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Autore: Gosa    06/12/2013    3 recensioni
Scritta per la Parody Week di All You Can Write, indetta da Sclero Stony: parodia di "The Nanny Diaries"
Steve, appena laureato in economia, non sa cosa fare della sua vita. Quando gli si presenta l'occasione di fare il tato per una ricca famiglia, accetta, pensando che possa aiutarlo a trovare la sua strada. Si troverà alle prese con una bambina tutto pepe, la sua famiglia disastrata e vicini carini.
Genere: Commedia, Fluff, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Agente Phil Coulson, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Per la Parody Week di All You Can Write, indetta da Sclero Stony vi presento la parodia del film “The nanny diaries”.
 
 

«Tra gli antropologi, è opinione piuttosto diffusa, che bisogna immergersi completamente in un mondo estraneo, per riuscire a capire fino in fondo il proprio.»
 

Due settimane dopo la laurea e cinque colloqui, Steve si trovava a Central Park, seduto su una panchina a guardare un vecchio signore, probabilmente un barbone, che dava delle molliche di pane ai piccioni. Sospirò pesantemente: come avrebbe detto a sua madre che anche quel colloquio era andato male? Lui ci provava davvero, ma non era colpa sua se odiava l’economia e tutto ciò che vi ruotava intorno. Lui amava l’antropologia, lo studio dell’uomo nel suo “habitat”; erano incredibili le mille sfumature che poteva assumere un uomo in contesti diversi nel giro di pochi attimi. Steve era affascinato da tutto il mondo “umano”, avrebbe voluto laurearsi in quello, ma sua madre non era molto d’accordo. “Economia! E’ questo che ti aprirà le porte!” aveva detto Sara, entusiasta, quando doveva iscriversi all’università. Ma a lui proprio non andava giù! Insomma, non sapeva neanche come aveva fatto a laurearsi in quella materia! Se n’era uscito con un voto anche abbastanza decente, ma accidenti! Proprio non riusciva a farsi andare bene nessun lavoro. Ai colloqui si presentava sempre pieno di buone intenzioni, si sedeva dinanzi all’esaminatore, cominciava anche bene, ma poi  si bloccava sempre alla solita domanda: Perché dovremmo prenderla per questo lavoro? Steve ci pensava, davvero, ma non riusciva mai a trovare una risposta adatta: perché imparava in fretta? Perché non aveva problemi a lavorare anche fino a tardi? Perché… Perché?!?
Non lo sapeva! Lui non si vedeva affatto adatto a quei lavori, come avrebbe potuto convincere qualcuno, invece, che era la persona giusta?
Sospirò per l’ennesima volta, guardando il vecchietto: aveva una logora giacca di tweed e una sciarpa che un tempo doveva essere stata bianco sporco, ma che ora era sporca e basta: “Ecco la fine che farò, se continuo così!” Scosse la testa sconsolato, distogliendo lo sguardo dal suo presunto futuro e cominciando a guardarsi intorno. C’era una coppietta che passeggiava avvinghiata in un abbraccio, gli occhi incatenati e le bocche che sorridevano, un uomo con un terrier che camminava col naso all’insù, una ragazza in mini e tacchi vertiginosi, un ciclista impegnato a guardare la mini della suddetta ragazza e una bambina che correva incurante di quello che le succedeva intorno. Steve guardò la bambina: grandi occhi color dell’erba a primavera e una cascata di riccioli neri, non avrà avuto più di cinque, sei anni forse. Il ciclista continuava a radiografare il sedere della ragazza, senza accorgersi che la bambina era quasi arrivata a lui. Steve non ci pensò neanche un secondo, scattò dalla panchina e prese la bambina in braccio prima che si scontrasse con la bicicletta. Il ciclista sbandò, ma riuscì a riprendere il controllo del mezzo prima di cadere. Si fermò: “Mi dispiace, mi ero distratto!”  Steve lo guardò malevole: “Me ne sono accorto”, mugugnò tra i denti, facendo un cenno della mano per fargli capire che poteva andarsene. Mise la bambina a terra e la guardò: “Stai bene? Non ti sei fatta male vero?” La bambina lo guardò sorridendo: “Sto bene!” Annuì vigorosa. Si sentì un urletto in lontananza: “Mary! Non ti devi allontanare!” La donna che aveva pronunciato la frase si avvicinò al ragazzo: completo Dior, scarpe Prada, borsa Luis Vitton e occhiali da sole a specchio di Versace. Steve la squadrò da capo a piedi: una tipica donna dei quartieri alti, concluse dopo un’attenta analisi. La donna si avvicinò alla bambina, prendendola per un braccio e si rivolse a Steve: “Oh, sono così stanca, questa bambina mi toglie moltissime energie!” Steve sorrise: “Nessun problema, io adoro i bambini! Sono un be…” La donna lo interruppe subito: “Lei è un babysitter?!? Oh, ma è fantastico! Sa la precedente tata si è licenziata ieri, si deve sposare, e mi ha lasciato in una situazione disperata! Dico davvero!” Scosse i lunghi capelli castani, ovviamente con messimpiega all’ultima moda. Steve la guardò con occhi sgranati: “Mi ha frainteso! Volevo dire…” La donna, però, non lo stava minimamente ascoltando, estrasse dalla borsa un biglietto e glielo porse: “Ma che sbadata, non mi sono neanche presentata! Sono la signora Jefferson, questo è il mio numero, mi chiami! Comincerà subito!” Steve prese il biglietto, in trans, quella donna l’aveva mandato in confusione. All’improvviso un orda di donne si avvicinò: “Un babysitter? Meraviglioso!” Bigliettini da visita cominciarono a piombargli addosso come pioggia: “Mi chiami, la pagherò bene!”; “No, chiami me! La pagherò il doppio!”; “Aspetti! Io ne ho un urgente bisogno!”.
Steve guardò tutte quelle donne circondate da nuvole di chanel N. 5 e vestiti firmati: “Perché no? Il babysitter potrebbe essere un buon lavoro per cominciare!” Pensò mentre un sorriso nasceva sul suo viso.
Il giorno dopo cominciò a fare i vari colloqui: alcune di quelle donne erano davvero insopportabili, non riusciva a capire come quei bambini fossero ancora sani di mente. Ovviamente il merito era delle tate che li crescevano, ma in alcune famiglie ne cambiavano una al mese, e molti bambini erano totalmente sbandati.
Alla fine decise di accettare il lavoro dalla signora Jefferson, Mary era una bambina deliziosa e non gli sembrava così difficile da gestire.
Fece i bagagli e si trasferì in un bellissimo attico a Manhattan. La casa era grandissima, tre stanze da letto, un salone immenso, studio, cucina ultramoderna, tre bagni, lavanderia, insomma quella casa era un paradiso! Lui era abituato a case molto più umili, era già tanto se aveva una camera tutta per se. Sua madre era infermiera e aveva fatto i salti mortali per permettergli di studiare e assicurargli un buon futuro, anche se pensava che l’antropologia non ti faceva portare soldi a casa. Già sua madre… Odiava mentirle, ma non aveva avuto altra scelta: le aveva detto che era stato assunto in un ufficio a Manhattan, una grande azienda che si occupava di import-export e che doveva trasferirsi a causa di alcuni corsi di aggiornamento. Sara era stata un po’ restia a lasciar andare il suo bambino, ma alla fine si era dovuta arrendere sotto insistenza del figlio. Era partito a bordo della fiammante e, non tanto nuova, macchina della sua migliore amica dai tempi delle elementari, Peggy. Lei era l’unica che sapeva che sarebbe andato a lavorare come babysitter; lei aveva cercato più e più volte di convincerlo a desistere: “Ma dico ti sei ammattito?!? Con una laurea in economia te ne vai a fare il babysitter?!?” e “Perché vuoi incatenarti a quella gente?!? Ti succhieranno l’anima e non avrai più una tua vita!” e ancora “ Sono dei borghesi! Davvero vuoi ridurti a fare il domestico?!?”
Steve aveva passato un’intera sera a spiegarle che era solo un lavoro temporaneo, solo per schiarirsi le idee e decidere cosa voler fare della sua vita. Di certo non avrebbe fatto il babysitter a vita!
Peggy lo accompagnò fino al palazzo, residenza dei Jefferson, e lo salutò facendogli promettere di andarla a trovare presto. Steve entrò nel lussuosissimo palazzo, mentre il portiere gli sorrideva e gli teneva il portone aperto, dandogli il benvenuto. Salì fino all’attico e bussò alla porta. Venne ad aprirgli una donna in tenuta da cameriera: vestito nero con rifiniture bianche; aveva perfino la cuffietta. Steve le sorrise: “Salve, sono il nuovo babysitter!” La donna lo fece passare, cominciando a borbottare qualcosa che lui non riuscì a capire, doveva essere russa. “Mi scusi, ma non ho capito…” La donna lo guardò da sotto in su: “Io sono Natasha, la cameriera tuttofare.” Disse con un fortissimo accento russo, non si era sbagliato, “Speriamo che tu riesca a durare più di quel’altra ragazza,” scosse il capo, un paio di ricci rossi, sfuggiti allo chignon, le ballarono vicino al viso. “Si, ho saputo che è andata via per sposarsi.” Disse Steve tutto sorridente. Natasha lo guardò con tanto d’occhi:” Sposarsi?!? Quella è uscita per un appuntamento e l’hanno fatta fuori! Non puoi avere una vita sociale se fai questo lavoro, devi essere sempre a loro disposizione, giorno e notte!” Prese uno spolverino e cominciò a passarlo su uno specchio. Steve spalancò gli occhi: “Cominciamo bene.” Pensò.
“Natasha potresti dire alla signora che sono arrivato?” La cameriera lo guardò, “la signora è uscita a fare shopping, ti ha lasciato un biglietto sul tavolo.” Detto questo se ne andò a pulire la cucina. Steve sospirò e scosse la testa, poi si avvicinò al tavolo e prese il bigliettino:

Caro Tato,benvenuto!
Sono così emozionata ad averla con noi, la prego si senta come se fosse a casa sua. Domani avrà il suo personale mazzo di chiavi. Il frigo è ben rifornito, prenda tutto quello che desidera.

Mentre Steve leggeva, cominciò a muoversi per la casa, andò in cucina e aprì il frigo, aveva giusto un certo languorino: fu colpito da colori quali verde, bianco e giallo; vi era una vasta varietà di frutta e verdura, poi… “Hamburgher di tofu?!?” Sentì il suo stomaco contrarsi e cominciò ad accusare una leggerissima nausea. Chiuse il frigo con un’espressione schifata e continuò la lettura:

Mi dispiace non essere in casa a dargli il benvenuto, ma vorrei inserire un po’ di shopping prima della riunione del comitato genitori. Non si dimentichi di andare a prendere Mary all’asilo, per favore, esce alle quattordici e quindici in punto. E’ importantissimo non arrivare in ritardo.

Steve, intanto, proseguiva nell’esplorazione della casa: la camera da letto padronale era davvero enorme, con bagno annesso, anche se più che un bagno sembrava una vera
e propria Spa.

Ho allegato alla lettera una lista di regole che vanno assolutamente rispettate!

Regola numero 1: Mary e i suoi amichetti non devono mai entrare nella camera matrimoniale, ovviamente neanche lei deve entrarci;

“Ops!” Steve corse subito fuori dalla stanza prima che Natasha lo vedesse curiosare nell’armadio dei padroni di casa; le altre due camere erano di poco più piccole, ma comunque molto più grandi dello standard a cui lui era abituato. Una aveva il bagno in camera, mentre l’altra no, pensando che potesse scegliere quella che preferiva, optò, naturalmente, per quella annessa al bagno. Posò la valigia, l’avrebbe disfatta dopo, e, avendo ancora un paio di ore a disposizione prima di andare a prendere la bambina a scuola, decise di farsi un bagno. Non aveva mai visto una vasca così grande; lui, che era alto quasi un metro e novanta, ci entrava tutto. Si spogliò e si tuffò in mezzo alle bollicine, sospirò soddisfatto. Continuò la lettura:

Regola numero 2: Mary non deve mai dormire di pomeriggio, altrimenti la notte non riesce a dormire e tiene sveglia tutta la casa, cosa che non giova affatto ai miei nervi;

Regola numero 3:  abbiamo appena rifatto la moquette, quindi eviti che la bambina giochi seduta a terra;

Regola numero 4: nel caso non ci fosse scuola, Mary potrà essere portata al Metropolitan Museum, la Biblioteca Morgan, l’Istituto di Cucina Francese, la Borsa di New York;

Steve rilesse più e più volte le “gite” consentite; “la borsa di New York?!? Cosa ci fa una bambina lì?!?” Scosse il capo, i signori Jefferson dovevano essere al quanto originali.

Regola numero5: non prendiamo mai la metropolitana a causa dei batteri;

Regola numero 6: Mary osserva una dieta biologia a base di soia;

Regola numero 7: Mary deve esercitarsi nel francese e nel tedesco almeno tre volte la settimana, il signor Jefferson vuole che frequenti la Whortol School, dove è già in lista d’attesa, che le consentirà l’accesso ad Harvard, la sua ammissione è di alta priorità.

Steve aveva gli occhi spalancati: “Francese e tedesco?!? Dovrò studiarli anch’io…” Posò i fogli sul bordo vasca e chiuse gli occhi, quella povera bambina l’avrà mai un’infanzia normale? Con certi genitori non credeva proprio.
L’acqua era davvero calda e il profumo del sapone così delicato…
“Tato?” Gli sembrava di sentire una voce lontana, ma non riusciva a metterla a fuoco, “Tato?” Aprì gli occhi, ricordandosi dove fosse, si girò e vide la signora Jefferson con un sopracciglio alzato e Natasha poco dietro di lei con un mezzo sorriso ferino sul viso. Sentì le guance andargli in fiamme e affondò ancora di più nella vasca, finchè l’acqua non lo coprì fino al collo: “Mi-mi dispiace, devo essermi appisolato!”
“Cosa ci fa nella stanza degli ospiti?” Chiesa la signora. Steve la guardò confuso: “Pensavo fosse la mia stanza…”
“Oh non dica sciocchezze. Si vesta e mi segua!”, uscì dalla stanza seguita da Natasha che continuava a guardarlo e ridere sotto i baffi. Steve si asciugò in fretta e furia e seguì la donna. Attraversarono la cucina, la lavanderia e alla fine arrivarono in una stanzetta minuscola, con giusto un letto, un comodino, un armadio e una scrivania. “Questa è la sua stanza!” Steve si guardò intorno, sconsolato. Era spoglia, le pareti di un triste grigio e i mobili di legno scuro. La finestra dava sulla scala antincendio.  Sospirò, bhè, si sarebbe arrangiato.
Poco dopo si ritrovò a correre per strada, sperando di riuscire ad arrivare in tempo, prima che Mary uscisse di scuola, il carrozzino che zigzagava tra le persone. Riuscì ad arrivare un minuto prima, ma non c’era nessuno. Si guardò intorno cominciando ad aspettare, pian piano cominciarono ad arrivare le prime tate. Si avvicinò ad una di loro: “Mi scusi, ma i bambini a che ora escono?” Lei lo guardò malevolo: “Alle quattordici e quarantacinque!” Disse in una pessima imitazione d’inglese. Steve sbuffò: perché la signora Jefferson gli aveva detto un orario sbagliato?!?  Mentre si arrovellava il cervello con questa, e in verità molte altre domande, i bambini cominciarono ad uscire a fiotti, uno più scarmigliato di un altro. Correvano e urlavano verso le proprie tate, spingendosi incuranti di tutto il resto. Steve guardò bene, sperando di riuscire a scorgere Mary. Quando la vide le si avvicinò sorridendo: “Ciao Mary! Ti ricordi di me? Sono Steve!” La bambina lo guardò sbattendo le ciglia, poi gli diede un sonoro calcio nello stinco destro e cominciò a correre verso l’uscita della scuola, urlando a squarcia gola: “Non ti voglio! Voglio Lara, voglio Lara!”
Steve sollevò la gamba dolorante, per poi correre come un pazzo per fermare la bambina, il carrozzino che sbatacchiava a destra e sinistra. Fecero quasi tutta la strada di corsa, per fortuna la scuola era a pochi isolati dalla casa dei Jefferson.
Steve era già sfiancato, arrivarono all’ascensore e Mary si buttò subito sul pavimento, urlando e scalciando. Steve premette il pulsante e partirono: “ Prima missione terminata,” disse sorridendo e sbuffando, poi guardò la bambina, “dai Mary, alzati, il pavimento è sporco!” La bambina, però, continuava, imperterrita a rotolarsi a terra. Arrivarono al piano: “Perché non facciamo a chi arriva prima alla porta?”
“Tanto lo so che mi fai vincere!”
Steve rise: “Oh, no. Io sono velocissimo!” Mary si alzò di corsa e gli abbassò i pantaloni: “Non vinci!” corse alla porta, che Natasha aveva precedentemente aperto, entrò in casa e la richiuse. Steve uscì dall’ascensore e questo si chiuse con il passeggino ancora dentro. “No!” urlò cominciando a premere il bottone di chiamata, tentando di alzarsi il pantalone con una mano sola.
“Ha bisogno di una mano?” Steve si girò di scatto: sulla porta accanto a quella dell’attico dei Jefferson vi era appoggiato un ragazzo. Steve lo squadrò per bene; avrà avuto un paio di anni più di lui, capelli castani e occhi color nocciola che lo fissavano divertiti. Indossava una felpa verde con la scritta “MIT” e dei jeans scuri.
“Io-io no,” si voltò sentendo il campanello dell’ascensore, recuperò il passeggino e, sistemandosi i pantaloni, si avvicinò alla porta cominciando a bussare, “Mary! Dai apri la porta!”  Sentiva la bambina ridere dall’altro lato, e il suo vicino di casa che cercava di trattenere le risate, ovviamente riuscendoci molto male. Fece un profondo respiro: “Dai Steve, puoi farcela!”
“Mary, andiamo! Apri la porta!”
Il ragazzo dietro di lui si schiarì la voce e lo affiancò: “Ti scoccia se ci provo io?” Steve lo guardò malevolo, dubitava che quello sconosciuto avrebbe persuaso la bambina a farlo entrare in casa.
“Ehi Mary, sono Tony! Vuoi aprire la porta, per favore? Non è bello chiudere la gente fuori, sai?”
Steve scosse la testa con un mezzo sorriso, non ci sarebbe mai riuscito. Un attimo dopo si sentì la serratura che scattava e Mary comparve sulla soglia. Il sorriso scomparve dal viso del ragazzo biondo, “Ma tu guarda…” pensò. La bambina buttò le braccia al collo del moro: “Cosa ci fai qui?” Tony le scompigliò i ricci, “sto aiutando il mio amico…” e lo guardò interrogativo. Steve si morse il labbro inferiore “Steve.”
“Il mio amico Steve.”
“Lui è tuo amico?”
“Oh si, e tu devi fare la brava e comportarti bene, siamo intesi?” La bambina annuì sorridente, gli schioccò un bacio sulla guancia e poi rientrò in casa, lasciando la porta aperta. Steve si diresse in casa con il passeggino, si girò a guardare il ragazzo: “Bhè, grazie.” Il moro sorrise e gli porse la mano “Sono Tony.” Il biondo gliela strinse, ripetendo il suo nome.
“Sei il nuovo babysitter?” Steve annuì, poi sentì Natasha urlare qualcosa in russo mentre si sentiva rumore di pentole.
Steve sorrise, “devo…” disse indicando la casa.
“Ma certo! Ci vediamo!” Il biondo entrò, chiudendosi la porta alle spalle.
Si appoggiò al muro e sospirò: “Accidenti! Ci mancava pure il vicino carino!” Rilasciò la testa all’indietro, sbattendola poco gentilmente. “Ahia!” si portò una mano alla nuca, massaggiandola, mentre continuava a sentire i borbottii di Natasha provenire dalla cucina. “Oh avanti Steve! Toglitelo dalla testa! Lara è stata fatta fuori appena è uscita con un ragazzo!”
Prese la decisione di stare lontano da Tony e cominciò a darsi da fare per conquistare il cuore della piccola Mary.
Furono le due settimane più lunghe della sua vita: Mary si era dimostrata una vera ribelle sotto quel visino da angelo. Non voleva mangiare quelle “cose” che sua madre si ostinava a chiamare “vero cibo” (oh andiamo! Come puoi obbligare una bambina a mangiare tofu e soia?!?), quando era a casa non faceva che correre a destra e a manca, urlando a squarciagola. Steve aveva provato in tutti i modi a conquistarla, ma non c’erano giochi ne fiabe capaci di “ammorbidirla”.
Quella sera, dopo averla messa a letto, andò a rinchiudersi nella sua minuscola camera, collassò sul letto e chiamò Peggy: “Ehi biondo! Cosa combini?” Steve sorrise, lei era l’unica che poteva tirarlo su, in quel momento. Cominciava a chiedersi se quel lavoro facesse davvero per lui, se aveva preso la strada giusta. Ogni giorno era sempre più difficile mentire a sua madre e fingere che tutto andasse bene, stava cominciando a deprimersi. Raccontò a Peggy quelle due lunghe settimane e lei lo invitò a cena, così da potergli presentare Phil, il suo coinquilino. Steve sorrise: “Spiegami perché tu ti trasferisci in città e la tua vita diventa come quella di Will e Grace, mentre io sono qui, sommerso da… merda!” Si udì un bip nel telefono, “deve essere mia madre, ti richiamo!” attaccò e prese l’altra chiamata, “pronto?”
“Steve, tesoro! Allora come procede il lavoro?”
“Oh”, Steve cominciò a farsi aria con la mano “va a meraviglia! E’ davvero molto impegnativo, ma è molto gratificante!”
D’improvviso la porta si aprì ed entrò la signora Jefferson: “Allora tato, domani deve andare da Cartier a ritirare l’orologio del signor Jefferson e fotocopi le lettere per la Whartol. Poi pensavo di introdurre piatti francesi e tedeschi nella dieta di Mary, per facilitarle l’apprendimento delle lingue. Perché domani non le prepara una Ratatouille?” Uscì senza neanche aspettare una risposta.
“Steve? Ma chi era?” Il ragazzo si riscosse, “scusa mamma, ma ti devo lasciare, ti richiamo!” E attaccò senza aspettare risposta. Si portò le mani al viso: cosa doveva cucinare?!?

Il giorno dopo, mentre Mary era seduta al tavolo della cucina a disegnare, Steve si era messo, libro di cucina francese alla mano, a cucinare quella benedettissima Ratatouille.
Mentre cercava di avere ragione dei pomodori, sentì Natasha andare ad aprire la porta: “Signor Jefferson!” In un attimo Mary scattò dalla sedia e corse dal padre, “Papà!” Steve si allontanò dalla cucina per conoscere il famigerato padrone di casa. Lo vide solo di spalle, era molto più basso di lui, ma presentava una mole non indifferente. Prese in braccio la bambina, le schioccò un bacio in fronte e si chiuse nel suo studio, incurante delle preghiere della bambina di giocare con lei. Gli si strinse il cuore: se non fosse stato per lui e Natasha, quella bambina sarebbe stata completamente abbandonata a se stessa. Andò nel corridoio e la prese in braccio, asciugandole le guancie: “Invece di mangiare quella poltiglia, che ne dici di fare una cosa segreta?” Le disse a bassa voce. L’attenzione della bambina fu tutta per lui. Annuì e si fece mettere sul tavolo, mentre Steve prendeva dalla sua parte di dispensa, un barattolo di burro di arachidi e un cucchiaino: “Mamma non vuole che mangi dal barattolo!” Esclamò, anche se continuava a guardare il cucchiaino in maniera curiosa. “Quello che mamma non sa non fa danno.” Le passò il burro e il cucchiaio. La bambina affondò la posata e se la mise in bocca, soddisfatta. “Ti piace?” Annuì vigorosamente, continuando a mangiare.

Da allora le cose cominciarono ad andare molto bene con la bambina, sembrava che si stesse affezionando a lui e cominciava a fare sempre meno capricci.
La settimana dopo fu organizzata all’asilo una festa di Halloween e, sorprese delle sorprese, Steve fu costretto a vestirsi insieme a Mary. Lei, che aveva una passione per i supereroi, decise di vestirsi da Catwoman, mentre lui fu costretto a fare Batman.
Era da mezz’ora che sospirava su quel costume, proprio non riusciva a digerirlo, insomma era ridicolo! Era una tutina nera e aderente, l’avrebbero fissato tutti alla festa! Senza contare che era l’unico babysitter maschio! Mary cominciò a bussare alla porta: “Sei pronto Steve?” Il ragazzo aprì la porta, gli mancava solo la maschera. La bambina, invece, era deliziosa: aveva una tuta nera, ma non così attillata come la sua; le orecchie, le maniche e gli stivali di morbido peluche. Non era una Catwoman molto convenzionale, ma era davvero carinissima. Indossò la maschera e la prese in braccio: “Sono pronto signora!” Si diressero alla macchina, ma la bambina cominciò ad urlare che aveva dimenticato la sua borsetta di pelo. Steve la fece sedere nel veicolo e corse a recuperarla. “Ascensore!” Urlò, vedendo che si stava chiudendo. Vide una gamba bloccarlo e stava già per ringraziare l’uomo, prima che la voce gli mancasse vedendo che si trattava di Tony. Quello lo guardò per ben cinque secondi prima di piegarsi in due dalle risate. La salita fu molto lenta per Steve: quello non la smetteva più di ridere, piegato sul corrimano dell’ascensore; ringraziò di avere la maschera che nascondeva il suo rossore.
“Scusa, perdonami!” Riuscì a recuperare un po’ il fiato, “stai davvero benissimo! Perdona la mia ilarità, ma era da tanto che non vedevo un costume così… attillato!” Steve cercò di ignorarlo, incrociando le braccia al petto. Ringraziò il cielo quando sentì il ding dell’ascensore che annunciava che erano arrivati al piano.  Steve si fiondò fuori ed entrò in casa sbattendo la porta, non si era mai sentito così umiliato! “Quel… quel… maleducato! Che bisogno c’era di ridere tanto?!?” Pensò recuperando la borsa e dirigendosi in macchina.
La festa fu molto carina, i bambini e le loro tate si divertirono tantissimo. Mary era una piccola birba, ma ormai ascoltava sempre quello che diceva Steve e avevano instaurato un bellissimo rapporto. Per fortuna quando tornarono non fecero incontri “spiacevoli” e Steve non vide Tony fino ad un paio di giorni dopo, quando si incontrarono giù al palazzo, Tony che usciva e Steve che rientrava. Il moro cercò di parlare col biondo e scusarsi per il suo comportamento, ma quello lo dribblò subito e si chiuse in ascensore: non voleva più avere a che fare con quel deficiente!

Un paio di giorni dopo sua madre lo telefonò: “Non mi interessa quello che dirai, domani sera vengo a cena da te. Voglio vedere cosa stai combinando!” La voce era categorica e Steve non potè far altro che chiedere aiuto a Peggy.
Alle nove mise Mary a letto, che per fortuna si addormentò subito, e poi corse a casa della sua amica: sua madre era già lì. “Mamma!” Si fiondò ad abbracciarla e le scocciò un bacio sulla guancia, “scusa il ritardo avevo una riunione.” Vide Peggy, le mani sui fianchi, che scuoteva la testa, contrariata. “Hai già conosciuto il mio coinquilino, Phil?” Sorrise a trentadue denti guardando il ragazzo, che era già stato istruito da Peggy, il quale porse la mano a Sara: “E’ davvero un piacere conoscerla, Steve parla sempre di lei. Ho preparato il polpettone, spero le piaccia!” Sara fu fatta accomodare a tavola e le cose volsero al meglio, le bugie che Steve le stava raccontando si erano ingigantite di molto nell’ultimo periodo, ma sapeva che non poteva raccontarle la verità, non avrebbe capito. Il telefono squillò che avevano appena finito di mangiare il dolce, cheesecake alle fragole, sempre preparata da Phil; era la signora Jefferson, ovviamente: “Il Signor Jefferson è tornato prima dal suo viaggio d’affari e abbiamo deciso di festeggiare domani il compleanno di Mary. Ci sarà una piccola festicciola privata e poi andremo al Tash Palace per una cena di beneficenza. Ovviamente la bambina dovrà rimanere con lei a casa.”
“Ma il suo compleanno non è tra una settimana?”
“Si, ma il Signor Jefferson sarà in viaggio d’affari, quindi l’abbiamo anticipato. A domani.” Staccò il telefono senza neanche salutare. Il ragazzo sospirò, la situazione era davvero complicata. “Steve, tutto bene?” Il biondo sussultò, “certo, mamma! Allora cosa ne pensi?”
“La casa è molto bella e Phil è davvero un ragazzo d’oro! Potresti farci un pensierino…” Il biondo arrossì vistosamente: “Ma mamma, che dici?!?”
“Oh, avanti! Direi che è un ottimo partito, certo ha qualche anno più di te, ma cosa importa?”
Sua madre sapeva della sua omosessualità praticamente da sempre, probabilmente se n’era accorta anche prima di lui. Certo, lui non era mai stato molto sveglio in queste cose, quando era alle medie pensava di essersi innamorato di Peggy, ma quando si accorse che era più emozionato vicino a Tom, il suo compagno di banco, bhè… dovette ricredersi.
“Non è questo! Phil è fidanzato e poi c’è uno che mi piace, però è un idiota di prima categoria!” Si tappò la bocca con le mani -accidenti a lui! Questa da dove gli era uscita?!?- Certo, nei suoi pensieri aleggiava l’ombra di un moretto dagli intriganti occhi color caramello, ma aveva sempre cercato di non soffermarsi su di lui, non voleva perdere il lavoro per una sbandata.
Sara lo guardò molto interessata: “Chi è? Un collega di lavoro?”
Sospirò rassegnato: “Si, diciamo di si.”

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Festicciola intima? Oh si, visto che i partecipanti erano la signora e il signor Jefferson, lui e dei clown francesi tristissimi. Era seduto sul divano accanto a Mary, un cappellino di carta in testa e due artisti che si stavano esibendo davanti a loro con danze strane. Lui non ne sapeva molto di queste cose, ma era convinto che se avessero portato la bambina al luna park, non solo avrebbero risparmiato un bel po’ di soldi (Dio solo sapeva quanto avevano pagato quei tristissimi pagliacci), ma avrebbero regalato alla loro figlioletta un compleanno bellissimo. “Non mi piacciono!” Era la decima volta che Mary lo ripeteva e Steve non poteva che concordare con lei, anche se in silenzio. Sentiva, al di sopra della musica, i signori Jefferson che discutevano animatamente. Lui sembrava molto arrabbiato, lei aveva una nota disperata nella voce. Diede un bacio sulla testa della bambina, sorridendo comprensivo, quando suonò il campanello. Si alzò, Natasha aveva avuto la serata libera dopo mesi, e andò ad aprire. Si trovò davanti un Tony tutto sorridente. “Cosa ci fai qui?!?” Uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
“Bhè, -si grattò la nuca, imbarazzato- ho notato che mi stai evitando e volevo chiederti ancora scusa per il mio comportamento… ilare dell’altro giorno. Posso farmi perdonare con una pizza?”
Steve lo guardò stralunato, non essendo sicuro di quello che aveva sentito. “Una pizza?”
Annuì: “Si, Steve, una pizza… o un panino o un gelato, quello che vuoi!”
Era tentato di accettare, ma il moro si era dimostrato davvero un cretino e poi non poteva permettersi di uscire, se i Jefferson l’avessero saputo, l’avrebbero licenziato.
“Oh, avanti! Giuro che se non esci con me, mi apposto qui fuori 24Hsu24 finchè non accetti per esasperazione!”
“E va bene! Dopo il lavoro giovedì! Ma ora vattene, prima che i Jefferson ci vedano e mi licenzino!”
Entrò subito in casa, sospirò e vide arrivare la signora Jefferson: “Tato, voglio che sappia perché il signor Jefferson è così sconvolto… A quanto pare hanno rifiutato la domanda di Mary alla Whortol.”
Steve sbattè le palpebre più volte: “Mi dispiace tanto, deve essere… sconvolgente.”
“Non sconvolgente, inaccettabile!”
Si udì la voce di Mary: “Basta! Non mi toccare!”
La signora si voltò verso la bambina: “Tesoro, non devi aver paura, sono solo dei clown.” Allungò le braccia per prendere in braccio Mary, ma quella la dribblò e si gettò su Steve: “Mi fanno paura!”
Steve guardò dispiaciuto la signora (la stava crescendo lui quella bambina, avrebbe dovuto aspettarselo!), si abbassò e guardò la bimba negli occhi: “Mary vai dalla mamma.” Lei scosse il capo e lo abbracciò ancor più forte. “Tesoro vai dalla mamma.”
“No!”
La donna si alzò e si voltò a guardarlo, il viso completamente primo di emozioni: “Voglio dirle una cosa, tato. Siamo dell’idea che lei non trascorra abbastanza tempo in attività educative con nostra figlia, perciò abbiamo deciso di servirci di uno specialista per sanare questa situazione, le ruberà un po’ di tempo, questa settimana. Comincerà giovedì sera.” Il biondo spalancò gli occhi – perché proprio giovedì?!?- pensò mentre i signori salutavano la bambina e se ne andavano alla loro cena di beneficenza.

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Il giovedì mattina aveva scritto un bigliettino a Tony, avvertendolo del suo ritardo a causa di “impegni lavorativi.” Gliel’aveva infilato sotto la porta e sperava vivamente che l’avesse letto. Odiava essere in ritardo agli appuntamenti.
Guardò l’uomo seduto di fronte a lui: aveva degli occhiali che gli coprivano quasi tutto il viso, a fondo di bottiglia. I capelli erano neri e attaccati al cranio con un chilo di gel, il naso aquilino e l’aria arcigna. Lo inquietava e disgustava allo stesso tempo. L’uomo aprì una cartelletta e lo guardò al di sopra delle lenti: “Lei legge alla bambina il wall street journal? Il financial times? Il Granta?”
Lo guardò con gli occhi spalancati: “Io…io le canto in francese e le leggo le favole in tedesco…”
L’uomo alzò entrambe le sopracciglia: “Bene, servirà più tempo per trovare una soluzione…”

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Corse a perdifiato per la strada fino ad arrivare al punto di incontro stabilito: un ristorante italiano. Tony era seduto sul marciapiede, quando lo vide arrivare si alzò e spolverò i pantaloni neri. Steve lo raggiunse col fiato corto: “Lo so, sono in ritardo, hai letto il mio bigliettino?”
“Si…”
“Mi dispiace! Non sono riuscito a liberarmi!”
“Si, bhè… ora non soltanto abbiamo perduto la prenotazione ma la cucina ha anche chiuso, quindi…”
Il biondo si grattò la nuca imbarazzato: “Capito. Mi dispiace, scusa ancora per il ritardo.” Si voltò per andarsene, quella giornata non poteva finire peggio.
“Ehi dove credi di andare?”
Si voltò a fissare il ragazzo, era sceso dal marciapiede e riusciva a guardarlo dritto negli occhi: “La cucina è chiusa e qui vicino non ci sono altri posti ancora aperti.”
Tony sembrò pensarci su un momento, guardandosi intorno: “C’è un posto dove potremmo andare…”

****
Si ritrovarono seduti sulla gradinata del museo di storia naturale, il suo preferito, ovviamente, con un cartone di pizza a testa e una birra.
“Buona eh? E’ la pizzeria miglior della zona.”
“Non male, anche se trovo che quella di Mikie’s sia più buona.”
Tony sollevò un sopracciglio guardandolo incuriosito: “Bhè, se sei un estimatore della pizza, una di questa sere ti porto nella zona italiana di Harlem.”
“Harlem? Lo sai che non ti ci vedo proprio? ” Chiese incuriosito il biondo, prendendo un sorso dalla sua Tennen’s.
Il moro lo guardò corrucciato: “Perché? Mi piace esplorare la mia città. Dovresti farlo di più anche tu…”
Fu la volta di Steve di alzare il sopracciglio: “Grazie… Vedrò di infilarlo tra una pulizia e l’altra del vomito di Mary e una puntata veloce in lavanderia.”
“Se il tuo lavoro fa così schifo, perché non lo molli? Non ti serve mica per fare carriera! Non capisco…”
Il biondo scosse la testa con espressione infastidita: “No, sfido io che non capisci. E’ naturale, chissà che vita da favola avrai avuto: sei cresciuto a Fifth Avenue, laureato al MIT…”
“Vita da favola?” Fece sarcastico il moro, posando la sua birra sul gradino e alzando gli occhi al cielo con una smorfia sul viso: “Ok,” annuì vigorosamente col viso, “ora ho capito. Bhè… Per tua informazione mia madre è morta quando avevo quattro anni, mio padre viaggiava continuamente per lavoro, sono stato cresciuto da nove tate diverse, finchè non ho raggiunto l’età per entrare in collegio. Ecco qual è stata la mia vita da favola.”
Steve lo guardò dispiaciuto e senza parole: quando l’aveva visto per la prima volta aveva pensato fosse uno di quei tipici figli di papà che hanno avuto sempre tutto dalla vita e invece…
“Mi dispiace tanto…”
“Sai, però, che ti dico?” Il moro prese un sorso di birra e lo guardò sorridente, “credo di essere diventato un uomo decente, malgrado tutto.”
“Io mi sento un vero coglione, invece.” Steve distolse lo sguardo da lui e lo posò sulle sue scarpe, cominciando a guardarle con insistenza.
“Bhè, trovo che coglione sia una parole troppo forte… io ti definirei più idiota o testa di rapa, ma io sono stato educato in collegio.” Si guardarono negli occhi e si sorrisero.
Sulla strada per casa camminavano vicini, un po’ troppo in effetti, tanto che le loro mani si sfioravano ad ogni passo: “Io vorrei lasciare, davvero, ma la verità è che non posso lasciare Mary. Non posso! Insomma, tu penserai che io sia folle, ma sto male anche per la signora Jefferson.” Tony lo guardava e rideva mentre Steve parlava. “Credi che sia pazzo?”
“Bhè, che ne so, magari soffri della sindrome di Stoccolma.”
“Stai scherzando?” Chiese Steve, ridendo a sua volta.
Tony annuì, “si, ma credo che dovresti lasciarti baciare adesso.”
Il biondo si fermò di colpo: “Cosa?”
“Bhè, siamo a due isolati da casa e più ci avviciniamo meno posso sfiorarti. Il che, a dire la verità, è l’unica cosa a cui riesco a pensare dal giorno in cui ti ho visto vestito da Batman.” Steve arrossì e rise appena.
“Questo è davvero perverso, ammettilo!”
“Tu non sai nemmeno quanto.” Il moro ammiccò e lo guardò dritto negli occhi, pochi secondi dopo aveva le labbra appoggiate alle sue.
Rimasero in strada a baciarsi per un tempo indefinito, finchè Steve, facendo violenza su se stesso, non si staccò: “Si sta facendo tardi e devo tornare a casa.” Il moro lo coinvolse in un altro bacio, “perché non vieni da me?” sussurrò sulle sue labbra. Steve sorrise: “Se i Jefferson lo vengono a sapere mi licenziano.” Tony lo guardò da sottoinsu, con un sorrisetto malizioso: “ok, vorrà dire che ci organizzeremo in altro modo…”

***
Tre settimane dopo, la vita di Steve sembrava procedere a gonfie vele: la relazione con Tony, anche se clandestinamente, proseguiva molto bene (il moro aveva trovato un piccolo hotel dove potevano passare il tempo insieme senza che i Jefferson lo venissero a sapere); Mary lo adorava e ormai obbediva come un angioletto e la madre, anche se imbottita di menzogne, sembrava che stesse diventando meno insistente da quando aveva visto con i suoi occhi la, presunta, casa in cui viveva.

Ma non per tutti le cose stavano andando bene: la signora Jefferson aveva scoperto della biancheria da donna nella lavatrice che, ovviamente, non era sua. Alla fine Natasha aveva detto che le apparteneva e “l’ho dimenticata, signora, mi scusi sono davvero imbranata.” Ma lo sguardo eloquente che aveva rivolto a Steve aveva messo il ragazzo in allarme sul fatto che ci fosse una donna che girovagava per casa quando loro non c’erano, ma c’era il signor Jefferson, naturalmente. Signore che, dopo l’ennesima litigata con sua moglie, si era trasferito a Chicago per “lavoro.” La donna era caduta in depressione e un paio di giorni dopo la partenza del marito, l’aveva vista salire in macchina diretta ad una Spa fuori città, senza neanche salutare sua figlia. Gli dispiaceva moltissimo veder soffrire la donna, ma ancor di più gli dispiaceva per Mary; lui non sarebbe rimasto per sempre e tremava al pensiero di cosa sarebbe successo alla bambina una volta che sarebbe andato via.

Un paio di giorni dopo la partenza della signora, Mary stette male: aveva la febbre alta, tremori e conati. Steve era disperato, erano quasi le nove di sera e non sapeva cosa fare. Chiamò Peggy chiedendole il numero di un medico: “Mi dispiace Steve, non so come aiutarti, però… una persona che potrebbe venire la conosci…” E il ragazzo si era visto costretto a telefonare alla madre, che arrivò nel giro di poco tempo e si prese cura della bambina. Steve osservò il viso arrabbiato e deluso della donna mentre metteva a letto Mary. Non ci furono parole tra loro, gli occhi di Sara parlavano e ferivano più di mille coltelli e Steve si sentì amareggiato e deluso da se stesso: si sentiva un fallimento come figlio. Erano seduti sul divano, in silenzio, quando dalla porta entrò la signora Jefferson: “Oh tato! Il signor Jefferson sta tornando da Chicago!” Steve le andò incontro, “signora l’ho chiamata almeno una decina di volte!” La donna lo guardò incuriosita prima di notare la donna dietro di lui. Steve si scostò: “lei è mia madre, è un’infermiera. Mary è stata male e…”
“Dov’è ora la bambina?”
“Sta dormendo…”
La signora Jefferson scosse le spalle: “Vuol dire che non è stata poi tanto male, no?” Sorrise al ragazzo, “vado a prepararmi, mio marito arriverà a momenti!” Lasciò la stanza, senza degnare più nessuno di uno sguardo. Sara guardò il figlio con espressione indecifrabile: “Mamma, mi dispiace…” La donna lo fermò con un gesto della mano, “quando avrai finito di sprecare la tua vita, sai dove trovarmi.” Detto questo imboccò il corridoio e Steve sentì la porta chiudersi. Si portò le mani sul viso, le lacrime che premevano per uscire.

***
Un paio di settimane dopo, Steve stava camminando con Tony al parco, in una delle sue rarissime giornate libere. Il moro cercava di tirare su il ragazzo che, dopo gli avvenimenti che avevano visto coinvolta Sara, era caduto in una specie di depressione: si riteneva un fallito e non riusciva ancora a capire quale strada avrebbe potuto/dovuto/voluto intraprendere. Passeggiavano mano nella mano, Steve con un espressione funerea in volto e Tony che faceva battutine stupide per farlo ridere. Si sedettero su una panchina e il ragazzo si guardò intorno con poco interesse, sorridendo di tanto intanto al ragazzo accanto a lui. Quella mattina aveva avuto una piccola discussione con la signora Jefferson: aveva scoperto che c’era una tatacam nella stanza di Mary – una telecamera che registrava ventiquattr’ore su ventiquattro i suoi movimenti. Era frustrante sapere che quella donna, nonostante tutto quello che stesse facendo per lei e sua figlia, non si fidasse di lui.

Quando Steve tornò a casa, poche ore dopo, si trovò subito la signora Jefferson davanti; aveva un espressione neutrale, se non fosse stato per un piccolo sorrisino ferino sulle labbra: “Immagino che la sua imperdonabile condotta abbia a che fare con il ragazzo del nostro palazzo…” Steve spalancò gli occhi e sbiancò: com’era possibile? Come aveva fatto a scoprirlo? Lui e Tony erano stati attentissimi a limitarsi all’interno del palazzo – e di certo la donna non frequentava i posti che frequentavano loro. Il sorrisetto si allargò sul volto della donna: “ Tato, io non sono mica nata ieri… Lei non è neanche al suo livello, vede…” Scosse i lunghi capelli castani, “non ci sarà un lieto fine…” Inclinò appena la testa, elegantemente, come un leone che studia la sua preda, pronto a balzare e saziarsi della sua carcassa, “così non può funzionare, tato… Conto di vedere i suoi bagagli pronti nel giro di un’ora.”
Steve la guardò con gli occhi spalancati, le lacrime che premevano per uscire: “La prego non lo faccia! Non per me, ma per Mary! Non finchè non avrà risolto i problemi con suo marito.”
Vide la donna spalancare gli occhi e sbiancare, la bocca atteggiata in una smorfia offesa: “Non si permetta!” Sollevò un dito contro di lui, accusatore, la voce si alzò di un tono, “Lei è uno stupido; uno stupido ragazzo! Come se conoscesse tutto della mia vita, come se conoscesse tutto su come funziona il mondo!” Tremò appena, prima di prendere il cappotto e la borsa e lasciare frettolosamente l’appartamento. Steve si ritrovò a fissare il vuoto, sentiva la rabbia montargli dentro, insieme alla frustrazione e all’insofferenza. “E no! La cosa non finisce qui!”

Si diresse a passo di marcia nella camera di Mary e cominciò a lanciare oggetti a destra e sinistra, cercando la tata cam. Lo sguardo gli cadde su un orsacchiotto poggiato sulla cassettiera: lo prese, lo rivoltò come un calzino e vide la telecamera nascosta dietro gli occhi vitrei. “Molto bene!”
Lo poggiò sul mobile e prese un profondo respiro, la rabbia che ormai stava prendendo voce: “Allora… Bene signora Jefferson! Le darò alcune regole fondamentali sulla cura di un bambino: sbattere la porta dritto in faccia a sua figlia è una cosa che non si fa! Passare il tempo a fare beneficenza a bambini che nemmeno conosce invece che al suo stesso sangue, è qualcosa che non si fa! Rinchiudersi in una Spa, quando sua figlia ha la febbre a 40 e non richiamare dopo i messaggi che le ho lasciato, la rende una madre assolutamente inadeguata!” Aveva gli occhi lucidi, le mani strette a pugno, il corpo che tremava. Scosse la testa, mentre la sua voce cresceva di un’ottava: “Allora… so bene che è molto impegnata con i suoi appuntamenti dal parrucchiere e con i suoi massaggi rilassanti; che si sforza di restare giovane per riconquistare suo marito ma, le do una dritta: perché non prova a cenare insieme a suo figlio, una volta ogni tanto, la sera? E occhio signora! Attenzione! Cerchi di sorridere qualche volta, la gente la detesta!” Prese un altro profondo respiro, distogliendo lo sguardo dalla telecamera e cominciando a camminare avanti e indietro: “E quanto a lei signor Jefferson, insomma, lei chi è? Si lo so, ha chiesto la stessa cosa di me anche se non sa lontanamente che faccia ho! Allora voglio darle un indizio, ok? Io sono quello che ha cresciuto sua figlia, caro signore! Mary non è un accessorio, sua madre non l’ha ordinata su ebay!” Si portò le mani tra i capelli, scompigliandoli e riordinando per un attimo le idee,  “sua figlia… sua moglie… sono persone che vivono in casa; sono esseri umani che stanno annegando nel loro desiderio di un suo sguardo, capisce?” Si sedette sul letto, la rabbia del tutto scemata, uno sguardo triste mentre si rivolgeva di nuovo alla telecamera: “Sentite, io non ho alcuna intenzione di ferirvi, se non altro perché avete l’immenso privilegio di essere genitori di una bambina come Mary. Mary vi ama! A lei non interessa cosa indossate, o che cosa le comprate o quale scuola frequenta; lei vuole solo stare con voi, e basta!” Si lasciò scappare un piccolo sorriso: “Gli anni passano… smetterà di amarvi così incondizionatamente, quindi, per il vostro bene, non perdete l’occasione di conoscerla… è vostra figlia… è… è davvero una piccola persona straordinaria.”

***
Era andato a stare da Peggy e Phil, finchè non avesse deciso cosa fare della sua vita. Tony gli aveva chiesto, spesse volte, di andare a vivere da lui, ma Steve non se la sentiva di diventare il vicino di casa dei Jefferson.
Era andato a trovare sua madre: aveva cercato di spiegarsi, di farle capire che era la sua vita e che voleva decidere lui cosa fare. Capiva che Sara volesse vederlo sistemato, con un buon stipendio che gli permettesse di fare la vita comoda, ma se c’era una cosa che Steve aveva imparato in quella storia, era che i soldi non facevano la felicità di nessuno. Lui voleva essere felice della sua vita, anche se con pochi soldi.
Alla fine decise di prendere la laurea in antropologia. Aveva trovato lavoro come cameriere part-time e, andando a vivere con Peggy, le spese non sarebbero state troppo alte. Inoltre, con un progetto basato sulla sua esperienza come baby sitter, poteva aspirare a prendere una borsa di studio.
Era passato quasi un mese dal suo licenziamento e Steve, ormai, si stava rimettendo in carreggiata. Le cose con Tony andavano a gonfie vele e proprio in quel momento lo stava aspettando seduto sulla loro panchina, come l’aveva denominata Steve dopo che, proprio lì, Tony gli avevo chiesto di approfondire la loro relazione.
“Ehi! Scusa il ritardo, sono stato trattenuto!” Si sedette accanto a lui riprendendo fiato. Steve lo guardò incuriosito, “è successo qualcosa?”
Tony gli lanciò un piccolo sorriso e gli porse una lettera: “Da parte della tua ex datrice di lavoro.” Il viso di Steve si rabbuiò di colpo: prese la lettera e se la passò e ripassò tra le dita, indeciso se leggerla o meno. Alla fine la porse al moro: “non mi va di leggerla…” Tony la prese e gli diede un piccolo bacio sulle labbra: “Ti va se te la leggo io?” Sorrise appena e annuì:

Caro Steve,
è passato del tempo dall’ultima volta che ci siamo parlati, comunque quello che mi hai detto in quel video mi tormenta ogni giorno. Se ora mi guardo indietro, non so che cosa dire, a parte grazie e… mi dispiace. Avevi proprio ragione: tra tutti i privilegi che ho, Mary è il più grande. Avevo disperatamente bisogno che qualcuno me lo mostrasse… tu l’hai fatto e, per questo, ti devo tutto. Chissà se sarai sorpreso o no di sapere che ho lasciato mio marito: non valeva la pena di lottare per un uomo che mi aveva fatto così disperare. E sono fiduciosa che, col tempo, io e Mary ce la caveremo bene. Ti auguro tutta la felicità del mondo,

con affetto,

Alexandra.

Ps: sono contenta di informarti che Mary chiede di te sempre un po’ meno, ogni giorno e ogni notte.    

Steve rimase in silenzio, ascoltando la voce di Tony. Le mani gli tremavano appena e gli occhi gli si inumidirono: era davvero felice che le cose si fossero sistemate. Era convinto che, insieme, ce l’avrebbero fatta a superare qualsiasi cosa, Mary era una bambina speciale e la signora Jefferson aveva solo bisogno di capirlo. Prese la lettera che Tony gli stava porgendo e se la mise in tasca. “Stai bene?” Il ragazzo si specchiò in quegli occhi color caramello che gli trasmettevano sempre tanta forza. Annuì cercando le sue labbra. “Le cose stanno davvero andando alla grande.” Tony annuì a sua volta, prendendolo per mano: “Andiamo! Gli altri ci stanno aspettando!”
 



Sono mostruosamente in ritardo, ma alla fine ce l’ho fatta a finire! Non è facile narrare un intero film in un capitolo e, per ovvie ragioni, ho modificato un po’ (parecchio!) la trama. Diciamo che è “liberamente ispirata” al film!
La dedico alle mie carissime massoni! Vi lovvo tantissimo! 
  
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