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Autore: Samarskite    06/12/2013    5 recensioni
“Di me e te”, diceva sempre Louis, “rimarranno solo tre foto sbiadite.”
E non importava se nella schedina SD della Nikon lui ne avesse mille, di foto; diceva sempre: “Ne rimarranno solo tre.”
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Tre foto

A Margherita

 

e se mi rimangono solo tre foto
sarò felice di sapere
che, tesoro, non era un sogno


 
“Di me e te”, diceva sempre Louis, “rimarranno solo tre foto sbiadite.”
E non importava se nella schedina SD della Nikon lui ne avesse mille, di foto; diceva sempre: “Ne rimarranno solo tre.”


Louis. Amava girare per Londra con il cordino della macchina fotografica legata al collo. Amava salire in metropolitana e fotografare bambini che leggevano insieme un libro di favole, seduti in attesa di raggiungere la fermata di Sheperd's Bush, dove sarebbero scesi in fila indiana per tornare alla mensa scolastica. Amava entrare in un qualsiasi Subway con la macchina fotografica in bella mostra, e ordinare una Coca Cola, per poi sentirsi chiedere: “Da dove vieni? Starai molto a Londra? Ti è piaciuta, finora?”
Louis. Amava passare per qualcosa che non era. Era un metodo per reinventarsi, per sopperire a tutti i difetti che credeva di avere. Poteva eliminarli, diventando una persona completamente nuova. E se capitava che una signora, sull'autobus, gli chiedesse il suo nome, perché “io ti ho già visto, giovanotto”, lui rispondeva di chiamarsi George, oppure Alexander, per il gusto di poter pensare, anche solo per un attimo, che sentendosi chiamare Louis avrebbe avuto il diritto di non voltarsi.


“Di me e te”, diceva sempre Louis, “non rimarranno che tre foto sbiadite.”
“E quali, tra le mille che amiamo scattarci?”, si sentiva rispondere.
“Il tempo lo dirà. Non a caso, saranno sbiadite.”

Louis. La sua casa era un disastro. L'unica cosa in ordine era la cucina, perché diceva che una cucina in disordine è un affronto allo sfintere esofageo. Perciò ogni piatto era lustro, ogni bicchiere pulito. Lo scaffale delle tazze era sempre vuoto, la dispensa dei biscotti sempre piena. Il frogorifero giocava un ruolo fondamentale nell'estetica, la tovaglia a quadretti grigi neri blu era il suo dettaglio preferito, le sedie in legno con le basi intrecciate molto rusticamente erano una tortura, d'estate. Per lui, che amava girare in mutande.
Louis. Tutto in lui era sgangherato. Il divano era sgangherato; il pavimento pieno di vestiti, cappotti invernali ed estivi, camicie da lavoro e jeans laceri. L'angolo delle scarpe era sgangherato; era una torre di Babele, accanto a cui troneggiava il pennarello votato alla decorazione delle scarpe stesse.
Louis. Sentiva sempre il dovere di personalizzare tutto. In camera sua, sulla testata del letto, troneggiava una copia della Notte Stellata di Vincent Van Gogh, attorno alla quale aveva disegnato una cornice immaginaria con il pennarello indelebile. Ogni interruttore della casa recava una faccina - felice o triste, a seconda della luce o del buio - ogni lampada era l'attaccapanni di qualcosa. Le lenzuola del letto erano sempre bianche e blu ma sempre sfatte, ma lui amava nuotarci dentro come un bambino, avvolgersi e risvolgersi, alzarsi e sdraiarsi.
Louis. Ogni volta che aveva ospiti si affannava per raccattare quanto più disordine possibile, qualsiasi ospite lo faceva entrare in paranoia: “Scusa, c'è casino, perdonami, scusa.”, e stipava le cianfrusaglie ovunque: negli armadi, sotto il divano, in mezzo alle coperte, nelle credenze, nelle librerie. E i pavimenti così erano sgombri, ma solo in apparenza.
Molte volte è inciampato nel suo disordine, una volta è caduto indietro e si è tagliato il palmo della mano sinistra, è caduto perché era distratto. Allora ha osservato il taglio con molto interesse ed ha cercato le bende senza scomporsi, trovandole dietro una bajure del salotto.
“Le bende mediche dietro una lampada, Louis? Sul serio?”
“Così almeno ogni volta è una ricerca. Non sono nemmeno impolverate” a sentirsi rispondere così, era proprio impossibile rimproverarlo.


“Tre foto sbiadite:” diceva sempre Louis, “questo è ciò che rimarrà di me e te.”

Louis. Gli volevo bene. Davvero. Mi manca. E quando penso a Louis è automatico ricordare l'aroma che aveva la sua camera, quella con il quadro di Van Gogh e le veneziane azzurre e le coperte bianche e blu e una fila di tazze di the sulla scrivania, tutte con ancora il filtro al loro interno. Rimanevano lì per giorni, quelle tazze, in ordine preciso: prima c'era quella con la rana, poi quella con Tigro, poi quella con i fusi orari, quella con i cicli lunari che aveva comprato al Liberty, quella con la pronuncia fonetica del suo nome in tutte le lingue del mondo, quella con l'orso della Casa Blu, quella di Starbucks. E da tutte si levava il profumo delicato di un infuso qualsiasi, spesso Pesca e Frutto della Passione, oppure Arancia e Cinnamon, Ribes, Vaniglia, tutti mischiati come nella taverna di un erborista.
Poi, alla fine della settimana, le raccattava tutte, le lavava a mano, ed il ciclo ricominciava.
Ad infilare il viso nell'incavo della sua spalla, a strofinare il naso contro la maglietta bianca che usava per dormire, a rendersi conto che il suo cuore batteva forte, si potevano capire molte cose di Louis. Diceva che il suo cuore batteva forte perché c'ero io accanto a lui, ma adesso penso che fosse perché aveva paura della vita al di fuori di quella stanza, aveva paura del caos, di cui non sapeva nulla al di fuori del fatto che fosse il caos stesso. Non era un vero esploratore, o una personalità vivace e poliedrica come voleva far sembrare: era solo l'ennesima maschera che provava ad indossare, per vedere che cosa sarebbe successo mostrandola come vera. Nessuno gli aveva mai detto che il meglio di sè stesso lo dava quando era fragile, quando rientrava da lavoro e si buttava a letto, quando lanciava i cuscini per aria, quando fumava sul balcone del salotto, quando usciva a cena con una camicia a quadri di suo padre, quando durante i colloqui di lavoro mangiava le caramelle sui piatti ipocritamente esposti ai candidati, quando faceva cadere il castello di carte di un pomeriggio urtando la gamba del tavolo con il ginocchio.
Louis era tutto questo, e nessuno gliel'ha mai detto. Nemmeno io. Per questo, quando vado a letto la sera, penso che vorrei essere di nuovo nel suo, sotto lo sguardo vigile del quadro di Van Gogh, ad aspirare col naso il profumo al the di pesca e frutto della passione, beandomi di percepire la sua maglietta sulla mia pelle.
Louis aveva grandi aspettative su di me. Dovevo andare oltre lo sguardo superficiale che gli riservano tutti gli altri, troppo impegnati nelle loro faccende per potersi accorgere di un'incrinatura sulla sua mascella, che rivela il bordo di una maschera, la sua maschera ultima.


“Io e te”, diceva sempre Louis, “ci ricorderemo l'uno dell'altro solo grazie a tre foto sbiadite.”

Una mia e una sua, tutte e due nel suo letto; una di entrambi. Ci guardiamo negli occhi, in quella fotografia, solchiamo le nostre occhiaie con gli sguardi, non ci preoccupiamo di cosa venga prima, o di cosa venga dopo. Mi piace, l'ultima fotografia. Vorrei bussare alla sua porta, e dirglielo.
Dirgli che se mi chino a guardare meglio quell'ultima foto, quella in cui ci siamo sia io che lui, non vedo l'incrinatura sulla mascella. Non c'è maschera, e sorride.
  
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