Gli occhi infossati in un viso pallido. Il biondo dei capelli ormai spento. Le labbra viola e serrate venivano accarezzate dall’indice di una mano esile. Sul polso piccolo e sottile si intravedevano diverse cicatrici. Qualcosa di scuro e denso lasciava una scia rossa su un braccio. Un braccio marchiato da una parole. “Forte”. Isabella quel giorno non si sentiva affatto forte. E scrivere non l’aiutava. La soffocava. Le parole penetravano fin sotto la pelle e l’inchiostro di quella penna nera, usata ogni giorno fino a tarda notte, le macchiava il sangue e le faceva pesare la testa. Lo sconforto di quelle storie che nascevano da incubi, più che da sogni, lo sentiva suo. Percepiva quel dolore come qualcosa che meritava, una punizione al fatto che non vivesse più.
 Isabella era morta.
Era morta quando a scuola, all’età di 15 anni, il professore di religione le alzò la gonna e lei non sapeva che fare. Era morta quando l’anno dopo lo raccontò al suo ragazzo, che la lasciò perché era una “puttana”. Era morta anche quando a morire fu sua sorella, e i suoi genitori non si preoccuparono più per lei.
Isabella era morta e muore ogni giorno. Quando una lama le sfiora la pelle, le fa sentire che in realtà non è morta, che il dolore c’è e non va più via. E l’ha capito ora, Isabella. Ora che è stesa sul suo letto imbrattato di sangue e con i polsi squarciati. Le mani tremanti e le lacrime amare. Respira e non respira. Viva e morta. No, Isabella vuole vivere e se ne accorge adesso. E contempla il suo corpo inerme, i suoi occhi grigi sbarrati e quel tatuaggio tanto falso, quanto vero. È forte ora, Isabella. Ma è troppo tardi per esserlo.