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Autore: Raven Callen    08/12/2013    2 recensioni
Storia scritta per partecipare ad una simpatica gara indetta da Desperate Housewriter. La ringrazio per avermi fatto partecipare. E ringrazio anche Kimberly D Crystal, lei sa perchè.
***
Lui aveva appena terminato la prima superiore, si sentiva come una bestia da macello che era riuscita – non si sa come – a scampare all'annuale carneficina a cui erano sottoposte tutte le matricole.
Si sentiva un sopravvissuto.
Genere: Commedia, Fluff, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Prompt: Dardeggiante.
 
Contenuto del prompt: Parla degli sguardi. Sta a te la scelta del protagonista o dei protagonisti, ma il contesto principale in cui dovrai immergerti sono gli sguardi durante una partita (di che cosa? Sta a te deciderlo). 
 
Parole: (esclusa citazione e note) 2.379
 
Note: Non c’è molto da dire, in verità.
Questa ff è per la gara indetta da Desperate Housewriter ed io ci ho lavorato sopra nell’ultimo mesetto.
Sono arrivata all’ultimo giorno utile per pubblicarla perché, scusami Desperate, sono stata sommersa di cose da fare. Se penso che devo ancora occuparmi di millemila cose mi sento male… Aiuto!
Comunque voglio far presente che è una piccola storia assolutamente senza preteste (scritta anche un po’ di fretta, se vogliamo essere sinceri).
Se vedo che proprio fa schifo, non appena avrò un secondo di respiro, la riscriverò dal principio.
Oddio, mi auguro di non arrivare a tanto.
Che dire, i pareri spettano a voi.
Buona lettura.
 
 
 
L’insicurezza non è una brutta cosa. È quello che ci rende umani.
- Ed Sheeran.
 
 
 
Era iniziato tutto un giorno come tanti, un giorno appena un po’ più bello degli altri.
Era appena iniziata l’estate quando Michael mise piede, per la prima volta, in quella sala giochi: si trovava un po’ in periferia, a pochi metri da casa sua ed era molto frequentata.
Lui aveva appena terminato la prima superiore, si sentiva come una bestia da macello che era riuscita – non si sa come – a scampare all’annuale carneficina a cui erano sottoposte tutte le matricole.
Si sentiva un sopravvissuto.
Per questo si era regalato un pomeriggio di divertimento totale.
Dopotutto i videogames erano sempre stati la sua passione, ma si guardava bene dal dirlo in giro.
Un ragazzetto insignificante e vestito con maglioni troppo larghi, come lui sapeva di essere, non poteva davvero permetterselo.
Con passo titubante ed entusiasta si addentrò in quella specie di Paese delle Meraviglie.
Non c’erano solo console di gioco, ma anche qualche flipper, un tavolo da hockey, uno da biliardo e, in un angolino nascosto, un posto dove allenarsi ai tiri liberi, a basket.
Le luci erano leggermente basse e dagli altoparlanti si spandeva della musica allegra e vivace.
Erano le tre, a quell’ora non c’era ancora molta gente.
“Meglio del cinema” si disse Michel.
Prese posto davanti al videogioco di Donkey Kong, giusto per partire con qualcosa di classico, e inserì una moneta.
Mentre il gioco partiva, il quindicenne non potè fare a meno di sentirsi felice.
 
 
Da quel giorno, andare in quella sala giochi ogni sabato pomeriggio -  alle tre, per evitare la confusione tipica del fine settimana – era diventato un rito.
Quel posto era “il Paradiso dei Game-player”. Doveva pensarla così anche il proprietario, perché quel posto si chiamava proprio Paradise.
Non era il massimo della fantasia, però racchiudeva il concetto centrale.
Il gestore, un allegro ometto sulla cinquantina, con i capelli biondi che però si stavano ingrigendo, sembrava averlo preso in simpatia perché gli sorrideva sempre, quando arrivava.
Era solito lanciargli uno sguardo divertito e complice e accompagnarlo visivamente all’interno della sala con una strizzata d’occhio.
Michael non avrebbe potuto desiderare niente di meglio.
 
 
***
 
 
 
Si accorse di lei solo un mese dopo l’inizio di quel piccolo rituale, durante i primi giorni di luglio.
Era tutto preso da una partita ad un videogame di corse in motocicletta, non ne ricordava il nome.
Stava premendo una serie di tasti in successione per far eseguire alla sua moto un’impennata e farle prendere il volo su una rampa di lancio.
Poi un suono sordo, una specie di tonfo, l’aveva distratto dai suoi pensieri, facendolo sussultare.
Si era quindi voltato con un sobbalzo e in quel momento l’aveva vista.
Una ragazza.
Una ragazza con i capelli rosso scuro e una giacchetta leggera con cappuccio addosso.
Le maniche dell’indumento erano tirare tu, fino ai gomiti, per non ostacolarle i movimenti. Il cappuccio era calato in testa e da esso spuntavano molte ciocche rosse che sembravano nascere direttamente dal tessuto.
La pelle degli avambracci era chiara, ma si poteva scorgere un accenno di abbronzatura, e Michael riusciva chiaramente a vedere un piccolo neo all’altezza del polso destro.
 
 
Ok che là dentro c’era l’aria condizionata a palla, ma erano pur sempre a Luglio, santo cielo!
Come faceva a stare con una giacca?
 
 
Stava tirando a canestro. Ed era brava!
Faceva quasi sempre centro – e, quando falliva, stringeva le labbra e assottigliava gli occhi, in un chiaro segno di frustrazione.
Senza rendersene conto, Michael aveva completamente abbandonato la sua partita e aveva preso a studiare con interesse la nuova venuta.
 
Era raro trovare una ragazza là dentro, anche all’orario di punta.
Era un evento quasi unico nel suo genere.
 
Era rimasto lì, dunque, fermo come un’idiota fino a che lei - sentendosi osservata, probabilmente – non si era voltata nella sua direzione.
Michael si sentì colpito da un paio di occhi marroni che però sembravano quasi neri. Profondi e imperscrutabili.
Il suo sguardo era penetrante ma tranquillo e curioso, il sopracciglio inarcato in segno di sfida.
 
Il biondino distolse in fretta lo sguardo, tornando a concentrarsi sul suo videogioco.
Sentiva la pelle delle guance pizzicare fastidiosamente per la bieca figura da importuno che aveva fatto.
Si vide riflesso nel vetro della console: un ragazzetto spaurito con dei capelli biondi, anonimi e arruffati, e due occhi verdi da creatura in trappola.
Smise di badare al gioco – la sua moto si era schiantata da un pezzo – e passò il resto del tempo che gli restava per lanciare furtivamente qualche occhiata alla ragazza alla sua destra.
La guardava, poi tornava di scatto a fissare il vuoto – lo schermo – davanti a sé.
Poi la guardava di nuovo. E di nuovo faceva finta di niente.
E ancora e ancora. Così per tutto il tempo.
Qualche volta gli sembrò di scorgere la sconosciuta ricambiare qualche suo sguardo, ma non ne era sicuro.
E non era davvero il caso di andare in paranoia, per così poco.
 
 
Lo stesso evento si verificò ogni sabato pomeriggio, da quel dì.
Michael arrivava al Paradise, alle tre spaccate, e si piazzava davanti a quel gioco di moto.
Lei era sempre lì, quasi lo aspettasse.
Non si trovava sempre davanti al canestro, a volte la beccava a provare qualche gioco poco distante da lui. Non andava mai troppo lontano da quell’angolo, restava comunque nelle vicinanze.
Questo – oltre ai vestiti, che diventavano progressivamente più pesanti con l’andare avanti della stagione – era l’unica cosa che cambiava.
Tutto il resto era uguale.
Lui si posizionava accanto a lei e fingeva di giocare.
Premeva qualche pulsante, distrattamente, e poi la guardava.
Infilava la moneta per iniziare una partita, e poi sbirciava verso di lei.
Sempre così.
Era diventato il suo piccolo hobby. Studiare una perfetta sconosciuta, impararne a memoria i movimenti, i suoi gesti quotidiani, le più impercettibili abitudini.
Come la tendenza di lei ad indossare felpe molto larghe. Oppure l’esclamazione di giubilo quando raggiungeva un nuovo record davanti a qualche console.
O ancora la quasi totale assenza di ninnoli e gioiellini e il suo vizio di legarsi i capelli quando era particolarmente concentrata. (vizio che riservava solo ai tiri a canestro)
Più il tempo passava – più lui si sentiva ridicolo e patetico – più Michael elaborava congetture sulla rossa.
Non c’era niente di male a fantasticare un po’ su una persona che non conosci nemmeno.
Era un modo come un altro per scacciare la noia, o “stimolare la creatività”, come ripeteva sempre la sua insegnante di italiano.
Era normale, giusto?
 
***
  
 
“Lei è una ragazza da viola.” Si era detto, uno degli ultimi giorno di settembre.
Visto che indossava quasi sempre colori scuri il viola non poteva non piacerle!
Sarebbe stato incoerente.
Probabilmente era anche il suo colore preferito.
 
Si segnò il ragionamento su un pezzo di carta.
 
 
***
 
 
“Probabilmente è una ragazza competitiva”. Aveva pensato quando l’aveva vista stracciare un ragazzo più grande di lei al tavolo da hockey.
La rossa aveva un riflesso grintoso che le brillava nello sguardo.
Sembrava una pantera: quel giorno era vestita tutta di nero e il rosso dei capelli era l’unica cosa che creasse un minimo di contrasto.
 
 
***
 
 
“Non è come le altre ragazze”.
No, non lo era. Non portava della bigiotteria, né abiti firmati. Non si atteggiava, anzi, era molto silenziosa e a volte quasi timida. Anche se sembrava più diffidenza, la sua.
Adorava i videogiochi, specie quelli di combattimenti e velocità. Un po’ come lui.
Non l’aveva mai vista truccata e quando sorrideva mostrava i denti bianchi che quasi brillavano: sembrava una stella.
 
Verso Dicembre la lista – perché, aggiunta dopo aggiunta, quel pezzetto di carta si era allungato progressivamente – delle sue ipotesi era diventava lunga quanto la lista della spesa di sua madre il giorno prima del cenone natalizio.
 
 
Nonostante fossero passati mesi e lui avesse osservato tutto ciò che c’era da osservare, mancava ancora un dettaglio: non conosceva il suo nome.
All’inizio l’aveva soprannominata La Ragazza in Rosso, ma quel nomignolo era diventato ridicolo quando lei aveva smesso di indossare la sua giacchetta rossa estiva.
Così – nella sua mente – aveva cominciato a chiamarla Alice.
 
 
 
 
***
 
 
Alice era un pensiero martellante ma non per questo fastidioso.
L’aveva accolto volentieri nella sua testa, non aveva molto altro a cui pensare.
Certo, c’erano la scuola, gli amici, gli hobby.
Però…
Michael era sempre stato un appassionato di misteri, e lei lo era. Era il suo mistero personale, un enigma vivente che lo teneva con la mente sempre attiva.
A lui, tutto sommato, andava benissimo così.
 
 
 
 
Con il passare del tempo la situazione cominciò a cambiare, seppur impercettibilmente.
Il biondo sapeva che Alice si doveva essere accorta del suo strano comportamento, - Cavolo, si stava comportando quasi come uno stalker! Doveva davvero darsi una regolata – lui lo capiva da come, sempre più spesso, lei incrociasse il proprio sguardo con quello di Michael.
Prima di rado, poi sempre più spesso.
Ogni volta che lui sbirciava verso Alice, lei avvertiva quegli occhi sul viso e si voltava.
A quel punto Michael tornava a fissare di scatto lo schermo, cercando di concentrarsi sul gioco.
Continuava a fissare le figure in movimento nella console per un paio di minuti, poi si azzardava a lanciare un’altra occhiatina.
A quel punto Alice si era già girata verso il canestro, tornando a concentrarsi sui suoi tiri.
Ma c’erano anche occasioni in cui il suo sguardo era ancora puntato su di lui, i suoi occhi marroni quasi neri erano ancora lì, a fissarlo curiosi.
Era un continuo squadrarsi, con timidezza e imbarazzo, una schermaglia di occhiate silenziose.
Nessuno dei due aveva mai il coraggio di prender parola.
Era qualcosa di molto dolce, ma anche molto sciocco.
 
 
 
***
 
 
 
 
 
A cambiar le cose fu un sabato di Febbraio, quando Alice non si presentò al loro saltuario incontro.
Non venne né quel giorno, né il sabato successivo.
Per un paio di settimane Michael non la vide.
E cominciò a chiedersi cosa fosse quel senso di mancanza che avvertiva dentro il petto.
Non era niente di straziante, niente di lacerante, quel vuoto che sentiva: non era un abisso che ti si apriva sotto i piedi, non era una bestia che ti sbranava e ti faceva a pezzetti. Non era un dolore fisico, come aveva sempre sentito descrivere.
Affatto.
Era solo la vaga sensazione che mancasse qualcosa, qualcosa di importante. Una sensazione che non era possibile afferrare, per quanto sforzi si potessero fare. E insisteva, insisteva, come una goccia d’acqua che pian piano scava nella roccia.
Il pensiero di Alice – di Alice che non c’era – lo stava facendo diventare matto.
 
 
Erano giorni che Alice non compariva e al biondo sembrava di impazzire.
La cercava ovunque, in ogni momento, con lo sguardo.
Aveva cominciato ad andare al Paradise quasi ogni giorno e a scandagliare quel luogo in lungo e in largo, cercandola.
Non la trovava mai.
Era una fissazione, ridicola per giunta. Provare nostalgia per una persona che neanche conosceva era davvero ridicolo. E illogico.
Ma se c’era qualcosa che aveva imparato dagli ultimi due anni era che nell’adolescenza non c’è assolutamente niente di logico.
 
 
 
 
 
***
 
 
Il sabato della terza settimana di vuoto nel cuore Michael si diresse a passo spedito verso il canestro e vi si piazzò di fronte.
Prese un pallone. Tirò.
La palla sbatté con violenza contro il bordo del canestro, senza entrarvi.
Al biondo non importò. Tirò ancora, accompagnando la palla con un lieve balzo.
Dopo una ventina di tiri realizzò di essere una schiappa totale, a basket.
Alice non era venuta neanche quel giorno.
Sconsolato, abbandonò la postazione e uscì dalla sala giochi.
 
 
 
Il week-end successivo – non aveva avuto il coraggio di tornare prima, aveva troppa paura di non trovarla e illudersi – Michael entrò al Paradise con il morale ad un paio di metro sotto le sue converse nere.
Avrebbe dovuto trovarsi al cinema, con alcuni suoi amici. Invece era lì, aveva dato loro buca.
Si sarebbero arrabbiati parecchio, ma non gli importava gran ché: aveva tutto un week-end per trovare una spiegazione decente.
Nel frattempo avrebbe fatto un ultimo tentativo.
 
Con il cuore in gola si diresse al suo angolino.
Gli occhi si muovevano a scatti, alla ricerca di Alice.
In pochi passi raggiunse la sua postazione.
Non c’era nessuno.
 
L’amarezza gli inondò il palato e rese amaro ogni cosa dentro di lui.
Con un gesto scocciato prese il pallone da basket e lo tirò contro il canestro.
Lo mancò, il pallone cozzò contro il cesto.
Arrabbiato, deluso e amareggiato si girò e fece per andarsene.
 
 
- Era ora che arrivassi. – rise una voce alle sue spalle.
 
Michael sgranò gli occhi, sorpreso.
Quella era proprio Alice!
Con un sorriso che si spandeva a macchia d’olio – che davvero, davvero, non riusciva a cancellare – la guardò in silenzio, completamente attonito e sollevato.
 
Lei rise della sua espressione da pesce lesso e gli sventolò un foglietto, ripiegato più volte su se stesso, davanti al naso.
- Credo che sia tua, questa. Deve essere qualcosa di importante. -
A quella frase, riconosciuto il pezzo di carta, il biondino si sentì gelare, tastandosi nervosamente le tasche vuote.
Quella era la sua lista, accidenti a lui, quando l’aveva persa?
 
- Io sono Megan. -
“Megan, non Alice.”
- Michael. -
- Sembri un tipo a posto, Michael, anche se le tue abilità a basket sono un po’… carenti. – e gli sorrise, senza cattiveria.
Gli occhi marroni quasi neri sembravano scintillare leggermente.
- Se vuoi ti posso dare una mano a migliorare, uno di questi giorni. -
- Volentieri! –
Forse ci aveva messo un po’ troppa enfasi, ma ad Alice – no, Megan – fece piacere.
 
- Senti, ti andrebbe di andare a prendere qualcosa bere… - dalla sua gola uscirono quelle parole, così, senza controllo. – … con me? -
Megan rimase in silenzio a soppesare la proposta, picchiettandosi il mento con la punta dell’indice.
- Mmm.. in effetti mi andrebbe proprio un milk-shake. Perché no? Conosci qualche posto carino?-
Il ragazzo annuì con veemenza.
- Bene, allora fammi strada. – e la rossa sorrise di nuovo, socchiudendo un po’ gli occhi e inclinando il capo. Anche se non lo conosceva, anche se non aveva mai parlato con lui prima d’ora.
E Michael sorrise di rimando, scortandola fuori dalla sala giochi.
Basta timidezza, ora.
 

 
- Ah, per la cronaca, il mio colore preferito non è il viola. -
- No? –
- No. –
- E qual è? -
- Il verde. –
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo del Corvo:
 
Non so se si è capito, ma il fluff e il genere romantico non sono il mio pallino.
Io sono più una da Angst: non lo faccio apposta, non sono brava a scrivere in modo dolce e tenero.
Non è mai stato nelle mie corde. Quindi non stupitevi se trovate delle banalità o altro, perché questa ff è un esperimento. Dovrò pur imparare a scrivere anche qualcosa di fluffoso!
Spero di aver raggiunto un risultato quantomeno accettabile.
 
Grazie per essere arrivati fino a qui ^^
E grazie anche a chi deciderà di recensire: Bontà vostra!
Come sempre, vi chiedo di segnalarmi eventuali errori o sbavature nel testo (sia grammaticali che lessicali, o altro)
 
Bye
 

The Raven
  
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