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Autore: Nat_Matryoshka    09/12/2013    6 recensioni
"C’erano momenti, però, in cui le piaceva mettere a dormire la sua parte più forte e aspettare che la tempesta passasse così, semplicemente chiudendo gli occhi e dimenticando tutto. Era stato Raleigh a insegnarle che era giusto anche così, che poteva farlo.
Lei gliene era immensamente grata."

[Mako/Raleigh; post-PR]
Genere: Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mako Mori, Raleigh Becket
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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We’ll be dressed up all in blue

 
 
  Say my name, and every colour illuminates
we are shining, and we’ll never be afraid again.

 
 
 
 
 
 Blu. Una volta il cielo era blu, abbastanza blu da schiacciare il nero dei palazzi, da brillare sulla cappa grigia di smog che ricopriva Tokyo. Ma ora? Di che colore è? Gli occhi della bambina non lo possono vedere: è troppo impegnata a correre, a mettere più distanza possibile tra il suo piccolo corpo e quello enorme dell’essere che la sta inseguendo. Quello stesso essere che ha distrutto la macchina dei suoi genitori, che…
Corre. Se quella creatura fosse blu, forse si confonderebbe con la volta celeste fino a sparire. Scomparirebbe, come se non fosse mai esistita. Ma è così vicina, così grande da non poter essere confusa con nient’altro in quella strada piena di macerie e palazzi distrutti. Con gli occhi cerca febbrilmente un posto dove nascondersi.
 
“Mako.”
 
Ma non vede nulla adatto allo scopo: solo macerie, macerie ovunque, l’asfalto pieno di crepe, un odore terribile di distruzione, di esplosioni, di sangue. Continua a girare la testa a destra e a sinistra, perché deve pur esserci un posto dove ripararsi, non può essere sola in quel disastro, qualcuno la troverà e la metterà al sicuro, ne è sicura. Ma i suoi genitori? Perché non vengono a cercarla?
 
“Mako?”
 
Finalmente trova un cassonetto: ci si avvicina febbrilmente, il cuore che le fa un balzo enorme nel petto tanto da farle mancare il respiro. Si rannicchia lì accanto e si accorge che è blu, blu proprio come il cielo che ricordava.
Blu come il cappotto che indossa, per ironia della sorte.
È lì che chiude gli occhi e si rannicchia ancora di più, sperando di rendersi invisibile al suo inseguitore, battendo i denti come se sentisse freddo. Si copre le orecchie con le mani, ma il suono che pervade l’aria la raggiunge lo stesso, schiacciandola. Il cuore fa un altro balzo, questa volta le si pianta in gola, Mako continua a premersi le mani sulle orecchie come se servisse davvero a qualcosa, e aspetta. Aspetta. Aspetta.
L’enorme testa del mostro si è infilata nell’imboccatura del vicolo: la sta fissando, le mandibole taglienti aperte e schioccanti come quelle di un insetto, un gigantesco mostro affamato di carne e di dolore che finalmente ha trovato la sua preda. Uno schiocco, un grido (di gioia, forse?).
Il cuore bloccato in gola le impedisce di respirare, e allora Mako inizia a gridare, con tutte le sue forze, forse sperando di spaventare la creatura, forse per impedire al cuore di soffocarla. Si alza in piedi e tende le braccia davanti a sé, l’ultimo tentativo disperato di mostrare coraggio davanti al mostro che la minaccia e che – ne è sicura – vorrebbe farle fare la fine che hanno fatto i suoi genitori, la fine che tutto il Giappone farà se qualcuno non lo fermerà. Tiene ancora gli occhi chiusi e grida, ma la presa sui piccoli pugni chiusi è forte, la disperazione talmente intensa da farle dimenticare qualsiasi senso del pericolo, mentre avanza ancora…
 
“Mako!”
 
In un lampo, Tokyo era scomparsa dai suoi occhi. La stanza era blu come l’atmosfera in cui si trovava immersa poco prima, ma di una sfumatura più gentile, più rassicurante. La ragazza si tirò a sedere di colpo, spingendo via la coperta e finalmente realizzando dove si trovasse: non aveva più dieci anni, Tokyo era libera dagli attacchi dei kaiju, indossava il pigiama e la stanza in cui stava dormendo era quella di un albergo in cui aveva prenotato una stanza dalla sera prima.
Scosse la testa, tentando di togliersi di dosso gli ultimi frammenti dell’incubo, i muscoli tesi allo spasimo che iniziavano a farle decisamente male, fino a che una mano gentile non le si posò sul ginocchio.
“Cosa succede? Hai iniziato a lamentarti a voce sempre più alta… ho tentato di svegliarti ma non ci sono riuscito, ti agitavi troppo. Mi sono preoccupato…”
 
Raleigh Beckett era lì accanto a lei, l’espressione spaventata illuminata da un fioco raggio di luce proveniente da uno dei lampioni che illuminavano la strada. Siamo in America, le venne in mente un attimo dopo. Siamo partiti ieri mattina per trascorrere un periodo in viaggio prima delle feste di Natale. Neppure l’aver riguadagnato coscienza del luogo in cui si trovava riusciva a scacciare la situazione di spavento che l’incubo le aveva attaccato addosso: quelle immagini erano troppo reali, troppo dolorosamente presenti nella sua anima per lasciarsele dietro come un brutto sogno. Si abbracciò le ginocchia, appoggiandoci la testa sopra e mormorando contro il tessuto dei pantaloni “Non è niente. Era solo un incubo.”
 
“Solo un incubo? Ti agitavi come se qualcosa ti stesse inseguendo! Per fortuna ti sei svegliata prima di gridare ancora più forte…”
Aveva gridato? Oh, dei. Dormire accanto a Raleigh le piaceva più di quanto desiderasse ammettere, ma detestava svegliarlo a quel modo e farlo preoccupare. Soprattutto perché lo conosceva fin troppo bene e sapeva che non si sarebbe tranquillizzato finché non l’avesse vista riprendere la calma. Il ragazzo era fatto così: quando si trattava di lei non voleva sentire scuse, doveva farla star meglio ad ogni costo, anche semplicemente facendola ridere o tenendole compagnia finché non si addormentava… e ci riusciva quasi sempre, c’era da dirlo.
 
Mako non rispose, mordendosi il labbro come se cercasse le parole migliori per esprimere come si sentiva, ma al ragazzo non servivano spiegazioni: si spinse verso di lei e, gentilmente, appoggiò la fronte contro la sua, cercando di stabilire un contatto come quello che avevano condiviso dopo la fine della loro ultima missione. Mako trasalì appena per la sorpresa, ma un attimo dopo chiuse gli occhi e si affidò completamente al legame che li aveva resi tanto forti nel Drift, sperando che i suoi pensieri fluissero e riempissero la mente di Raleigh, affidando alla mente il compito di spiegare il perché del suo viso congestionato e dei palmi segnati dalle mezzelune delle unghie. Dopo un attimo che le parve durare ore (o era il contrario?), lui si staccò e le prese il viso tra le mani, come se le avesse letto la mente trovandoci proprio quello che si aspettava di trovarci.
La guardò negli occhi. “Hai sognato di nuovo Tokyo.”
 
Non era una domanda, stavolta. Gli occhi della ragazza si abbassarono di colpo.
Non voleva ammettere la sua debolezza, non dopo che Raleigh aveva mostrato per l’ennesima volta di preoccuparsi davvero per lei… anche se sapeva benissimo che lui l’avrebbe accettata, come sempre aveva fatto. Perché era sempre lì a incoraggiarla o a farle capire che qualcosa non andava, e se c’era qualcosa che la faceva soffrire lui era il primo a venirne a conoscenza. Era quello l’aspetto del loro rapporto a confonderla di più: il fatto di essere come due libri aperti l’uno per l’altra.  Non le era mai successo con nessun altro prima di quel momento, neppure con Stacker, che la conosceva da quando era una bambina e le aveva insegnato tutto quello che sapeva sulla vita e sulla guerra. Un giorno, dal nulla, era arrivato quel giovane estraneo e tutti i pezzi della sua esistenza avevano preso una forma diversa, incastrandosi alla perfezione con lui e la loro inaspettata compatibilità. Era bastato un sorriso, e una frase. Poi c’erano stati il test e le battaglie, e Raleigh era diventato una costante della sua esistenza.
 
E lei ancora si vergognava di mostrare quelle emozioni.
Che stupida che sono, pensò. È stato nella mia testa già varie volte, come posso aspettarmi che non conosca anche questo aspetto di me?
 
Lui la afferrò dolcemente per le spalle, aiutandola a sistemarsi di nuovo in posizione distesa e avendo cura di aggiustarle i cuscini dietro la testa e di sistemarle la coperta per non farle prendere freddo, nonostante la stanza fosse ben riscaldata. Quei gesti erano così naturali per Raleigh, rifletté Mako mentre lo sentiva prendersi cura di lei in quel modo attento, eppure discreto. All’improvviso sentì quanto fosse importante la sua presenza in quel momento, in quella stanza, e come sarebbero state diverse le cose se quel giorno nell’oceano qualcosa fosse andato storto. Sentì il cuore contrarsi in petto ancora una volta: quell’attimo terribile in cui era passata dal sollievo di averlo visto riemergere alla paura di non sentire il suo battito, il terrore che si era impadronito di lei, assieme alle lacrime che avevano preso a scorrere libere una volta che si era tolta dalla testa il casco protettivo… istintivamente, raccolse le braccia intorno al petto, tremando appena. Per quanto la sicurezza del respiro di Raleigh fosse riuscita a farla star meglio, ogni tanto quel ricordo tornava a tormentarla. Sottile come una lama, preciso come un proiettile, era lì nella sua mente e aspettava il momento giusto per colpirla, assieme al mostro che inseguiva la bambina dal cappotto blu.
 
Doveva aver trattenuto il respiro ricordando quel momento, altrimenti il ragazzo non le avrebbe posato una mano sugli occhi, carezzandola per tranquillizzarla.
“Basta pensare a cose che ti fanno soffrire. Vuoi bere qualcosa per calmarti un po’?”
 
Mako scosse la testa. Non voleva che Raleigh si alzasse e se ne andasse, neanche per raggiungere l’altra stanza: sapeva che i suoi demoni erano proprio dietro l’angolo. Era tempo di lasciarli a bocca asciutta nel loro angolo di ricordi polverosi e disperati, a digrignare i denti, finché non se ne fossero andati del tutto. C’erano momenti in cui soccombeva alle loro pressioni, i peggiori; altri in cui, invece, la forza di combatterli le arrivava in ondate e la scuoteva completamente, illuminandola, riempiendola. Momenti come quello.
Per rafforzare la sua decisione, gli posò la testa sul petto e strinse il corpo accanto a quello del ragazzo: Raleigh avrebbe capito comunque.
 
Mako Mori non era certo il tipo di ragazza che amava farsi salvare dal suo cavaliere in armatura. C’erano momenti, però, in cui le piaceva mettere a dormire la sua parte più forte e aspettare che la tempesta passasse così, semplicemente chiudendo gli occhi e dimenticando tutto. Era stato Raleigh a insegnarle che era giusto anche così, che poteva farlo.
Lei gliene era immensamente grata.  
 
 
***
 
 
“Possiamo fare il gioco dei colori, che ne dici? Almeno ti distrarrà un po’. Tu chiama un colore, io ti dirò la prima cosa bella che mi viene in mente pensandoci, quando invece sarai tu a chiamarlo sarò io a dover scegliere qualcosa di bello da abbinarci. Ti va?”
 
Una risatina sommessa, lo sguardo che si spostava dalle sue labbra agli occhi, ma lui non se n’era accorto.
“D’accordo, allora comincio io: verde.”
 
“Verde? Facile! Una giacca, me l’aveva regalata mio fratello per il mio nono o decimo compleanno, non ricordo bene. So solo che la adoravo, non me la levavo mai… a mia madre toccava togliermela con la forza per lavarla quando diventava troppo sporca. Per fortuna le mie abitudini in fatto di vestiario sono cambiate col tempo…”
A Mako scappó un’altra risatina, che soffocó presto in un colpetto di tosse per non dargliela vinta.
“Ora tocca a me, te ne do uno più difficile: rosso.”
Mako ci pensò un attimo prima di rispondere: “le scarpe che il sensei mi ha restituito, quelle che portavo il giorno in cui Onibaba ha attaccato i miei genitori.”
Lui le lanciò uno sguardo velato appena di rimprovero. “Avevo detto bei ricordi!” protestò.
Le labbra di Mako si piegarono appena in un sorriso, il primo vero sorriso sereno in quella notte movimentata. Non c’era nulla di triste nel ricordare Stacker Pentecost e la sua figura paterna, amorevole. Nulla di sbagliato nel soffermarsi sulle sue ultime parole: sei una ragazza coraggiosa, sono orgoglioso di averti vista crescere. Se esisteva un bel ricordo, qualcosa di positivo che poteva trascinare via la nebbia e il dolore per le perdite della sua infanzia, quello era proprio Stacker e il gesto gentile con cui le aveva porto le scarpe quel giorno, nella sua stanza, ricordandole una promessa di tanto tempo prima.
 
“Rosso come le scarpe della bambina che è cresciuta, diventando la tua tostissima co-pilota. Che ne dici se la giriamo in questo modo, allora?” scherzò, colpendolo con un piccolo pugno affettuoso sulla mascella, pugno che Raleigh finse di prendere storcendo la testa e atteggiando il viso ad una smorfia di dolore. Anche se non glielo aveva detto apertamente, sapeva che aveva capito e che sarebbe stato pronto ad accettare ogni suo sfogo ogni volta che avesse voluto parlare di suo padre. Lui l’avrebbe capita, senza giudicarla, senza dirle che non doveva piangere.
Lui era legato a lei. In qualche modo, si appartenevano.
 
“Continuo io, allora: nero?”.
“Le nostre tute, quelle con cui abbiamo combattuto l’ultima volta e con cui siamo usciti dall’acqua dell’oceano. Nero sfumato di celeste in questo caso, no?” puntualizzò lui.
“L’acqua è incolore! Te la do per buona solo perché l’accostamento è azzeccato. Se ti dico blu, allora?”
“I tuoi bellissimi ciuffi. Sono la prima cosa che mi ha attirato di te… prima di sentirti parlare, ovviamente. Il tuo accento giapponese quando canti in inglese è talmente particolare che scordo qualsiasi altra cosa e ti ascolto!”. Gli occhi gli brillavano di malizia, come un ragazzino dispettoso. Mako non capiva se fosse serio o no: nel dubbio gli morse comunque un braccio, costringendo il ragazzo a rispondere con una strizzata affettuosa e talmente energica da ridurla al silenzio.
 
 
C’era riuscito di nuovo: la giovane sorrideva, la mente sgombra dalle nuvole nere che l’avevano riempita fino ad un attimo prima. La luce che pervadeva delicatamente la stanza danzava dietro le sue palpebre, conciliandole il sonno. Così come le braccia di Raleigh strette intorno a lei, il suo rifugio. Uno specchio umano che rifletteva la parte più dolce e fragile di se stessa, ma che poteva aiutarla ad accettarla.
 
 
“Raleigh?”
“Mh?”. La voce di lui era impastata dal sonno, la presa sulla sua mano si era fatta più dolce, abbandonata. Mako la strinse e gli posò un bacio sulle labbra per ringraziarlo, piano. Di nuovo, non c’era bisogno di tante parole.
“Sono felice che tu ci sia.”
Lui non rispose, ma la ragazza poteva giurare di aver visto le sue labbra muoversi appena in un sorriso, per poi sciogliersi, rilassate dal sonno incombente. Mako sorrise a sua volta e lo imitò, mantenendo le dita intrecciate a quelle del ragazzo, finché il sonno non prese anche lei.
 
***
 

La notte continuava a colorare di blu la città: un blu dolce, rilassante, come le onde di un oceano durante una mattina di calma. Nella strada coperta di macerie, una bambina vestita dello stesso colore apriva gli occhi dopo la battaglia finale, uno sguardo di sereno trionfo sul viso tondo.
 
 
 
 
 


***
Ho visto Pacific Rim. E mi sono entrati in circolo tanti di quei feels che non saprei neppure da dove cominciare, quasi tutti riguardanti Mako e Raleigh. Le idee della compatibilità e del Drift mi hanno ispirata immediatamente, il loro rapporto tra l'amore e l'amicizia profonda è così semplice e complesso allo stesso tempo da farmi venire voglia di scrivere qualcosa, anche solo una fluff senza tante pretese.  Ho amato il fatto che il film abbia messo in risalto anche i sentimenti e non nella solita maniera scontata, è stata davvero una bella sorpresa... insomma, l'ho adorato e ho iniziato a inquinare anche questo fandom. I regret nothing. <3
Il titolo non ha un senso particolare, se non quello di essere una frase di Spectrum di Florence+The Machine, una delle canzoni che mi hanno ispirato durante la stesura. Il periodo di ambientazione è un ipotetico post-film, per cui ogni differenza col film va considerata semplicemente come una licenza poetica.
Non c’è Maleigh nel fandom italiano, e la cosa non va bene. Come si fa a non amarli? *sobs*
 
Grazie a TsunadeShirahime, che riesce a sorbirsi le mie pare mentali pre-scrittura e a leggere le bozze senza rompersi le scatole. Te ne sono debitrice a vita <3
Alla prossima, allora!
 
Nat
   
 
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