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Autore: Kiki75    10/05/2008    8 recensioni
Terza classificata nella categoria AU al concorso fanfiction di Picta Comics 2010: per chi volesse leggerla nella nuova versione (l'ho adattata a storia a sé, scollegata dalla serie "Ever Dream"), il link è http://www.pictacomics.it/wp-content/uploads/2010/09/Thunderbird-10000.pdf.
Jack è stato messo fuori combattimento prima dell'ultimo rodeo della sua carriera, ed Ennis prende una decisione... (da "I segreti di Brokeback Mountain", seguito di "Father, son")
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, Ennis Del Mar , Jack Twist, Quasi tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'e'
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Come sei veramente
Thunderbird

1.

Uscire a comprare le sigarette era stata una pessima idea: ma Jack detestava le Marlboro di Ennis, e
lo spaccio era proprio davanti al motel, bastava solo attraversare la strada e fare qualche decina di metri. E chi poteva sapere che dopo avere comprato un'intera stecca di Camel ed essere tranquillamente uscito per tornare in albergo, dove Ennis si stava preparando per andare a cena con gli Hamilton dopo una lunga e vittoriosa giornata di gare, un ceffo gli avrebbe puntato un coltello alla schiena, sibilandogli "Non una parola", per poi ordinargli di entrare nel vicolo buio lì accanto, dove Jack si era girato, le mani in alto in segno di resa?
L'uomo gli aveva puntato il coltello alla gola, facendolo indietreggiare fino a che Jack si era trovato con le spalle contro il muro.

"Guai a te se fiati", aveva ribadito un secondo uomo, avvicinandosi, anche lui armato di coltello.
Quello che l'aveva aggredito per primo indossava una maschera da Frankenstein, di quelle di plastica che i bambini si mettono per Halloween, aveva capelli ricci e scuri, ed era alto più o meno quanto lui, con una grossa pancia da bevitore di birra. L'altro aveva una maschera da Uomo Lupo, ed era alto, più di Ennis, i capelli biondi a spazzola, spalle larghe e torace ampio, da palestrato. Indossavano camicie a quadri, jeans sdruciti, logori stivali da motociclista per Frankenstein, stivaletti da cowboy per Uomo Lupo. Dovevano essere due spiantati, due balordi.

Una rapina
. Guarda tu che fortuna. Vengo in Texas per farmi rapinare.

In realtà, era arrivato a Childress, Texas, due giorni addietro, insieme ad Ennis e agli Hamilton (escluso Pete, che era rimasto a Casper con i nonni paterni perché troppo piccolo) per l'ultimo torneo della sua carriera. Era un torneo importante, e anche e soprattutto redditizio: il primo premio consisteva in un assegno di ben duemila dollari, un piccolo aiuto per la loro piccola fattoria in costruzione.
Persino Ennis, che odiava viaggiare e ogni volta che l'aveva accompagnato a delle competizioni in giro per gli Stati Uniti aveva iniziato a brontolare una settimana prima della partenza, aveva accettato di arrivare fino in Texas con entusiasmo - Jack era certo che non fosse tanto per la possibile vincita, quanto per il fatto che, poi, non ci sarebbero stati più rodei - e si erano uniti persino Janice e Matthew con i due bambini più grandi. 
Quel giorno, prima giornata di gare, era filato tutto liscio: Jack si era ritrovato primo, con un tempo di otto secondi e dieci; David Hackman, di Houston, era secondo, a sette e cinquantaquattro. Nessuno degli altri partecipanti era riuscito a superare i sette secondi e venti, e a meno di sorprese dell'ultimo momento, sempre possibili, l'indomani la sfida finale sarebbe stata fra Jack e David.
Se questa storia finisce bene.
Jack non aveva voglia
di finire male per quello che portava addosso: dieci dollari più qualche spicciolo nel portafoglio, un Bulova al polso, una stecca di sigarette che aveva lasciato cadere a terra quando aveva alzato le mani. Quei due idioti rischiavano di farsi mettere dentro per cinquanta dollari scarsi.

"Ehi, ragazzi, vediamo di..." tentò, ma Frankenstein gli puntò il coltello direttamente in mezzo agli occhi: "Ti avevo detto di stare zitto", disse, facendo scorrere di scatto la lama in diagonale, arrivando fino alla guancia. Jack strinse le palpebre, alla spiacevole sensazione del metallo freddo che gli tagliava la pelle.
Frankenstein si avvicinò, Jack poteva sentire il suo alito caldo, puzzolente di alcol, contro la faccia, dove il sangue aveva iniziato a sgorgare.
"Non vogliamo finocchi qui in Texas", spiegò Frankenstein.
"Già", aggiunse Uomo Lupo. "
E l'idea che dei maledetti finocchi possano partecipare al torneo di domani, e anche solo sperare di vincerlo, ci fa ribrezzo."
Finocchi? Ma chi sono questi? Come fanno a sapere che...
Jack non sapeva chi fossero quei due, non aveva idea di come facessero a sapere di lui ed Ennis, ma non aveva più dubbi su quello che volevano: quelli volevano fargli la festa, proprio come a quel cowboy a Sage che tanto aveva turbato il suo compagno.
Ma non sarebbe stato fermo a prenderle.
Tirò una ginocchiata dritta in mezzo alle gambe di Frankenstein, che gridò e si accartocciò a terra.
"Cazzo!" esclamò Uomo Lupo, prima che Jack lo colpisse con un gancio al mento, facendolo barcollare.
Jack si diede alla fuga, ma era appena riuscito a mettersi a correre, quando Uomo Lupo lo afferrò per il collo della camicia, lo tirò indietro e lo ghermì per il polso destro, torcendogli il braccio dietro la schiena e tenendogli la lama alla gola. Il pugno non aveva sortito l'effetto sperato; Jack ebbe però un guizzo di soddisfazione nel constatare l'efficacia della ginocchiata: davanti a lui, Frankenstein era ripiegato su sé stesso, le ginocchia piegate, le mani strette sui testicoli, e miagolava improperi.
Ben ti sta, bastardo. Io sarò anche un finocchio, ma tu per un pò canterai l'Aida.
Non riuscì quasi a terminare il pensiero, che
l'uomo dietro di lui gli spinse la mano fino alle scapole, e oltre. Jack sentì chiaramente l'articolazione del gomito che si schiantava, una sensazione ancora peggiore di quella del coltello nella carne. Il dolore esplose, e non riuscì a impedirsi di gridare.
Uomo Lupo lo spinse a terra, e Jack rovinò in ginocchio, tenendosi il braccio fratturato, mordendosi a sangue il labbro inferiore per non gemere.
"Eccoti sistemato", disse Uomo Lupo. "Voglio proprio vedere come farai a salire su quel toro, domani. T
ornatene nel tuo fottuto Wyoming con il tuo amichetto biondino e restaci, o la prossima volta vi tagliamo l'uccello, a tutti e due."
Jack allora capì le loro vere intenzioni. Non era il denaro che volevano, e non volevano nemmeno picchiarlo tanto per il gusto di infierire su una persona con gusti sessuali diversi dai loro: quello che volevano era impedirgli di gareggiare l'indomani, ed erano riusciti nell'intento.
Merda.
Aveva la vittoria in pugno, aveva superato gli otto secondi e gli sarebbe bastato così poco... era sicuro di poter battere David. Sarebbe arrivato primo, avrebbe chiuso in bellezza, e avrebbe guadagnato un bel gruzzoletto per la fattoria sua e di Ennis.
E invece...
Invece non avrebbe gareggiato, sarebbe finito al pronto soccorso con un braccio malridotto e la faccia sfregiata, e quei figli di puttana gli avevano dato del finocchio. Malgrado Ennis avesse la propria tesi, secondo la quale un finocchio era un tizio effemminato che parlava e gesticolava come una donnicciola, con indosso pantaloni attillati e maglietta aderente, ergo loro due non appartenevano affatto alla categoria, Jack non si sentiva in grado di contestare tale affermazione. Era un uomo, amava alla follia un altro uomo, ci viveva insieme e ci faceva sesso con enorme piacere: anche se non aveva atteggiamenti effemminati, non indossava abiti aderenti, e sì, ammettiamolo pure, non disdegnava una seconda occhiata ad una bella ragazza, mentre mai si era soffermato ad osservare un altro uomo all'infuori del proprio compagno, cos'era, se non un omosessuale, un finocchio fatto e finito?
Ma sentirselo dire, papale papale, e per giunta da due figli di puttana del genere... 

Malgrado il dolore al braccio, si sentì invadere da una furia incontrollabile, incontenibile.
"Andiamo via, prima che arrivi qualcuno", disse Frankenstein, con voce ancora esile, rotta, raddrizzandosi a fatica. "Questo bastardo ci ha fatto fare un gran casino."
Jack sollevò la testa: davanti a sé aveva le gambe di Uomo Lupo. Prima che l'uomo potesse fare il primo passo per andarsene, Jack si gettò sulla sua gamba e lo morse sul polpaccio proprio sopra allo stivale, trapassando il denim, stringendo con tutte le proprie forze, tenendosi il braccio fratturato stretto al petto e cercando di ignorare il dolore: era a terra e non poteva usare altro che i denti, ma cavolo, li avrebbe usati. L'uomo strillò, uno strillo da donna, da ragazzina, lo stesso strillo di dolore che avrebbe potuto emettere Hope se punta da una vespa.
Prendi questo, fottuto bastardo. Grida fino a consumarti la gola!
Fu il suo ultimo pensiero: con l'altra gamba, Uomo Lupo gli tirò un calcio alla cieca, colpendolo proprio sul braccio già rotto.
Il dolore fu incredibile, stratosferico, inimmaginabile.
Jack svenne.


"Figliolo... ehi, figliolo...?"
Tentò di riaprire gli occhi. Davanti a lui, gli pareva di vedere, avvolto nella nebbia, il viso rotondo del negoziante che gli aveva venduto le sigarette.
"Tutto bene?"
Era proprio lui, un uomo di sessant'anni, la faccia rotonda e distesa, un ciuffo di radi capelli biondicci, gli occhi del colore del ghiaccio. Oltre alla sua voce, una sirena. Un'auto della polizia, probabilmente. Tardi, ragazzi.
Jack tentò di parlare, voleva dire all'uomo di chiamare Ennis, ma non fu sicuro di esserci riuscito. Si schiarì la voce. Tutto, rumori, luci, suoni, voci, era attutito, ovattato dal dolore che provava nel braccio, come avvolto in diversi strati di quel tulle che usano i fiorai per confezionare le piante.
"Ennis..."
"Cos'è successo?" un'altra voce, un altro viso. Un poliziotto, sui quaranta, la faccia larga e aperta.
"Mi hanno... f-fatto... proprio una bella festa", mormorò Jack, cercando di tirarsi a sedere. Gemette. Inutile, gli faceva troppo male.
"Stia calmo", disse il poliziotto, inginocchiato di fianco a lui. "Il mio collega è andato a chiamare un'ambulanza."
"Chiamate Ennis", riuscì a biascicare Jack. "Non voglio un'ambulanza."
"Ennis?"
"Nel motel qui di fronte. Ennis del Mar... stanza 109..."
"Vado io", sentì dire il tabaccaio.
"Si ricorda cos'è successo?" domandò nuovamente il poliziotto.
Jack iniziava a sentirsi più lucido. Era sdraiato sulla schiena, sull'asfalto caldo di una notte di maggio texana, nel buio del vicolo illuminato dalla luce gialla e intermittente dell'auto della polizia. Il braccio gli doleva, dalle dita alla spalla, un dolore costante, che non gli dava tregua, e lo sentiva gonfio, come se la pelle fosse tesa al punto di scoppiare. In sottofondo, il bruciore al taglio sul viso, insignificante in confronto al dolore al braccio, un Chihuahua di fianco a un San Bernardo. "Mi hanno aggredito... erano in due, con dei coltelli. Volevano... sabotarmi."
"Sabotarla?"
"Impedirmi di partecipare al rodeo di domani", Jack si sentì di nuovo investire da rabbia feroce. "Accidenti a loro."
Avevano insistito sul fatto che era un finocchio, ma quello non poteva dirlo al poliziotto: il Texas non era uno degli stati più conservatori di tutta l'America?

Ma se sapevano che era un finocchio, lo conoscevano. E in ogni caso, come facevano ad esserne sicuri? Per la miseria, lui ed Ennis erano sempre stati più che attenti, fino all'ossessione. 
Chi potevano essere? Chi poteva conoscerlo al punto di sospettare qualcosa, lì in Texas, dove non era mai stato? Uno dei suoi rivali ai rodei, forse?
Chi conosceva, fra i concorrenti di questo torneo, con chi aveva già gareggiato? Chi era riccio e panciuto, chi alto e biondo e palestrato?
Ricci e panciuti non ce n'erano. Ma David Hackman era alto, biondo e muscoloso, ed era l'unico con il quale avesse già gareggiato una decina di volte: l'aveva visto in compagnia di Ennis, sapeva che non erano sposati e che vivevano sotto lo stesso tetto, anche se gli avevano detto di essere cugini di secondo grado, come di solito raccontavano. Non aveva nessuna certezza, ma poteva sospettare qualcosa.
E David era secondo, a sedici decimi da lui, poteva avere interesse a non farlo gareggiare, l'indomani.
Ma Jack non avrebbe potuto dimostrarlo. Che diamine, non poteva neanche permettersi di sospettarlo: non aveva uno straccio di prova. Solo supposizioni, solo un aggressore alto e biondo e muscoloso, come tanti altri uomini al mondo, con la voce distorta e il viso nascosto da una maschera di plastica.
Jack sentì un'ondata di sconforto affiancarsi alla rabbia. Sconforto, delusione, amarezza. Certo, nella vita c'erano cose di gran lunga peggiori, ma gli avevano giocato un brutto tiro, non poteva prendersela con nessuno, e non aveva tutto il diritto di sentirsi infuriato e amareggiato?
Tentò di nuovo di mettersi a sedere, girandosi su un fianco e facendo forza sull'asfalto con il braccio sano: "Dio, che male..."
"Forse non dovrebbe muoversi", suggerì il poliziotto.
Stringendo i denti, con un lamento strozzato, Jack si tirò a sedere. Cazzo, se faceva male. Si prese il braccio fratturato nella mano sinistra, se lo strinse allo stomaco, e con orrore realizzò che c'era qualcosa in più che non andava: il tessuto della camicia era inzuppato di sangue, e l'osso dell'avambraccio sporgeva dalla carne.
Ottimo, una frattura esposta all'ulna o al radio, oltre a quella al gomito. Per fortuna che aveva già deciso di chiudere con i rodei.
"E' sicuro che volessero sabotarla?" domandò il poliziotto. "E... li conosceva? So che è un brutto momento, ma prima sappiamo cos'è successo..."
"Ne sono sicuro", disse Jack, asciutto. Stava iniziando a non poterne più, voleva finirla al più presto con quel poliziotto e aveva un disperato bisogno di vedere Ennis. Se Ennis fosse stato lì con lui, tutto sarebbe andato meglio, tutto sarebbe stato sopportabile. "Me l'hanno anche detto, quei due imbecilli. Ma non so se li conoscevo, indossavano delle maschere di Halloween. Uno era riccio e moro, grasso, alto sul metro e settanta. L'altro era biondo, con i capelli a spazzola, pieno di muscoli, sul metro e novanta. E avevano tutti e due un accento texano da far male alle orecchie."
Il poliziotto fece per chiedere qualcos'altro, forse le sue generalità, ma venne interrotto dal rumore stridente dei freni di un'automobile, sulla strada principale poco distante.
"Guarda dove vai, deficiente!" una voce sconosciuta, di sicuro quella del guidatore.
"E tu rispetta i limiti, stronzo!" la voce di Ennis.
"Ennis!" esclamò Jack, mentre l'automobile ripartiva sgommando. "Ennis, sono qui!"
"Jack!" Ennis lo raggiunse di corsa, s'inginocchiò vicino a lui quasi incespicando. Il suo viso era pallido, preoccupato.
"Cazzo, Jack, cos'è successo? Come stai?" tenendogli il mento fra pollice e indice gli sollevò il viso verso la luce, esaminando il taglio, il sangue, e i suoi occhi si ingrandirono: "Cristo, cosa ti hanno fatto?"
Adesso che Ennis era lì, tutto andava bene, o quasi. Jack appoggiò la fronte alla sua spalla, cercando di combattere le lacrime che minacciavano di traboccare, ora che si sentiva sollevato: durante l'aggressione, in più di un momento aveva temuto che non l'avrebbe rivisto. "Mi hanno fottuto", fu quello che gli uscì. "Non volevano lasciarmi partecipare alla gara di domani."
"Ti hanno picchiato?" la voce di Ennis fremeva dalla rabbia. Strinse a sé Jack, e Jack gemette, avvertendo le ossa frantumate del gomito sfregare insieme. "Fai piano, Ennis... fa un male d'inferno..."
"Cosa..." fece Ennis, allentando la stretta. "Cosa ti hanno fatto? Dov'è che ti hanno..."
"Mi hanno rotto un braccio", spiegò Jack. Si riappoggiò a lui, e bisbigliò al suo orecchio, ridacchiando debolmente:
"Volevano stare sicuri che una checca dal Wyoming non vincesse in questa santa e pura terra texana."
"Che cosa?"
"Hanno detto così. Forse era meglio se non te lo dicevo... tu hai sempre avuto una paura matta che potesse succedere qualcosa del genere..."
"Li conoscevi?" domandò Ennis, furibondo più che mai, tenendolo con delicatezza fra le braccia. "Perché se li trovo, io..."
"Non lo so", mormorò Jack. Improvvisamente iniziò a sentire freddo, aveva i brividi, e macchie scure gli apparvero davanti agli occhi. "Erano mascherati... Cristo, non so come potessero sapere che stiamo insieme... siamo sempre stati così attenti..."
"Cazzo, cazzo, cazzo", sibilò Ennis. "Era qualcuno che ci conosce, che sospetta qualcosa. Magari, qualche tuo rivale."
"Non lo so", ripeté Jack. Chiuse gli occhi, tremando. "Dio, sono così stanco..."
Sentì Ennis gridare ai poliziotti: "Ehi, voi due, avete chiamato un'ambulanza?", e qualcuno rispondere: "L'ho fatto io, sarà qui a momenti."
"Ehi, piccolo", esclamò Ennis, scuotendolo piano. "Jack? Jacky? Rispondi, coraggio!"
Jack riconobbe che Ennis lo stava chiamando, e doveva essere dannatamente in ansia: di norma faceva bene attenzione a non chiamarlo piccolo in presenza di altre persone,
e non l'aveva mai chiamato Jacky, un diminutivo che solo sua madre aveva usato. Avrebbe voluto dirgli di non preoccuparsi, che stava bene, che sarebbe andato tutto a posto, ma si sentiva esausto, non riusciva più a rispondergli. Il dolore al braccio era finalmente distante, lontano, quello alla faccia addirittura inesistente, e le braccia e il petto di Ennis invece così caldi e così reali...

Tutto quello che successe dopo, fu come un sogno. Ogni tanto, riemergeva dall'incoscienza:
una volta per sentire un ago mordergli il braccio sano, una volta per sentire qualcuno che gli ripuliva il viso da sangue e polvere, una volta per sentire una voce femminile dirgli di resistere, dolcezza, mentre qualcun altro gli trafficava intorno al braccio rotto, inviandogli scariche dolorose a ogni minimo movimento (Mi chiamo Jack, non dolcezza, avrebbe voluto precisare, ma era troppo impegnato a trattenere il respiro per evitare di lamentarsi, e lasciò perdere), una volta per sentire Ennis che gli sussurrava Andrà tutto bene e lo baciava sulla fronte.
Tentò di parlare, di chiedere cos'era che avrebbe dovuto andare bene, quando tutto sembrava andare da cani, ma gli uscì solo un farfuglío indistinto.
"Come siamo vanitosi", rispose Ennis, accarezzandogli la guancia con il dorso di una mano. Chissà cos'aveva capito. "Non preoccuparti per la faccia. Tornerà come prima, è solo un taglio superficiale. Ti hanno dato solo qualche punto."
Jack sorrise. La faccia era stata l'ultimo dei suoi pensieri, ma gli faceva piacere sapere che non sarebbe rimasto sfigurato. Malgrado suo padre gliel'avesse menata in continuazione per i lineamenti troppo dolci, non gli dispiaceva il proprio viso. Vi conviveva da ventidue anni e ormai vi era affezionato. 
"Adesso ti mettono a posto anche il braccio", continuò Ennis. "Ti hanno già fatto un calmante e stanno preparando la sala operatoria, è questione di minuti. Stai tranquillo, tornerai come nuovo."
"Domani... la gara..."
"Al diavolo la gara. Adesso devi solo pensare a rimetterti."
"No, davvero..." Jack sentì tornare tutta la rabbia di poco prima. Era arginata e attutita dal sedativo, ma bruciava, Dio se bruciava. N
on avrebbe mai creduto di essere tanto orgoglioso. Avrebbe voluto dimostrare a quei due texani bastardi che non erano riusciti a metterlo fuori gioco, che poteva forse, anche, essere un finocchio (ma Dio, sentirselo dire...), ma non per questo era anche una femminuccia: ma come? "Io non... non sono una femminuccia, vero?"
"Cosa ti salta in testa?" Ennis si chinò su di lui e bisbigliò, dandogli un buffetto sul viso: "Non sei una femminuccia. Sei il cowboy più maledettamente maschio su tutta la faccia degli Stati Uniti."
Pensa che io stia delirando, considerò Jack. "Davvero, Ennis", ripeté, cercando di tenere ferma la voce, di non sembrare strafatto. "Quelli pensano che io..."
"Sentimi bene", lo interruppe Ennis, serio. "Chiunque ti ha fatto questo può pensare quello che vuole, ma a te non deve toccarti, chiaro? Tu non sei una femminuccia, punto. Casomai, le femminucce sono loro, che hanno bisogno di mettere fuori combattimento quelli più bravi."
"Non so chi fossero, te l'ho già detto", sospirò Jack. "Quello moro non credo di conoscerlo, forse il biondo era Hackman, era alto e grosso come lui, ma non potrò mai dimostrarlo." chiuse gli occhi. Cercare di non sembrare fatto e strafatto era uno sforzo immenso, considerato che si sentiva fatto e strafatto, dalla punta dei capelli a quella delle dita dei piedi. "E anche quando dovrò fare denuncia... non potrò certo dire tutto. Non posso dire che mi hanno picchiato perché sto con un uomo."
"Mi dispiace", disse Ennis.
"Di cosa?" domandò Jack, ma sapeva già di cosa fosse dispiaciuto Ennis.
Ennis tacque, lo sguardo basso, il mento sul collo.
Jack lo prese per la camicia, lo tirò a sé guardandolo negli occhi. Improvvisamente, si sentiva sveglio e lucido. "Ascolta, del Mar, non farmi incazzare più di quanto io lo sia già. Non è colpa tua se mi hanno giocato questo tiro. Sono sicuro che l'
avrebbero fatto anche se avessi avuto una moglie, se lo scopo era di mettere fuori combattimento il primo in classifica. Il fatto che sto con te è solo una scusa, siamo sempre stati attenti e nessuno può averne la certezza."
"Ma..."
"Niente ma. E non iniziare con le tue vecchie paranoie, non provare nemmeno a farti venire in testa certi pensieri. Io... ogni giorno ringrazio Dio, o chi per lui, per averti fatto salire nel mio furgone, quel pomeriggio... e per averti fatto rimanere con me finora. So che per te è stato difficile superare tutte le tue paure, e non so quanto tu le abbia superate. Non voglio che te le fai tornare a causa di due maledetti figli di puttana texani."
Ennis l'abbracciò. "Ti amo, Jack", disse, e Jack sentì il cuore traboccare di gioia: le volte che Ennis gli aveva detto esplicitamente ti amo, e non risposto anch'io dopo che lui gliel'aveva detto per primo, si potevano contare sulle dita di una mano. "Ti amo e sono furioso per quello che ti hanno fatto, e se è stato a causa mia, mi dispiace sinceramente. Ma puoi stare tranquillo, per le paranoie. Non avrebbero più senso. Perché ormai... uhm... non potrei più tornare indietro."
Jack non poteva vederlo in viso, ma sentiva la sua pelle ribollire contro la propria, e poteva scommettere che Ennis fosse arrossito. Ennis arrossiva come una ragazzina, quando era imbarazzato; e quando si lasciava andare a certe sdolcinatezze, Ennis si imbarazzava molto.
Jack adorava certe sdolcinatezze, e vedere Ennis in quello stato lo mandava giù di testa, forse perché accadeva tanto di rado. Gli circondò la schiena con il braccio sano, che sentiva pesante come piombo, e mormorò, chiudendo gli occhi: "Ti amo anch'io, Ennis. Ti amo tanto che a volte mi scoppia il cuore."
Come risposta, Ennis lo baciò leggermente sulla bocca, si staccò da lui e gli passò le dita fra i capelli, ravviandoglieli dalla fronte.
Jack sospirò, s
i sentiva di nuovo esausto e aveva voglia di assopirsi, abbandonarsi a quel piacevole torpore nel quale aveva galleggiato fino a pochi minuti prima. "Vorrei solo poter gareggiare, domani", bisbigliò. "Dimostrargli che anche se sono un finocchio non sono una donnetta, e che posso stracciarli tutti."
"Jack, non..." iniziò Ennis, ma qualcuno bussò alla porta, interrompendolo. "Avanti", rispose.
Entrò un'infermiera: "E' tutto pronto. Deve uscire, signor del Mar."
"Un attimo", disse Ennis. Poi, rivolto a Jack, in un bisbiglio che solo lui poteva udire: "In bocca al lupo, piccolo."
"Crepi", rispose Jack.

2.

Nella sala d'aspetto, Ennis trovò Jan, seduta su una delle sedie di plastica grigia: le aveva telefonato al motel, informandola dell'accaduto, mentre Jack veniva medicato sul viso al pronto soccorso.
"Allora?" domandò lei, preoccupata, alzandosi in piedi, appoggiando la rivista che stava sfogliando. "Mi hanno detto che lo stavano operando, ma non capivo dove fossi andato a finire tu."
"Ci hanno fatti aspettare mezz'ora in una saletta vicino alla sala operatoria, mentre preparavano tutto. Adesso lo stanno operando."
"Come sta?"
"Tutto sommato, bene. Ti dico la verità, appena l'ho visto mi è venuto un colpo. Tutto quel sangue... " ripensando a come aveva trovato Jack per strada, con il viso insanguinato e pallidissimo, quel taglio che gli andava dal ponte del naso alla guancia destra, la camicia chiazzata di sangue sotto le braccia strette allo stomaco, si sentì annodare le viscere: aveva temuto che l'avessero accoltellato in modo ben più grave, o che gli avessero addirittura sparato.
Jan l'abbracciò, lo strinse: "Coraggio, andrà tutto bene", ed Ennis ricambiò l'abbraccio, senza parlare, grato alla sorella per il suo calore, per il suo sostegno.
Si staccarono, senza separarsi completamente. "Adesso come sta?" domandò di nuovo lei.
"Ha un taglio sulla faccia", spiegò Ennis. "Ma quello non è niente, è lungo ma superficiale, gli hanno dato solo sette punti nel punto più profondo. Il problema è il braccio destro, per quello lo stanno operando. Gli hanno schiantato l'articolazione del gomito, più una frattura esposta al radio."
"Cristo."
"L'ortopedico però dice che dopo l'operazione tornerà tutto a posto, con un pò di pazienza. Senti, perché non andiamo fuori? Ho bisogno di una sigaretta."
"Okay."
S'incamminarono per raggiungere l'uscita, e lei lo prese a braccetto.
"E Matt e le pesti?" chiese Ennis.
"Li ho mandati a mangiare qualcosa. Fra un pò, li chiamo al motel."
"Tu non hai ancora mangiato..."
"Neanche tu, se è per quello."
"A dire il vero, non ho una gran fame."
"Bè, nemmeno io, ora. Prendiamo qualcosa dopo al bar, va bene?"
"D'accordo."
Arrivarono alla porta a vetri e uscirono nel piccolo giardino dell'ospedale di Childress, nell'aria calda della notte. Ennis si accese una sigaretta, prese una lunga boccata, la trattenne e infine esalò il fumo grigiastro. Tutta la tensione di quelle ore stava scemando, e iniziava a sentirsi stanco.
"Ti ha detto com'è successo?" domandò Jan. "Cos'è stata, una rapina?"
"Magari. E' stato un sabotaggio. Gli hanno rotto il braccio deliberatamente, per evitare che potesse partecipare alla gara di domani."
"Cosa?"
"E quel che è peggio... Jack dice che quei due bastardi gli hanno detto che volevano impedire che un finocchio vincesse qui in Texas.
E' incazzato nero."
"Diavolo, che figli di puttana", esclamò Jan, che di solito evitava il turpiloquio. "Quindi è stato qualcuno che vi conosce, che sa che state insieme, o almeno lo sospetta."
"Sicuramente. E' probabile che fossero dei rivali di Jack, ma erano mascherati, e praticamente irriconoscibili." Ennis sospirò, sentendosi sconfitto e impotente. "Potrebbe essere stato chiunque. Quel Hackman, quello che oggi è arrivato secondo, ha già gareggiato con Jack diverse volte, ma non ci sono prove che sia stato lui, se non che è alto e palestrato come uno dei due aggressori, e non ho idea di come possa essere tanto sicuro che stiamo insieme. Gli abbiamo detto che siamo lontani cugini, come facciamo poi con tutti, e siamo sempre stati così attenti a non fare o dire cose che..."
"Magari lo sospetta, e gli è stato sufficiente. Se sa che vivete sotto lo stesso tetto, non siete sposati, andate insieme ai rodei... e se ha visto qualcosa... insomma, potrebbe esservi scappato, no? Anche solo una mano fuori posto, un abbraccio un pò troppo affettuoso... a volte vi ho beccati anch'io."
Le parole di Jan arrivarono ad Ennis come una coltellata. "Potrebbe esserci scappato, sì, ma io non me ne sono mai accorto", esclamò, con veemenza. "In casa è un'altra storia, forse abbassiamo un pò la guardia, e scusami per questo, ma ti giuro, Jan, e anche tu lo sai, che fra la gente..."
Lei gli strinse il braccio. "Scusami. Non volevo offenderti. Non volevo insinuare nulla."
"Scusami tu, se in casa tua ci siamo fatti beccare in atteggiamenti..."
"Ormai è anche casa vostra", lo prevenne lei. "E in ogni caso, non avete mai fatto niente di così mostruoso. Altrimenti, mi avreste sentita."
Ennis tacque, abbacchiato e imbarazzato, sentendosi colpevole, e prese un tiro nervoso dalla sigaretta. Continuarono a camminare, in silenzio. Poi, Jan domandò: "Avete già parlato con la polizia?"
"Sì", rispose lui. "Prima, per strada, con gli agenti che hanno soccorso Jack. Domani verranno in ospedale a raccogliere la sua denuncia, ma ci hanno già detto che sarà fatica che possa uscirne qualcosa di buono... e ovviamente Jack non può dire che gli aggressori lo conoscevano al punto da sapere, o almeno sospettare, che sta con me." gettò a terra la sigaretta, la schiacciò. "E Jack tornerà a casa incazzato nero, con un braccio fracassato e il viso rovinato, senza nemmeno avere avuto la possibilità di partecipare al suo ultimo rodeo. Schifosi bastardi."
"Ma ci sarà pur qualcosa da poter fare, no?"
"Cosa ti sembra che ci possa essere da fare, Jan?"
"Non lo so. Ma così non è giusto."
"Lo sai anche tu, che quasi niente va mai nel verso giusto. E i bastardi trovano sempre il modo di cadere in piedi."
"Dammi una sigaretta, Ennie."
Lui la guardò, sorpreso. "Ma se mi rompi sempre l'anima perché..."
"Al diavolo. Dammi quella sigaretta."

Jan fumò la prima sigaretta della sua vita, tossendo quasi fino alle lacrime ogni volta che provava ad inghiottire il fumo, poi convinse Ennis ad andare al bar dell'ospedale a mangiare un boccone. Quando ebbero cenato, Jan telefonò a Matt, informandolo sulle condizioni di Jack e informandosi sui bambini, che fortunatamente erano tanto stanchi da avere voluto rientrare in camera subito dopo cena, ed essersi addormentati davanti alla televisione in dieci minuti.
Era passata un'ora da quando Jack era entrato in sala operatoria, e il chirurgo aveva detto ad Ennis che non ne sarebbe uscito prima di almeno tre. Fecero un altro giro nel giardino, altra sigaretta per entrambi, poi tornarono dentro, in sala d'aspetto. Non c'era molto altro da fare se non attendere.
Ma intanto, la mente di Ennis lavorava.
Jack era davvero furente, e ne aveva tutte le ragioni. Avrebbe voluto gareggiare, dimostrare di non essere un debole. Era stato colpito nell'orgoglio, ed Ennis, che di orgoglio ne sapeva qualcosa, poteva capirlo. Se fosse successa una cosa del genere a lui, avrebbe gareggiato anche con tutte e due le braccia fuori uso, pur di dimostrare che nessuno poteva metterlo fuori combattimento in modo tanto sleale, tanto meschino.
Pur di dimostrare che non sei un finocchio. Dilla tutta, del Mar. 
D'un tratto, gli venne un'idea. Completamente folle, certo. Pericolosa, anche. E non avrebbe potuto rivelarla a Jack, se non dopo averla messa in pratica, perché allora sì che si sarebbe infuriato. Si sarebbe infuriato, e gli avrebbe impedito in ogni modo di metterla in atto, anche intontito dai sedativi e dal dolore.
Avrebbe gareggiato al posto suo. Più semplice di così.
"Gareggerò al posto di Jack, domani", disse.
Jan lo guardò, in un misto di sorpresa e divertimento. "Sei impazzito. O stai scherzando."
"Niente affatto. Dirò ai giudici quello che gli è successo, e gareggerò al posto suo. Per quanti pochi punti possa ottenere, sarà meglio che non partecipare del tutto. Jack oggi è arrivato primo, ha fatto un ottimo tempo, potrei anche..."
"Potresti romperti l'osso del collo, ecco cosa", anche se erano passati molti anni, l'atteggiamento materno di Jan stava tornando fuori. "Non sei mai salito in groppa a un toro in vita tua."
"Tu non hai mai fumato, allora."
"Ennis, qui non si scherza. Potresti rimanerci secco, o infortunarti seriamente."
"Anche Jack, la prima volta, è semplicemente salito su un toro, senza averci mai provato prima."
"E' diverso. Lui aveva sedici anni."
"Sì, perché io a ventidue sono un vecchietto."
"Jack non te lo lascerà fare."
"Jack non lo saprà, se non a cose fatte", dichiarò Ennis, e la guardò. Io non glielo dirò, tu non glielo dirai, se non quando tutto sarà finito. Giusto?
"Non puoi farlo."
"Sì che posso. Non voglio che Jack torni a casa sconfitto al torneo, oltre che nel fisico e nel morale."
"Non credo che gli cambierà molto. In fondo, anche se non ti succede niente, anche se, mettiamo il caso, tu riesci a vincere, non sarà stato lui a partecipare."
"Sarà comunque una mezza vittoria."
"E se ti fai male, che non è poi così improbabile? Cosa penserà Jack in quel caso?"
Ennis sospirò. Se si fosse fatto male, Jack si sarebbe sentito sconfitto due volte, e non voleva che accadesse. "Starò attento."

Una mezz'ora dopo, Jack uscì, sdraiato su una lettiga spinta da un'infermiera. Dormiva, una flebo attaccata al braccio sinistro, un enorme bendaggio a quello destro, ripiegato sullo stomaco. Dietro di loro, il chirurgo: Ennis e Jan gli si avvicinarono per le domande di rito.
Il chirurgo disse che tutte le ossa erano state rimesse a posto, quello del radio con l'aiuto di due perni: l'intervento era riuscito, Jack avrebbe recuperato la piena funzionalità dell'arto. Avrebbe dovuto rimanere in ospedale con il braccio steccato e bendato per sette, dieci giorni, per permettere la pulizia e il controllo dei tagli dell'operazione; poi, se tutto fosse andato bene, l'avrebbero ingessato e avrebbe potuto essere dimesso.
Ennis e Jan raggiunsero Jack in camera. Due infermiere se ne stavano andando: la più giovane spiegò loro che Jack era sotto anestesia, avrebbe dormito ancora per circa due ore, e sarebbe stato meglio che qualcuno fosse rimasto con lui, per controllarne il risveglio.
"Rimango io", disse Ennis. "Jan, tu vai dalle tue pesti."
"Okay", rispose lei. "Però lasciamelo salutare."
"Certo."
"Per qualsiasi cosa, spingete il pulsante blu vicino al letto", disse l'infermiera. "Se non si riprende, se ha bisogno di un analgesico, se ha bisogno di una padella, se la flebo finisce... ah, potrebbe venirgli la febbre, ma è una cosa normale, dopo un intervento chirurgico."
"D'accordo", disse Ennis.
L'infermiera li lasciò, per tornare alle proprie incombenze. Janice si avvicinò al letto: "Sicuro che non vuoi che rimanga io?"
"No, non preoccuparti. Voglio esserci io quando si sveglia."
"Tu domani avrai una giornata pesante, sempre che non cambi idea, come mi auguro. Sarebbe meglio che andassi a dormire."
"Credo che non dormirei comunque."
"Lo immagino", confermò Jan. Si chinò su Jack, gli mise una mano sulla testa. "Posso?" chiese ad Ennis.
"Certo." Ennis provò una lieve fitta di gelosia, e subito si sentì infinitamente stupido. Era più geloso di Jack o di Janice? Lui era il suo compagno, lei la sua vice mamma: era geloso di entrambi. Ma riconosceva che quella gelosia non aveva alcun senso: in quegli anni si erano affezionati l'una all'altro, e chi non si sarebbe affezionato a Jack? Anche Matthew e i tre marmocchi stravedevano per lui.
"Ciao, Jack", sussurrò Jan, e lo baciò sulla fronte. "Stai bene... e vedi di far rinsavire questo zuccone." lanciò un'occhiata ad Ennis, a un tempo minacciosa e apprensiva.
"Non potrà farlo, perché non ne saprà niente", ribadì Ennis. "Se lo sapesse, farebbe qualsiasi cosa per impedirmelo."
"E farebbe bene", replicò lei. "In ogni caso, domani, quando andrai a romperti l'osso del collo, io verrò con te. Non starò qui a raccontargli frottole."
"Bisogna che qualcuno stia qui, però", disse Ennis. "E che trovi una scusa per il fatto che io e te non ci saremo per tutto il pomeriggio."
"Oh, Matt è un fenomeno in questo. Potrebbe fare l'ambasciatore, o il diplomatico, o l'avvocato."

Ennis aprì gli occhi, svegliandosi di soprassalto, e si rese conto di essersi appisolato con la testa fra le braccia incrociate, appoggiato al letto.
Si tirò su, stordito. Jack lo guardava sorridendo, gli occhi
intontiti dall'anestesia: "Buongiorno."
"Ehi, ciao", con il dorso della mano, Ennis si asciugò il filo di saliva che gli era colato dalla bocca dormendo, poi si passò il palmo sugli occhi, cercando di svegliarsi. "Cristo, ero io che dovevo vegliarti. Come va?"
"Fa un pò male, ma è sopportabile. Mi hanno già operato, vero?"
"Sì", confermò Ennis. Guardò l'orologio di Jack sul comodino. Erano quasi le quattro di mattina, aveva dormito solo per mezz'ora. Guardò la flebo sospesa nell'asta accanto al letto, era appena a metà. Prese la mano di Jack, calda ma non bollente. Tutto okay.
Jack sospirò, sollevato, sorridendo: "Ti confesso che avevo un pò paura..."
"E' tutto a posto, adesso. In due mesi, il tuo braccio tornerà quello di prima. Da quant'è che sei sveglio?"
"Non lo so", disse Jack, e ridacchiò. "Anche tu sarai stanchissimo. Dormivi così bene... era un piacere guardarti. Russavi che ti si poteva sentire da Casper."
"Io non russo", dichiarò Ennis, piccato.
"Eccome che russi", ribatté Jack. "Specialmente quando sei molto stanco. Russi, e sbavi come i cani."
Ennis arrossì violentemente: non sapeva di russare, ma sì, spesso gli era capitato di svegliarsi con la saliva alla bocca, proprio come poco prima. Strofinò i capelli a Jack, piano: "Se hai voglia di scherzare, vuol dire che stai bene."
"Finché continuano a drogarmi, sto da dio", disse Jack. "Credo di essere più fatto di una pianta di cannabis."
"Ti garantisco che prima eri ancora più andato."
"Ho detto delle robacce?"
"Noo", Ennis sfoderò un ghigno malizioso. "Hai solo nominato qualche tua vecchia fiamma... raccontato di cosa ci facevi... un'infermiera è scappata, per la vergogna... e poi, hai allungato le mani con quella che è venuta dopo e..."
"Ennis!" questa volta era Jack ad essere arrossito.
Ennis rise, tutto andava bene e poteva permettersi di lasciarsi andare.
"Sei un falso, Ennis del Mar", sbuffò Jack. "Falso e contaballe."
Le parole di Jack colpirono Ennis come una stilettata, benché Jack avesse inteso qualcosa di diverso. Era la verità, gli stava mentendo, cosa che non aveva mai fatto, e la decisione di partecipare al rodeo al suo posto gli strozzava la gola, come se le parole non dette si fossero trasformate in un boccone che non andava né su né giù.
Però era a fin di bene. E non era proprio una bugia: era solo un'omissione. Non stava mentendo, dicendo apertamente qualcosa che non era vero. Forse era falso, ma non bugiardo.
Se ne sei convinto tu...
Si chinò su Jack e lo baciò, cercando di convincersi che era solo un rinvio: gli avrebbe detto tutto a giochi fatti.
Perdonami, per ora, piccolo.

3.

La giornata si preannunciava pesante: da quando si era risvegliato dall'anestesia, nessuno gli aveva più dato antidolorifici, eccetto due pillole rosa alle sei del mattino, che avevano funzionato quanto caramelle alla fragola, e Jack soffriva da matti, quasi peggio di quando aveva ripreso conoscenza sdraiato sulla strada.
Ma non era una dannata femminuccia, e adesso che era lucido non si sarebbe lasciato sfuggire nemmeno un lamento: quello era l'unico modo che gli era rimasto per dimostrarlo.
Alle otto arrivarono l'agente Rafferty con il suo collega più giovane, i poliziotti che l'avevano soccorso la sera precedente, per raccogliere la sua denuncia. Jack raccontò tutto quello che ricordava, descrisse gli aggressori il più accuratamente possibile, evitando solo di precisare l'altro motivo per il quale i due sembravano avercela con lui, oltre che perché era primo in classifica. Rafferty spiegò, a disagio, che la polizia avrebbe fatto il possibile, ma la cosa più probabile era che non venisse fuori niente. Quella di Jack sarebbe stata una delle tante aggressioni senza colpevoli, in cui i cattivi la fanno franca, e sono i buoni a rimanere fregati.
Jack era ancora furente per l'accaduto, ma cercava di non pensarci. Non c'era niente da fare, bisognava che se ne facesse una ragione: sarebbe tornato a casa con la coda fra le gambe e nessuno sarebbe stato punito, ma a quell'Earl Bowers era andata molto peggio: lui, la coda ce l'aveva rimessa, e a casa non c'era mai tornato.
E come lui, chissà quanti altri.
Ennis era rimasto con lui tutta la mattina, facendogli coraggio e cercando di tenergli su il morale, chiamando l'infermiera per quelle inutili pillole quando si era accorto che Jack stava soffrendo troppo, aiutandolo ad alzarsi e a raggiungere il bagno (Jack era stato categorico: aveva un braccio rotto, non una gamba, era in grado di camminare e non l'avrebbe fatta a letto in un pappagallo di plastica: non sarebbe stato umiliato fino a quel punto, mai e poi mai), e allontanandosi solo cinque minuti per una veloce colazione, quando un medico era venuto a controllare le condizioni di Jack, che aveva giudicato buone, eccetto un lieve rialzo di temperatura, per il quale gli aveva fatto prendere un antipiretico.
Ma Ennis era strano. Forse perché era stanco, praticamente non aveva dormito. O forse perché era preoccupato per lui. Preoccupato e, ovviamente, spaventato e furioso:
uno dei suoi peggiori incubi si era avverato. Non si sarebbe fatto paranoie, gliel'aveva promesso, ma non poteva certo controllare i propri sentimenti, né Jack avrebbe potuto chiedergli una cosa simile.
Dopo che gli agenti se ne furono andati, Jack riuscì a bere qualche sorso di tè, e il liquido caldo e dolce nello stomaco digiuno ebbe un effetto rilassante: si abbandonò sul cuscino e si appisolò, con Ennis che gli teneva la mano sana carezzandogliela leggermente. 
Si svegliò un'ora dopo, per trovare nella stanza Matthew e Jan, con Hope e Ken. Janice gli aveva portato la borsa con i suoi effetti personali, gli disse che lo trovava molto meglio della sera precedente, lo baciò su una guancia, ma per il resto non fu molto espansiva: si sedette quasi in disparte, sul letto vuoto lì accanto, lasciandolo chiacchierare con Matt e i bambini. Jack non si stupì: Jan era di poche parole, come il fratello, sebbene non avesse in comune con lui molti altri lati del carattere, e anche lei era stanca: Jack sapeva che era rimasta con Ennis fino a che l'intervento non era terminato, la notte precedente.
Di strano c'era che sembrava in collera con il fratello: quando era arrivata l'aveva salutato, e poi non gli aveva quasi più rivolto la parola, e sempre senza guardarlo in faccia, lei che di solito parlava fissando negli occhi l'interlocutore, sembrando addirittura sfrontata a chi non sapeva che era una sua abitudine. Anche Ennis, del resto, si era tenuto a distanza da lei, come consapevole di avere fatto qualcosa che l'aveva fatta arrabbiare.
Chissà cos'era successo. L'avrebbe chiesto ad Ennis, più tardi, in assenza di Jan.
Ma ora erano le undici, ed Ennis avrebbe fatto meglio a tornare in albergo e farsi una dormita, per riprendersi da quella nottataccia: a
veva gli occhi cerchiati di scuro, e il viso stanco e pallido, con la barba del giorno prima. Si vedeva che crollava dal sonno.
"Sì, forse è meglio che vada", replicò Ennis. "Ho un sonno esagerato. Mi faccio una ronfata, e questa sera sono di nuovo qua."
"Vai anche tu con i bambini, amore", fece Matt, rivolto alla moglie. "Resto io."
"Potete andare tutti quanti", intervenne Jack. "Posso benissimo restare da solo, per qualche ora. Per voi questa era una vacanza, non è giusto che la trascorriate in ospedale, a causa mia."
"Non è colpa tua, comunque", disse Matt. "Non te lo sei cercato."
"Però non è giusto lo stesso. Andate a vedere la fine della gara, piuttosto", suggerì Jack. "E' per questo che siete venuti. Poi mi raccontate com'è finita."
"Sì, che bello", esclamò Hope, che adorava i rodei. "Poi ti racconto tutto io, zio Jack."
"Non vedo l'ora", Jack cercò di sorridere.
"E se hai bisogno di qualcosa?" domandò Ennis. "Che so, di... andare in bagno?"
"Posso farcela da solo", ribatté Jack. Non voleva guastare la vacanza agli Hamilton, e desiderava che Ennis andasse a riposare. "Ho sempre due gambe e un braccio, no?"

Dopo altre due pillole, questa volta azzurre, il dolore iniziò finalmente a dargli tregua e Jack si rese conto di essere stanco: trascorse tutta la giornata dormicchiando, nel fresco delle lenzuola pulite, cercando di tenere lontano il pensiero dall'Arcade Stadium, dove la gara alla quale avrebbe dovuto partecipare era in pieno svolgimento.
Avrebbe potuto vincere.
Dio, che rabbia.
Ma non poteva farci niente. Poteva solo ringraziare di essersi portato a casa la pelle.
Verso le quattro del pomeriggio, si svegliò. Aveva la vescica piena, il brodo di verdura che aveva bevuto a pranzo aveva fatto effetto. Chiamare un'infermiera che gli avrebbe portato un maledetto pappagallo, mai: piuttosto sarebbe scoppiato.
Si alzò e fece da solo, lentamente, faticosamente, combattendo la nausea che l'aveva preso quando si era alzato in piedi, portandosi dietro la flebo con l'asta e tutto: un bell'impiccio.
Quando andò al lavandino per lavarsi le mani - la mano - non poté evitare di guardarsi allo specchio. Un gran brutto spettacolo. La sua carnagione aveva già preso quel colorito malaticcio, fra il grigio e il giallastro, che le persone acquistano quando sono ricoverate in ospedale. Gli occhi stanchi, vitrei. La barba incolta. I capelli scompigliati. E sotto quel cerotto... cosa c'era sotto quel cerotto? Ennis gli aveva detto che non avrebbe rimasto segni, gli avevano dato solo qualche punto di sutura. Ma quel cerotto era troppo lungo per solo qualche punto. Cosa significava poi qualche punto? Due, tre, sei, nove...?
Con cautela, Jack staccò la parte superiore del cerotto, lasciando attaccata quella inferiore. Il taglio partiva dal ponte del naso, per attraversargli il viso in diagonale fino allo zigomo destro. Aveva sette punti, verso la fine, proprio sotto l'occhio.
Si riattaccò il cerotto. Non sapeva se sentirsi felice o triste. La ferita era bella, se così poteva definirsi: non sembrava troppo profonda, aveva i bordi netti, appena arrossati, e non aveva perso sangue né pus, la garza era appena umida di poco fluido chiaro. I punti erano fitti, avrebbero cicatrizzato bene. Non avrebbe rimasto un segno troppo evidente.
Ma qualcosa avrebbe rimasto.
Un bel ricordo dell'ingiustizia subita, proprio sulla faccia, dove ogni giorno l'avrebbe visto più volte.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Sentì la rabbia salirgli dalla pancia al cuore alla testa, e questa volta non riuscì a farci niente. "Bastardi", mormorò, afferrando l'asta della flebo. Stava per tirarla via, o schiantarla a terra, ma all'ultimo momento si trattenne, e strinse forte il pugno intorno al metallo. S'incamminò verso il letto, con le lacrime che gli rigavano le guance. "Maledetti bastardi. Figli di puttana."
Raggiunse il letto, si sedette e si asciugò gli occhi con il lembo del camice, cercando di controllarsi, ma non funzionava: ora che era riuscita a traboccare, tutta la rabbia trattenuta, insieme al senso di sconfitta e di impotenza, non voleva più tornare dentro.
Bene, avrebbe pianto, avrebbe lasciato che quel miscuglio di sentimenti che lo strozzava si sfogasse all'esterno. Tanto, non c'era nessuno ad assistere allo spettacolo.
Ma sarebbe stata la prima e ultima volta.

4.

La gara avrebbe preso il via alle tre e mezzo del pomeriggio, dopo le corse a ostacoli dei cavalli, ma Ennis sapeva di doversi presentare ai giudici in tempo per spiegare quello che era successo a Jack, e convincerli a lasciarlo gareggiare al suo posto, sperando che capissero la situazione.
Aveva comunque tempo per una dormita.
Disse a Jan di chiamarlo alle due, e crollò sul letto dopo essersi tolto gli stivali, senza svestirsi. Quando Jan lo svegliò, si sentiva ancora più pesto di prima, e gli ci vollero una doccia fredda e due tazze di caffè per riportare la propria coscienza a livelli decenti.
Se non altro, era talmente intontito da non pensare alla paura.
Fifone che non sei altro. Cosa vuoi che sia, salire sopra un toro e cercare di restarci il più possibile? Jack l'ha fatto decine di volte.
Ma si era infortunato spesso, e anche se a lui non era mai capitato, c'era chi si faceva male seriamente. Qualcuno, ogni tanto, ci rimetteva anche la pelle, benché non accadesse troppo di frequente. Quel ragazzo dello Utah, due anni prima, che era stato colpito da un calcio alla testa...
Non pensarci.
Ennis non voleva farsi male: se si fosse infortunato, Jack si sarebbe infuriato - infuriato o dispiaciuto, a seconda della gravità dell'infortunio. Voleva uscirne integro, e aumentare il punteggio del suo compagno, che già era ottimo, in modo da farlo arrivare almeno terzo. Se fosse riuscito in tutto, Jack gli avrebbe perdonato di avere fatto una cosa tanto pericolosa senza prima avvertirlo.
Era chiedere troppo?
Forse.
Anzi, molto probabilmente.
O forse no. Che diamine, non poteva andare tutto male.

Dopo che Ennis ebbe spiegato la situazione, il più anziano dei cinque giudici, senza togliersi il sigaro dalla bocca, gli chiese se era mai salito in groppa a un toro.
"Qualche volta, quando avevo diciassette anni", mentì Ennis, sperando che a nessuno venisse in mente di indagare. Si sentiva a disagio: non aveva mai raccontato tante fandonie in poche ore, ma al diavolo, ormai era in ballo, aveva persino confermato ai cinque la parentela con Jack. "Poi non ne ho più avuto il tempo."
Silenzio da parte dei giudici. Poi l'unica donna, una mora sui quarant'anni con i capelli tagliati a caschetto e le labbra a papera, obiettò: "Veramente, non sarebbe molto regolare."
"Perché, un sabotaggio è regolare?" ribatté Ennis. "E dal momento che non si sa chi è il colpevole, la cosa migliore, a questo punto, sarebbe annullare tutta la gara, e rimandarla a quando anche mio cugino potrà partecipare. Se mai potrà farlo."
"Non possiamo sapere con certezza se si è davvero trattato di un sabotaggio contro il signor Twist", replicò la donna. "Lui può anche sostenere che gli aggressori gliel'hanno detto, ma chi può verificarlo?"
Ennis iniziò a scaldarsi: non gli andava che la parola di Jack venisse messa in dubbio. "Che motivo avrebbe avuto Jack di inventare tutto? Ieri era primo, e poteva vincere. Che interesse aveva a mettere su una storia del genere, quando poteva vincere e portarsi a casa il primo premio? Io non ci riuscirò di sicuro. Posso solo sperare di non farlo arrivare ultimo, come si ritroverebbe senza gareggiare oggi."
Silenzio, di nuovo.

"Comunque, potete benissimo verificare quello che è successo, con chi ha soccorso Jack e con la polizia. Non si è trattato di una rapina. Non gli hanno rubato niente, non l'hanno picchiato... hanno aspettato che fosse solo, si sono mascherati e gli hanno rotto il braccio destro, sfregiandolo in faccia quando si è ribellato. Cosa volessero mi pare evidente."
Ennis non sapeva più cosa dire. Anzi, aveva sprecato fin troppo fiato: se quelli non erano intenzionati a farlo partecipare, non l'avrebbero fatto, anche se avesse tentato di convincerli per tutto il pomeriggio.
Invece, i cinque si scambiarono delle occhiate, e il più anziano disse: "Okay, si può fare. Non sarà molto regolare, ma non ci vedo niente di male. E in ogni caso, ci riserviamo di parlare con la polizia e i testimoni, e di escluderla dalla gara, signor del Mar, anche a gara avvenuta, nel caso trovassimo qualcosa di poco chiaro."
Era fatta. Ennis tirò un sospiro di sollievo, ma sentì le gambe che iniziavano a tremare.

Janice l'aveva aspettato poco distante dal banco dei giudici, mentre Matthew e i bambini erano andati a prendere posto fra il pubblico: "Allora?"
"Allora, posso partecipare. Mi hanno fatto un pò di storie, ma alla fine li ho convinti."
"Non avevano nessun interesse a proibirtelo. A loro cosa importa, se anche ti rompi l'osso del collo?"
"Janice, smettila, per favore. Ne abbiamo già parlato." E ho già abbastanza strizza senza che ti ci metta anche tu, grazie.
Lei sospirò, ma tacque.
Ennis l'accompagnò alle gradinate, e lungo il corridoio affollato incrociarono David Hackman. Come non riconoscerlo? Alto più di Ennis, fisico da pugile, aveva il viso butterato da una terribile acne tardiva, e gli incisivi più sporgenti che Ennis avesse mai visto. Ai rodei, vestiva sempre con delle orribili camicie sui toni del rosso, completate da un cappello bianco con la tesa larga quasi quanto quella di un sombrero.
"Ehi, tu non sei quello che sta sempre con Jack Twist, suo cugino?" anche Hackman l'aveva riconosciuto. "Dove l'hai messo? Non l'ho ancora visto, qua intorno."
"E' in ospedale", ribatté Ennis, a cui non era piaciuto il modo in cui Hackman aveva pronunciato la parola cugino, attento a cogliere ogni espressione provocata dalle proprie parole sul viso del ragazzo. Forse non aveva motivo di sospettare di lui, ma aveva la stessa corporatura di uno degli aggressori, era secondo dopo Jack, lo conosceva a sufficienza per immaginare qualcosa di strano, era texano e il suo accento era inconfondibile, e a giudizio di Ennis era un bambino viziato troppo cresciuto e con la puzza sotto il naso. Chi altri fra i concorrenti avrebbe potuto fare una cosa del genere al primo in classifica? "Due figli di puttana gli hanno schiantato un braccio, stanotte."
"Quindi, non può partecipare, oggi", disse Hackman. Il suo viso non tradiva alcuna emozione, sembrava una maschera di gesso: non gioiva, ma non sembrava nemmeno dispiaciuto. Solo quell'espressione indecifrabile. "Che peccato."
"Partecipo io, al suo posto."
Hackman sollevò un sopracciglio. "Non ti ho mai visto ai rodei, se non fra il pubblico."
"Infatti. Ho gareggiato un paio di volte, quando ero ragazzo, e mi sono accorto che non c'era niente di divertente nel montare un toro per qualche secondo."
"Cos'è, sei uno di quei codardi che dicono che hanno di meglio da montare perché se la fanno sotto al pensiero di salire su un toro imbizzarrito?"
Ennis s'inalberò. D'istinto, sollevò le mani, per prendere quel cafone per il colletto di quella sua indecente camicia, sbatterlo contro il muro e gonfiargli la faccia (con la coda dell'occhio, vide gli occhi di Jan allargarsi, la sua bocca aprirsi, le sue mani sollevarsi per bloccarlo), ma si trattenne e le rimise a posto, lungo i fianchi, stringendo i pugni. "Forse", rispose. Poi tentò: "Ma almeno, non sono uno di quei codardi che per vincere hanno bisogno di spezzare le braccia al primo in classifica."
Il viso di Hackman si fece rosso, poi viola
, al punto tale che i segni dell'acne non erano più distinguibili. Aprì la bocca come una trota, la richiuse, la riaprì. Poi, con esagerata sorpresa: "E' stato un sabotaggio?"
Ennis annuì. "Quelli che l'hanno aggredito gliel'hanno detto chiaro e cristallino", spiegò. "Piuttosto da idioti, vero? Ma non andranno lontano, la polizia ci ha detto di stare tranquilli."
La faccia di Hackman da viola si era fatta bianca come un foglio di carta.
"Qualcosa non va?" domandò Ennis.
"N-no", balbettò Hackman. "Spero proprio che li prendano, quei vigliacchi."
"Così sembra. E' questione di giorni, forse di ore."
"Bè, io... devo andare, adesso", disse Hackman, facendo per andarsene.
"Aspetta", disse Ennis. Ci stava prendendo gusto. Non avrebbe potuto dimostrare a nessuno che Hackman era uno dei due aggressori, ma era chiaro che lo fosse, e gli avrebbe rigirato il coltello nella piaga il più profondamente e il più a lungo possibile. "Non ti ho presentato la moglie di Jack, Janice Twist."
Jan non fece una piega. Sorrise e tese la mano a Hackman. "Molto piacere."
"Uhm... piacere, David Hackman", lui le strinse la mano. "Non... non sapevo che Jack fosse sposato."
"Io non vengo mai ai rodei", spiegò Jan. "Mi impressiono troppo. Di solito, è Ennis che viene con mio marito. Questa volta mi sono lasciata convincere, e ho portato anche i bambini... ma gli abbiamo portato sfortuna, purtroppo."
"Bambini...?"
"Solo i due più grandi. Pete è troppo piccolo, è rimasto a casa con i nonni." guardò Ennis. "Anzi, non è che mi riaccompagni da loro? Scusa tanto, David, ma li abbiamo lasciati con mio fratello Matthew, che con i bambini non ci sa fare molto."
David Hackman alzò le mani. "Allora... buon proseguimento, signora Twist", disse. "E... buona fortuna, Ennis."
"Anche a te, David."
Hackman andò per la sua strada, allontanandosi quasi di corsa, ed Ennis e Jan si voltarono per proseguire verso le gradinate. Jan lo prese per un braccio: "Cosa cavolo ti è saltato in mente di dire?" sibilò.
"E' stato lui", disse Ennis. Tremava, livido di rabbia. "Cristo, l'avrei strozzato qui, seduta stante. Ma prima, gli avrei spezzato tutte e due le braccia."
"Ennis, gli hai raccontato un mucchio di balle", insisté lei. "Quella della moglie, poi, potevi risparmiartela. Prima o poi, scoprirà la verità e..."
"Volevo solo vedere che faccia faceva, se era stato lui o no", replicò lui. "E non mi sembra ci siano dubbi. Quel vigliacco bastardo figlio di puttana..."
"Per questo ti ho coperto. Però, quando verrà a sapere..."
"Non mi frega un cazzo se scopre la verità. Intanto, io ho scoperto la sua. E poi, se anche viene a sapere che gli ho cacciato delle balle, cosa vuoi che faccia? Nella posizione in cui si trova, fa solo bene a starsene a bocca chiusa."
"Però non possiamo dimostrare niente", sospirò Janice. "Non abbiamo prove, e la conversazione di prima vale quanto un soldo di latta."
"Intanto, se l'è fatta addosso", ribatté Ennis. Jan aveva ragione, ma lui si sentiva come un pugile che ha vinto il primo round. "E per un pò si sentirà il fiato della legge sul collo. E comunque, non si sa mai."
"Tu non gli farai niente, vero?"
Ennis la guardò, zitto.
"Ti ho visto, prima. Dimmi che non ti sei trattenuto per lasciarlo gareggiare e poi picchiarlo dopo."
Dopo tante bugie, Ennis decise di essere sincero. "Ci ho pensato. E francamente, sarebbe quello che vorrei fare, quello che si meriterebbe, dal momento che nessun altro gli farà niente."
Questa volta fu Jan a fissarlo, spaventata.
"Ma non lo farò", concluse Ennis con un sospiro. "Non sono come nostro padre, io."

Il toro si chiamava Thunderbird, come l'automobile, come la creatura mitologica spesso raffigurata nei totem indiani. Uccello di tuono: solo il nome era tutto un programma. Ennis non era estraneo ai tori: alla fattoria ne avevano una decina, ma chissà perché questo gli sembrava addirittura gigante.
E' tutta una tua impressione.
Prima di lasciarlo, Jan si era raccomandata: primo, uscire vivo; secondo, non farsi troppo male. E terzo, se ce la faceva, stare su il più a lungo possibile, già che c'era.
Matt, che da giovane aveva davvero partecipato a qualche rodeo, gli aveva dato delle dritte, ma Ennis era troppo nervoso e le aveva già dimenticate. Ricordava solo di dover stringere il più possibile le gambe intorno al corpo della bestia, proprio come a cavallo, e di cercare quanto più possibile di muoversi con lei, non contro di lei, assecondandone i movimenti. Gli era sembrata quella più importante, e quella più inapplicabile. Come assecondare i movimenti di un animale del genere, imbizzarrito sotto di te?
Indossò gli speroni e il guanto di Jack, che gli stava leggermente stretto, mentre il suo turno si avvicinava. Jack, che di solito era tanto sicuro di sé, era stato colpito nel profondo, al punto tale da avergli chiesto conferma della propria mascolinità. Se proprio aveva bisogno di ulteriori conferme, eccone qui una piuttosto eclatante: quale femminuccia avrebbe avuto il coraggio di salire su un toro infuriato, che come unico scopo aveva quello di sgropparti e se possibile scalciarti via?
Forse la femminuccia sono io, che me la sto facendo sotto, pensò Ennis, e questo lo scosse. Non era una donnetta, quanto non lo era Jack. E nessuno poteva permettersi di chiamarli finocchi, checche, froci, o che altro di ancora più offensivo.
E nemmeno omosessuali, se era per quello.
Il concorrente che lo precedeva era stato sgroppato dopo quattro secondi scarsi, e stava ora lasciando la pista, illeso, mentre Thunderbird veniva riportato al cancello, pronto per un altro giro.
Adesso tocca a me, pensò Ennis, avvicinandosi alla rampa, sentendo il cuore battergli nelle tempie e le gambe che iniziavano a tremargli. Cristo, vedi di calmarti, del Mar. Smettila di fare la femminuccia.
Uscire vivo. Non farsi troppo male. Stare su il più a lungo possibile. Hackman aveva già gareggiato, ed era rimasto sul toro per sei secondi e trentadue. Finora era stato il miglior tempo, ma Ennis, che da quando seguiva le gare di Jack aveva iniziato a intendersene un pò, sapeva che non era insuperabile. Lo stesso Hackman sapeva fare meglio: era un moccioso viziato, un vigliacco sabotatore, semplicemente un grandissimo
figlio di puttana, ma con i tori ci sapeva fare. Forse quel giorno si era rilassato, sapendo che non avrebbe dovuto competere con Jack?
Jack avrebbe saputo fare molto meglio. Dannazione, avrebbe certamente vinto.
Il presentatore berciava nel suo microfono, mentre Ennis si cosparse il guanto di resina, salì sulla rampa, e poi in groppa a Thunderbird, che sbavava e fremeva e grugniva. Si girò la corda intorno alla mano guantata, prendendo un respiro profondo.
Stringere il più possibile le gambe intorno al toro. Assecondare i suoi movimenti. Uscire vivo. Non farsi troppo male...  
"Okay, vediamo di finirla nel maggior tempo possibile", disse a Thunderbird, e sollevò la mano sinistra con il pollice verso l'alto.
Risuonò un colpo di pistola, il cancello si aprì e Thunderbird, inferocito, si lanciò fuori, nell'arena, con Ennis sopra di lui.
La bestia scalciava, saltava e sobbalzava, dimenandosi e contorcendosi, grugnendo, sbuffando, ed Ennis non poté fare altro che bloccare la mente. Al diavolo tutte le raccomandazioni, lì non c'era tempo per pensare, non c'era tempo nemmeno per avere paura, non sentiva neanche più la voce del presentatore. C'era solo quell'ammasso di muscoli che si dimenava sotto di lui, agile come un serpente, la tensione nel braccio con cui si teneva aggrappato alla corda, quella nelle gambe con le quali cercava di stringere il dorso dell'animale, il dolore che dalle natiche correva per tutta la spina dorsale per raggiungere il collo, e da lì propagarsi alla testa e alle spalle, ogni volta che Thunderbird saltava e ricadeva a terra, Ennis con lui.
Si rese conto che pochi secondi, in quelle condizioni, potevano sembrare un'eternità.
Quanto sono stato su? Due secondi? Quattro? Sei? Dio, non ce la faccio più.

Doveva scendere, prima che la stanchezza avesse il sopravvento, prima di farsi disarcionare e cadere malamente e magari prendere un calcio. Finora, non era andata male: la fortuna era stata dalla sua, e non voleva rischiare un ribaltamento della sorte. 
Ma come scendere? Matt gli aveva spiegato come restare su, ma non gli aveva detto come scendere!
Gesù, se ci sei, pregò, prima di lasciare la presa sulla corda: il modo più semplice, e anche quello più pericoloso. Thunderbird lo sgroppò ed Ennis si trovò a volare in aria per qualche secondo, librato come un uccello. Una bella sensazione, indubbiamente: guastata solo dal pensiero dell'atterraggio. Non era un uccello, non aveva ali con ossa cave e penne e piume e tutto il resto, era un uomo che sarebbe piombato al suolo con tutti i suoi settantasette chili di carne e ossa, rompendosene chissà quante.
Atterrò sulle natiche, l'ultimo colpo della giornata al suo povero didietro - Diavolo, domani avrò lividi e vesciche dappertutto. Per un attimo gli mancò il fiato, ma riuscì ad attutire la caduta con una capriola all'indietro, e si ritrovò in ginocchio, nella polvere, disorientato, a osservare i due clown che allontanavano il toro e tre cowboys che accorrevano per riacciuffarlo, armati di lazo.
Era finita.
Mentre il presentatore continuava a gracchiare, si rialzò velocemente e corse verso il cancello da cui era partito, dove trovò persone sorridenti e festanti, che lo accolsero con pacche sulle spalle e grida di entusiasmo.
"Quanto... quanto ho..." tentò di domandare, ansimando. Gli mancava il respiro. Doveva avere perso un anno di vita.
"Ma sei sicuro di essere un principiante?" domandò una biondina vestita di blu e bianco.
"Quanto ho fatto?"
"Un fottutissimo ottimo tempo", esclamò un vecchio cowboy con grossi baffi rossi e occhiali da aviatore. "Sei secondi e ventuno. Sei secondo, e primo in classifica, giovanotto."
"Cosa?" Ennis non riusciva a crederci. Sei secondi e ventuno, poco meno di Hackman? Che sommato al tempo di Jack del giorno precedente, lo rendeva primo in classifica?
Anzi... li rendeva primi in classifica.
La fortuna del principiante, sentì qualcuno dire, fra le tante voci entusiaste. E altri ancora: Ma non è un principiante, non è possibile. Qualcun altro gli cacciò in testa il cappello, che aveva perso quando Thunderbird l'aveva disarcionato.
Ennis si sentiva sottosopra, gli girava la testa e aveva le viscere nella gola, proprio come quando, a dodici anni, era andato per la prima volta sulle montagne russe. Ma la fortuna era stata dalla sua... come aveva detto Jack? Dio, o chi per lui.
C'erano solo tre concorrenti dopo di lui: tre scartini, come Jack poco gentilmente definiva quelli che non riuscivano mai a superare i cinque secondi. Era praticamente impossibile che anche solo uno dei tre riuscisse a batterlo.
Bè, se non sono uno scartino io...
Sì, ma ho fatto sei secondi e ventuno. Pivello, con la fortuna del principiante, ma non
scartino.
"Ennie!" la voce di Janice. Ennis si girò verso la voce, e Jan lo travolse, scontrandosi con lui, stringendolo e facendolo barcollare. "Ennis, testardo di una pellaccia dura, ce l'hai fatta!"
"E' stato un colpo di fortuna", balbettò Ennis, ricambiando l'abbraccio, sentendo Hope e Ken che gli si aggrappavano alle gambe saltellando: "Zio Ennis, zio Ennis, hai vinto, hai vinto, hai vinto!"
"Non ancora", si schermì.
Jan si staccò da lui, gli ravviò sotto il cappello i capelli scompigliati e impolverati... e non aveva gli occhi lucidi? "Sei stato bravo", disse. "Sei stato incosciente, irresponsabile e testardo, potevi ammazzarti... ma sei stato bravo."
"Potrei cambiare mestiere e darmi ai rodei", ridacchiò lui.
"Non pensarci neanche", lei lo schiaffeggiò leggermente, fingendo un cipiglio, ed Ennis rise.
Gli arrivò un pugno leggero alla spalla: "Ehi, pivello", era Matt, un largo sorriso che i baffi e la barba non riuscivano a nascondere. "Ti sei divertito, dì la verità. Credevo non volessi più scendere!"
"Un accidente", ribatté Ennis. Lasciò Jan e abbracciò Matt, stringendogli la mano, ricevendo in cambio una pacca sulla schiena. "E' che non sapevo come farlo."
"Non avresti potuto riuscirci meglio. Sei proprio sicuro di non essere mai salito su un toro?"
"Mai. E ti assicuro che questa è stata la prima volta, ma anche l'ultima."

Alla fine, Ennis arrivò primo, con un tempo totale di quattordici e trentuno, David Hackman secondo, con quattordici e ventisei, e un certo Anthony McGregor del Montana terzo, con dieci e cinquantaquattro. Primo premio, il famoso assegno di duemila dollari, che Ennis ripose nel portafogli, e un enorme trofeo placcato d'oro, con un cowboy che montava un toro inferocito, sventolando il cappello.
Ennis avrebbe portato la coppa a Jack, insieme a una busta con l'assegno e un biglietto, su cui sapeva già, più o meno, cosa scrivere. Chissà come avrebbe reagito Jack. Ennis poteva scommettere che si sarebbe infuriato, per avergli detto tutto solo alla fine, ma poteva anche scommettere che sarebbe stato felice. In fondo, era andato tutto bene.
Tutto, o quasi. Il colpevole dell'aggressione non sarebbe mai stato scoperto e punito, ma almeno, era stato umiliato nell'arena. Umiliato dall'amante pivello del finocchio che aveva pestato per intolleranza e balordaggine, e per essere sicuro di vincere. Forse una punizione più bruciante che finire in galera, dove grazie a tutti i soldi dei suoi genitori sarebbe uscito su cauzione il giorno successivo.
Sul podio, Hackman sembrava friggere dalla rabbia, i brufoli rossi e infiammati sulla faccia. Per forza che ti sei messo una maschera, ieri sera, pensò Ennis, con il trofeo fra le mani, desiderando più che mai che Jack fosse lì con lui. Anche al buio, ti si potrebbe riconoscere da lontano un miglio.
Scesero, con i loro premi e i loro trofei, per lasciare il posto alla premiazione delle corse dei cavalli, ed Ennis s'incamminò fuori dall'arena, nel corridoio che la collegava alle gradinate, per raggiungere gli Hamilton. Il corridoio era deserto, tutti erano fuori per le premiazioni, ed Ennis si sentì afferrare per una spalla: "Tu racconti un sacco di puttanate, del Mar."
Ennis si girò, placido quanto Hackman ribolliva. "Sì?"
"Tu non sei un principiante", disse David Hackman. "Non mi venire a dire che hai rodeato solo qualche volta da ragazzo, perché non ci crede nessuno. E quella bionda è tua sorella, non è la moglie di Jack Twist.
Ho fatto controllare, mentre gareggiavamo."
"Hai fatto controllare, mentre gareggiavamo", gli fece il verso Ennis. "Diosanto, cos'hai, una banda di 007 tutta al tuo servizio?"
"Piantala di fare l'indifferente. 
Quella è la moglie di quello che ha detto essere suo fratello. E scommetto che Jack non è tuo cugino, non è tuo parente neanche di striscio."
"E allora, a te che t'importa?"
"M'importa che tu sei un bugiardo. Sei un bugiardo di una checca... perché è questo quello che siete tu e Jack, vero? Due luridi merdosi froci."
Ennis questa volta non sprecò fiato. Tirò un diretto a Hackman, colpendolo alla mascella, facendolo schiantare con la schiena contro il muro. Poi gli fu addosso, afferrandolo per il collo della camicia. Lì intorno non c'era nessuno, in quel momento, altrimenti avrebbe dovuto trattenersi e tenersi il prurito alle mani. "Ascoltami bene, brutto figlio di puttana di un mocciosetto viziato, non ti permettere più di chiamare Jack in quel modo, altrimenti ti vengo a prendere, dovunque tu sia, e ti attacco al muro."
"Come ci siamo scaldati. Allora è vero... non mi ero sbagliato, siete due..."
Ennis lo sbatté violentemente contro la parete. "Vedo che non hai capito",
sibilò, a denti stretti, la voce vibrante dalla collera. "A te non frega proprio un cazzo di quello che siamo lui ed io, e anche se fosse non potresti permetterti di giudicarci. Hai sabotato il primo in classifica con la scusa che è un finocchio, e senza nemmeno averne le prove. Non mi pare un gesto di cui andare fieri."
"Non hai prove neanche tu, che sono stato io. Nemmeno uno straccio."
"Ho le prove che mi bastano", replicò Ennis. "E scommetto che se ti faccio scoprire le gambe..."
"Sono stato morso da un cane, l'altro giorno", ribatté prontamente Hackman. Ennis non avrebbe potuto chiedere di meglio, e replicò: "Tu sei stato morso da un cane... e Jack è riuscito a mordere il polpaccio dell'aggressore alto e biondo. Ma guarda che coincidenza."
Hackman si rese conto di essersi tradito da solo: impallidì, con il fiato corto, e la sua espressione si fece terrorizzata. Come poteva essere tanto spaventato da un altro uomo, più basso e più magro di lui, un marcantonio che praticamente ogni week-end aveva il coraggio di salire in groppa a tori imbizzarriti, per Ennis era un perfetto mistero.
Del resto, quel mocciosetto viziato non aveva avuto neanche il coraggio di affrontare Jack in modo leale.
La gente era strana e misteriosa.
"Allora, cosa farai?" chiese Hackman. Grosse gocce di sudore gli imperlavano la fronte butterata. "Vuoi denunciarmi? Tanto lo sai che le tue prove, alla polizia, non valgono un fottuto accidente. E anche se valessero qualcosa, i miei genitori mi farebbero uscire entro un'ora."
"Ho pensato a qualcosa di meglio", ribatté Ennis, calmo. "Ti farò quello che tu hai fatto a Jack."
Gli occhi di Hackman, piccoli e verdastri e porcini, si dilatarono dallo spavento, ed Ennis gioì, trionfante. Ma il suo viso rimase impassibile, la bocca appena incurvata in un sorriso: "Un braccio rotto in più punti, più un bello sfregio sulla faccia. Tanto, non è che la tua faccia sia granché. Magari migliora."
"Tu... tu..." balbettò Hackman, come un telefono staccato.
Ennis lo sbatté un'ultima volta contro il muro, poi lo lasciò andare. "Ma no, non ne varrebbe la pena", disse. "Ho di meglio da fare che sporcarmi le mani con un lurido vigliacco con la puzza sotto il naso."
Hackman si rilassò. S
e avesse voluto, con tutti quei muscoli avrebbe potuto buttare Ennis a terra e riempirlo di botte, ma sembrava troppo spaventato persino per muoversi. Forse era la minaccia della polizia a bloccarlo: per quanto attento avesse potuto essere stato la sera precedente, non sapeva esattamente quali prove avessero in mano gli inquirenti. E la prospettiva di essere incarcerato, anche se solo per un'ora o due, non doveva essere proprio allettante.
E se gli avessero fatto tirare giù i calzoni e controllato i polpacci...
Fosse quel che fosse, Ennis si voltò, tranquillo, certo che Hackman non l'avrebbe inseguito per pestarlo, e s'incamminò per il lungo corridoio. Aveva un sonno pazzesco, avrebbe potuto dormire per un giorno intero.

5.

Dopo essersi sfogato, Jack dovette tornare in bagno per sciacquarsi la faccia, e quando tornò al letto, si sentiva esausto, svuotato, ma leggero. Poco dopo arrivò un'infermiera, una rossa piccolina e graziosa, che gli controllò il braccio, gli disinfettò i due tagli dell'intervento e gli cambiò la medicazione, fece lo stesso sul viso, poi gli misurò la temperatura e gli somministrò un altro antipiretico, e infine lo liberò dalla flebo. L'infermiera era simpatica, chiacchierava, faceva battute, le seccava essere di turno e non poter andare a vedere il rodeo e impazzì quando Jack le disse che era uno dei partecipanti. Jack le diede corda, scoprendo che il proprio umore era migliorato. Si ritrovò a pensare ad Ennis, che stava certamente dormendo, ignaro dell'innocente scambio che stava avendo con quella ragazza. Ennis ne sarebbe stato geloso, anche se avrebbe cercato di non darlo a vedere: s'ingelosiva sempre, pur sapendo di non averne alcun motivo, quando Jack, a suo avviso, flirtava con qualcuno - lo definiva proprio così, flirtare.
"E' più forte di me", si era scusato una volta, dopo l'ennesima assurda scenata. "Non riesco a farci niente."
A volte, Ennis era buffo. Era buffo e tenero e indifeso, quando si lasciava andare ai sentimenti, alle emozioni, e perdeva il suo solito contegno. Ed era incredibilmente, insospettabilmente vocale e loquace, quando si lasciava andare alla passione. Solo Jack poteva affermare di conoscerlo quasi nella sua interezza (non si conosce mai una persona per intero: a fatica si riesce a conoscere del tutto sé stessi), e questo lo riempiva di orgoglio. Ennis era suo, solo suo... come lui era di Ennis.
E avrebbe fatto di tutto per evitare che quello che gli era successo minasse il loro rapporto, o facesse risorgere i vecchi dubbi nella mente del suo compagno.

L'odore di lavanda era intenso, copriva quello del disinfettante e dei medicinali.
Proprio come quella volta che, due settimane dopo essersi stabiliti nella fattoria di Matt e Jan, durante una cavalcata in un raro momento di pausa dal lavoro, avevano trovato quel prato, al centro di un piccolo bosco di olmi, coperto di quelle spighe simili a grano, colorate nei toni del grigio e del viola anziché del giallo e dell'oro.
Jack era sceso da cavallo, aveva chiuso gli occhi e aveva inspirato profondamente, inebriato, addentrandosi nella lavanda, che in certi punti gli arrivava fino alla coscia, quasi come un mare.
"Ehi, cowboy, è tardi", l'aveva richiamato Ennis, scendendo a sua volta da cavallo e raggiungendolo. "Dobbiamo tornare indietro."
"Adoro questo profumo", aveva detto Jack. "Mia madre mette sempre la lavanda in mezzo alla biancheria. La raccoglie e la fa seccare, poi ne fa dei sacchetti e li mette nei cassetti e negli armadi..."
"Scendi sulla terra, Twist", aveva ribattuto Ennis, rubandogli il cappello dalla testa e saltellando via.
"Ennis!" Jack l'aveva rincorso, in un gioco quasi infantile, come spesso avevano fatto quell'estate, quando nessuno poteva vederli e ridere di loro, che a quasi vent'anni ancora giocavano a rincorrersi come bimbetti. Chi conosceva Ennis in modo superficiale, e lo definiva musone o misantropo, sarebbe rimasto sbalordito nel vederlo giocare in quel modo; Jack invece sapeva bene che, quando si trovava in compagnia di qualcuno del quale si fidasse, Ennis si lasciava andare e sapeva essere solare, divertente, scherzoso.
Ennis aveva sventolato il cappello in aria: "
Prendimi, se sei capace!"

"Ridammi quel cappello, del Mar!"
Alla fine, Jack era riuscito ad acchiappare Ennis per un lembo della camicia, che gli era uscita dai jeans, o forse Ennis si era lasciato prendere. Si erano sbilanciati ed erano rotolati in mezzo a quel mare profumato, entrambi i cappelli volati chissà dove, e avevano ingaggiato una lotta amichevole, alla fine della quale Jack si era trovato Ennis a cavalcioni sopra il torace, le braccia bloccate dalle sue mani. Finiva sempre così, Jack era più agile, ma Ennis era troppo forte nella lotta, anche se per scherzo.
"Togliti, del Mar, mi soffochi!"
"E se non ne avessi voglia?"
"Allora..." Jack aveva sfoderato un largo sorriso, e aveva iniziato a fargli il solletico. Ennis era incredibilmente sensibile al solletico, e Jack ormai conosceva ogni punto strategico da colpire.
"Jack, no, ti prego, smettila!" aveva implorato Ennis.
"Non ci penso neanche!"
"Basta, pietà!"
"Dimmi che sono il miglior cowboy del Wyoming."
"Sei... sei il miglior cowboy del Wyoming!" Ennis, ripiegato su sé stesso, aveva le lacrime agli occhi.
"Dimmi che sono bello e simpatico."
"Sei bellissimo e simpaticissimo... i tuoi occhi sembrano zaffiri... e il tuo sedere è il più maledettamente attraente di tutto il fottuto paese... basta, Jack, ti prego!"
Le posizioni si erano invertite, e ora era Jack a trovarsi a cavalcioni sopra lo stomaco di Ennis. Aveva interrotto la tortura, ed aveva guardato in faccia Ennis, che era paonazzo e aveva i capelli scompigliati: "Dimmi... dimmi che mi ami. Dimmi che cercherai di non farti dei problemi inutili. Dimmi che non hai intenzione di lasciarmi."
Ennis aveva esitato, e Jack aveva temuto che si sarebbe rialzato, scrollandoselo via come una coperta. Invece, l'esitazione era durata solo un secondo. Ennis aveva sorriso, e con gli occhi calmi, brillanti, aveva ripetuto: "Ti amo, piccolo. Cercherò di non farmi dei problemi inutili... e no, non ho intenzione di lasciarti."
Era la prima volta che gli diceva esplicitamente ti amo. Jack aveva sentito il proprio cuore gonfiarsi, come sul punto di esplodere, si era chinato, aveva abbracciato il viso di Ennis con le mani e l'aveva baciato con impeto, quasi aggressivamente, come di solito era Ennis che faceva.
Ennis si era staccato per un secondo: "Dici che siamo abbastanza al sicuro, qui?"
"Direi di sì", aveva confermato Jack. Fermarsi sarebbe stato difficile: non avevano più fatto sesso da quella volta nella doccia della casa di K.E. e Kat, e quindici giorni erano tanti, troppi. Rischiare sarebbe stato da perfetti stupidi, ma che rischio c'era che qualcuno li vedesse, sepolti nella lavanda, in un bosco in mezzo al nulla, alle sette di sera?
C'erano state mani e lingue e bocche dappertutto, la camicia di Jack che volava via, quella di Ennis, mezza sbottonata, rannicchiata fino al mento, le cinture e i jeans che si slacciavano, poi Jack si era ritrovato a pancia in giù, Ennis di nuovo sopra di lui che gli abbassava jeans e slip e faceva lo stesso con i propri, baciandogli la nuca, il collo, le spalle e le scapole e la linea della spina dorsale, il suo alito caldo sulla pelle, e avevano fatto l'amore lì, in mezzo alla lavanda, al diavolo il ritardo, mentre il sole iniziava a tramontare e le api tornavano ai loro alveari per la notte.
Dopo, si erano ricomposti e scrollati invano i piccoli fiori viola, ed erano tornati a casa odorosi di lavanda, petali e fiori ancora dappertutto, nei capelli, nelle mutande, negli stivali, nelle tasche, Jack assetato e piacevolmente dolorante, il basso ventre ancora in fiamme dalla passione.
"Ma lo sai che odori come l'interno di un armadio?" l'aveva apostrofato Ennis.
Jack si era allungato verso di lui, l'aveva annusato arricciando il naso. "Guarda un pò, tu odori nello stesso modo."
"Mi sembrava che il profumo della lavanda ti piacesse."
"Infatti. Sta' attento, o ti salto addosso un'altra volta."
"Bravo, e dopo non prendertela con me se non riesci a stare a cavallo e ti tocca di tornare a piedi."
"Ennis!"
La casa era invasa dal profumo della torta di mele che Jan aveva cotto nel pomeriggio, e da quello più forte dell'arrosto in forno - era un'ottima cuoca, quando il tempo glielo concedeva. Ennis era salito subito in camera, gridando: "Ciao, siamo tornati!", e Janice aveva gridato, dal bagno: "Non urlare, che Matt sta riposando!"
Jack era andato in cucina, si era scolato un bicchiere d'acqua, se n'era versato un altro e lo stava sorseggiando con più calma, quando era arrivata Jan: "Ciao... alla buon'ora, eh?"
"Ciao", aveva risposto Jack, incapace di guardarla in faccia, tenendo gli occhi bassi, come temendo che lei potesse accorgersi di quello che era successo - non sarebbe stata la prima. Si era sentito improvvisamente colpevole: quella non era casa sua, affatto. Ennis era fratello di Janice, mentre Jack Twist per lei era un perfetto estraneo. Avrebbe potuto cacciarlo fuori, e lui avrebbe dovuto fare i bagagli senza nemmeno permettersi di dire ah.
Lei aveva annusato l'aria. "Cos'è quest'odore? Lavanda?" poi aveva guardato Jack e gli aveva pizzicato una ciocca di capelli, togliendo i rimasugli dei petali: "Guarda qui, hai dei fiori nei capelli."
"Credo di averne dappertutto", aveva detto Jack, cercando di simulare indifferenza, consapevole di non riuscirci. Non arrossiva facilmente, ma sentiva la faccia e le orecchie in fiamme. "Abbiamo trovato un prato pieno di lavanda, poco distante da qui... abbiamo iniziato a fare gli scemi e ci siamo caduti dentro."
Janice aveva fatto un sorriso storto. Aveva capito tutto, e Jack aveva trattenuto il respiro. Poi lei si era girata, aveva raggiunto il forno, si era chinata per controllare l'arrosto, e aveva detto: "La prossima volta, portatemene un pò. Posso fare dei sacchetti per profumare gli armadi." 

Jack pensò di stare sognando. Non poteva sentire quell'odore dolce e speziato in una stanza di ospedale.
Aprì gli occhi, per trovarsi davanti Ennis, che dormiva russando leggermente, mezzo seduto e mezzo sdraiato, di sghimbescio sulla poltrona di pelle nera alla sinistra del letto, la testa reclinata sulla spalla, le braccia abbandonate sullo stomaco.
Che ore erano? Doveva essere piena notte, se Ennis era crollato di nuovo, dopo avere dormito quasi tutto il giorno.
Ma no, dalle tende parzialmente tirate entrava la luce pallida del tardo pomeriggio.
Girò la testa verso il comodino, dalla parte opposta, e notò appena che il suo orologio segnava le sette. La prima cosa che vide fu un grosso trofeo dorato, la base di marmo nero, con sopra un toro in equilibrio su due zampe, con un cowboy in groppa che sventolava il cappello. Nello spazio fra la schiena del toro e il braccio con cui il cowboy si reggeva, qualcuno aveva infilato un grosso mazzo di lavanda, legato con un filo di rafia.
La targhetta sulla base del trofeo diceva: "Childress Rodeo Trophy - 12-13 maggio 1966 - Primo classificato". Sotto la base era infilata una busta bianca da lettera. PER JACK, Ennis aveva scritto sul dorso, con i caratteri incerti che usava quando cercava di scrivere in grande.
Jack batté le palpebre, disorientato. Non capiva.
Prese la busta, la aprì. Dentro c'era l'assegno di duemila dollari, il primo premio.
Jack ci capiva sempre meno.
Sotto all'assegno, un biglietto bianco, semplice, scritto in blu, nella grafia piccola e leggermente inclinata all'indietro di Ennis.

Chiunque abbia il coraggio di salire su un bestione incazzato come quello NON E' una femminuccia. Ricordatelo bene, nel caso ti venisse qualche altro dubbio in proposito. 
Ti amo,
Ennis.
P.S.:
NON TI ARRABBIARE se ho gareggiato al tuo posto senza dirti niente. Perdonami, ma se te l'avessi detto, so che me l'avresti impedito.
In ogni caso, ho riportato a casa la pelle, e abbiamo vinto il primo premio. Forse siamo una coppia un pò strana, ma insieme funzioniamo bene, non trovi?
E NON TI ARRABBIARE se ti ho portato dei fiori. Non è certo perché ti considero una donna. E' perché so che ti piace la lavanda, e questa camera puzza da schifo.
E.

"Ti amo anch'io, Ennis", mormorò Jack, sorridendo. Gli scritti di Ennis erano sempre contorti, proprio come lui, ma arrivavano dritti al punto. "Gran figlio di puttana di un contaballe."


Nota: Questo è il seguito di "Father, son". E' stato decisamente più divertente da scrivere, soprattutto la parte del rodeo e quelle in cui Ennis ha a che fare con David Hackman. I protagonisti sono ormai completamente diversi dai due rudi e rozzi cowboys della Proulx - ma anche quelli del film, in confronto, sono abbastanza edulcorati. I miei sono ancora più "dolci"...
Forse uno dei punti è questo: io ho sempre cercato di tenere presente il fatto che i due protagonisti sono appena ventenni. Per quanto maturi, per quanto a quell'età negli anni '60 si venisse già considerati uomini, i "miei" Ennis e Jack sono ancora due ragazzi, e come tali si comportano.
E altro nodo più che fondamentale: qui vivono insieme, e questo cambia tutto, anche dentro di loro: al contrario del romanzo/film, Ennis riesce ad ammettere e in parte accettare la propria vulnerabilità, mentre Jack, che non ha bisogno di cercare Ennis in altri uomini, si può permettere di fare il donnaiolo...

Senza nulla togliere allo scarno e tragico, ma stupendo racconto di A.P., chiaramente. Io non sono una scrittrice, la mia è solo un'interpretazione personale: se il racconto originale non mi avesse colpita in questo modo (persino più del film), non avrei mai scritto niente.

29/08/2008: Un grazie a chi ha letto, e un doppio grazie a chi recensisce. Avevo in mente un'ultima storia, su come i "nostri", ormai gestori di un ben avviato ranch in proprio, diventano genitori adottivi del figlio di una certa Cassie Cartwright, cameriera nel locale che frequentano abitualmente, il Wolf's Ear, sedotta e abbandonata (e incinta e licenziata) dal proprio capo... ma il 13 dello scorso mese sono diventata mamma di Tommaso (dopo una gravidanza disastrosa, in cui sono dimagrita di 7 chili: ero a casa dal lavoro, e per questo ho scritto tanto. Per fortuna poi il parto è andato che meglio non si poteva, e Tommy è sanissimo e bellissimo, giusta ricompensa a nove mesi di patimenti), e di tempo ne ho davvero poco - e quando ne ho, francamente, preferisco occuparmi dei miei due cani e delle mie quattro gatte, e fare un pò di sport...

Credits: "Thunderbird" è un pezzo di Hans Zimmer, dalla colonna sonora di "Thelma e Louise".

Disclaimer: I personaggi di Jack Twist, di Ennis del Mar e dei suoi fratelli e di Earl (Bowers), appartengono ad Annie Proulx.
Se qualcuno riconoscesse nella mia storia idee che ritiene di sua proprietà, mi creda se gli dico che non l’ho fatto apposta, e spero non si offenda.
Infine, preciso che questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.


   
 
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