sia così, non avrei accettato nessun altro sul podio. Sappi che ti ho amata sin dal primo momento in cui ti ho vista. Eri così indifesa. Eppure, nello stesso tempo, così coraggiosa! Ti sei lanciata al collo di una ragazza più grande e vistosamente più forte per difendere un oggetto a te caro. Mi dispiace solo che non sei riuscita a ritrovarlo. Ti ricordi gli allenamenti? Avevi paura di tutti e ti nascondevi dietro di me. Eppure, non reclinavi nemmeno una sfida. E le hai vinte tutte! Sei riuscita a battere ogni singolo ragazzo, in quel centro d’addestramento, in ogni singolo stand. Anche me. Non pensavo ci saresti mai riuscita, immaginavo di essere più forte di te. Ma, a quanto pare, mi sono sopravvalutato, mentre ho sottovalutato te! Anche se i miei buoni motivi li avevo! Sembravi così innocente! Chi poteva pensare che dietro a quello strato di santità si nascondesse un leone! Forse è stato proprio quel leone a rubarmi il cuore. Non mi interessa di essere morto, ti guarderò e ti proteggerò anche da qui in alto. Spero solo di esser morto per difenderti! Voglio essere ricordato per aver fatto qualcosa di buono, in vita mia.
Ora passiamo alle cose più serie. Nei mesi che verranno farai un giro per tutti i Distretti. Capitol City sfoggerà la stella di questi Hunger Games. Ho un grosso favore da chiederti: quando passi per il 10 prendi mia sorella Anne e portala con te. Con la mia morte, lei si trova da sola. Ha solo 5 anni, non riuscirà a sopravvivere. Non so come farai, ma so che ci riuscirai, perché tu sei tu, e non avrei potuto trovare qualcuno di migliore!
Ti amo, il tuo nuovo angelo custode,
Oliver Parker.

Jasmine lesse due volte la lettera, rise ricordando l’allenamento e le battute senza senso dell’amico. Lui era morto per difendere lei e quindi era in debito. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per dare una vita agiata alla piccola Anne. Era diventato compito suo.
Nascose la lettera sotto al cuscino quando sentì la porta aprirsi. Il dottore ed un’infermiera entrarono trasportando un carrello d’acciaio. Piatti maleodoranti si stavano avvicinando al suo letto.
“E’ ora di pranzo” annunciò l’infermiera con un sorriso a trentadue denti. Jasmine si impose di sorridere, ma quell’odore di marcio la nauseava.
“Ho ricontrollato un’altra volta le tue analisi. La prima volta avevo pensato che ci fosse qualcosa di sbagliato, mi sono detto non può essere, è solo una ragazzina. Ma ho pensato male” iniziò il dottore, aprendo una cartella gialla.
“Che c’è?” chiese Jasmine. Possibile che il suo viaggio per i Distretti sarebbe stato annullato a causa di un decesso improvviso della protagonista?
“Beh, cara, sembra proprio che tra 9 mesi la tua famiglia si allargherà!” annunciò felice l’infermiera. A quel sorriso seguì lo sguardo incandescente del primario. Jasmine li guardò entrambi senza capire.
“Diventerai mamma” spiegò l’uomo dal camice azzurro. La ragazza trattenne il fiato. Come poteva essere? Poi ricordò della notte di passione passata con Erik e sorrise.
“Che bella notizia” disse, massaggiandosi il ventre. Aveva già in mente anche il nome: lo stesso del compagno, se fosse stato maschio, quello di sua madre se fosse stata una femmina.
“Scusate ma…vorrei riposare. Sono stanca” disse, tirando il lenzuolo sopra la testa. Voleva rimanere sola. Sarebbe diventata mamma. Alla fine qualcosa di Erik, qualcosa di veramente profondo, l’aveva tenuto con sé. E l’avrebbe visto ogni giorno della sua vita. Non sarebbe stata mai più sola, da quel momento in poi sarebbero stati in due.
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