Per la mia Big Damn Table su Sirius Black di fanfic100_ita, che trovate qui, prompt
046, Stelle. Questa è la prima cosa nuova che ho scritto in questi
giorni appositamente per la BDT e spero sia gradevole.
suni
Il Cane e il Re
Sirius o Alpha Canis Maior,
volgarmente nota come la Stella del Cane, è la gemma più preziosa
nella costellazione del Cane Maggiore. Nota presso gli antichi egizi, che
basavano sul suo sorgere eliaco il loro calendario,
col nome di Isis, emanazione fisica del potere della
divinità, era ritenuta responsabile delle benefiche inondazioni del Nilo
nel periodo più caldo dell’anno. Per questo la calura è
comunemente definita come canicola – dal latino canicula
- e si ritiene dovuta alla sua influenza. Sirius è la stella più
luminosa del cielo notturno e costituisce uno dei tre vertici del triangolo
invernale, asterismo consistente in una conformazione geometrica particolarmente
riconoscibile, insieme a Alpha Canis
Minor, o Procione, e Betelgeuse, spalla della
costellazione di Orione. […]
Regulus o Alpha
Leonis, conosciuta anche come il Cuore del Leone e
facente parte della costellazione omonima, era una delle quattro stelle reali
dei Persiani e veniva appunto definita da svariate popolazioni antiche come il
Re – tra gli altri i Babilonesi, i Greci, gli Arabi. La sua orbita la
porta spesso ad incrociare la posizione della Luna, dalla quale è sovente
occultata, ma da essa è stata individuata per la prima volta la
processione degli equinozi. Regulus è una
stella doppia, con una compagna meno visibile dotata del suo stesso moto
celeste e che è a sua volta in realtà composta da due astri
estremamente vicini e difficili da separare. […]
Lezioni mandate a memoria fin dalla più tenera
infanzia. Anche a trentasei anni, il giorno stesso della sua morte, Sirius
Black avrebbe ancora saputo ripetere ad occhi chiusi i dati esatti della
magnitudo della sua stella, della sua inclinazione sull’asse terrestre e
del suo moto nel corso dei secoli. Suo padre Orion aveva voluto che i propri
figli conoscessero la magnificenza degli astri di cui si pregiavano di portare
i nomi, per non dimenticare la gloria che entrambi avrebbero dovuto apportare
alla famiglia per onorarli.
Ricordava da sempre anche l’espressione
insoddisfatta e imbronciata di Regulus quando i suoi
occhi scorrevano sulle righe relative a Sirius, gemma più preziosa e stella
più luminosa del cielo notturno. Il minore si consolava, tuttavia,
quando era il momento di ripetere che Regulus veniva definita come il Re. La sua
vocina acuta di bambino si impennava con orgoglio su quel titolo importante e a
quel punto era lui, Sirius, a sbuffare di finta noia.
A volte gli era capitato di pensare che in quelle sessioni
di apprendimento astronomico fosse stato già disegnato perfettamente il
nucleo di tutto il loro rapporto.
Equiparavano le particolarità delle rispettive
stelle cercando di stabilire quale fosse la più ammirevole, ma era un
confronto già vinto in partenza. Quel stella più luminosa del cielo notturno eliminava sul nascere
ogni possibile rivendicazione di Regulus, che in
nulla poteva rivaleggiare con quel comparativo assoluto. All’epoca lui se
n’era vantato, gioendo della vittoria schiacciante che, ancora una volta
nell’astronomia come in ogni altro singolo aspetto dell’esistenza,
lo poneva su un gradino superiore rispetto al fratello cadetto.
Qualche volta, intorno ai suoi vent’anni, Sirius si
era fermato a riflettere sul corpo celeste di cui il fratello era depositario
del nome. Regulus, la stella duplice, il traditore
doppiogiochista che si era ribellato al suo Signore Oscuro.
Non seppe mai in che modo e per quali motivazioni avesse
compiuto quel gesto di rivolta. Si era sempre detto che la vigliaccheria fosse
stato il motore che l’aveva portato a ritornare sulle proprie scelte e
decidere di sottrarsi al cammino che aveva intrapreso, con la sprezzante
condiscendenza impietosa che usualmente gli riservava già negli anni
della scuola.
Una stella non autonoma, che necessitava di una compagna
per compiere il proprio moto. Non era mai stato capace, Regulus,
di agire in maniera autosufficiente. Da bambino era a partire da lui, il fratellone, che si orientava per affrontare
l’esistenza. E quando si diceva questo, Sirius volutamente dimenticava
quanto la cosa fosse stata reciproca.
Difatti aveva sempre ripetuto agli amici, con spregio, che
fin da che aveva memoria Regulus era stato una palla
al piede, una seccante propaggine non voluta che si attaccava a lui come un
parassita fastidioso. Aggiungeva, sorridendo malevolo, che la prova
irrefutabile risiedeva nel fatto che, una volta confrontato con l’azione
individuale, si fosse dimostrato quel debole che era rivelandosi incapace di
prendere posizioni nette e ondeggiando come una banderuola. Aveva etichettato
con freddezza la morte del fratello come una conseguenza naturale della sua
inettitudine.
Non si era dilungato oltre sull’evento. A chi aveva
azzardato domande, aveva semplicemente risposto che non era mai andato
d’accordo con Regulus e che sicuramente lui era
stato ben felice di diventare l’erede diretto della famiglia Black al suo
posto. Non aspettava altro, affermava, che scalzarlo per sentirsi finalmente
superiore, liberandosi da un giogo cui peraltro lui stesso si era a suo tempo
asservito.
Concludeva, con sufficienza, sostenendo che, basilarmente,
lui e Regulus si erano sempre odiati.
E se qualche debole pensiero contrastante gli si
affacciava inconsciamente alla mente, Sirius si ripeteva caparbio che si
trattava di dettagli insignificanti. Ferito indelebilmente nell’animo da
una rottura che aveva definito benefica e rigenerante, aveva classificato come
irrilevante tutto quel che riportava i suoi sentimenti verso qualunque Black
che non fosse Andromeda o suo zio Alphard
a qualcosa di differente dall’odio e dal disprezzo.
Definì la sua silenziosa e mai confessata presenza
fuori dal cimitero, il giorno del funerale del fratello, come un momento di
debolezza ridicola dovuto al periodo stressante e alla stremante partecipazione
alle attività dell’Ordine.
Catalogò la malinconia delle settimane successive
alla sua morte come una mattana derivante dal senso di solitudine che la guerra
opprimente e l’inevitabile distacco dagli amici, a loro volta assorbiti
dalla lotta, gli arrecava.
Poi si disse con noncuranza che era semplicemente la noia
delle giornate di eterna clausura a spingerlo, di tanto in tanto, a
scartabellare tra le cose che erano appartenute a Regulus
durante i troppo lunghi pomeriggi di isolamento a Grimmauld Place, mentre gli
altri membri del nuovo Ordine della Fenice agivano liberamente
all’esterno.
Giustificò la propria scelta di conservare i vecchi
scritti e alcuni effetti del ragazzo nella propria stanza, risparmiandoli dalla
pulizia sommaria e totale cui lui e Molly sottoposero la dimora di famiglia
liberandola da quasi tutto quel che era stato proprietà dei suoi, con la
scusa debole, ma in cui si impose di credere ciecamente, che gli sarebbero
serviti a sfogare la propria collera distruttiva quando il ricordo opprimente
degli anni cupi trascorsi con i familiari tra quelle mura si fosse fatto troppo
insopportabile.
Rise malignamente, adducendo la scusa della stanchezza e
della frustrazione, quando Remus una notte, seguendo la scia della luce accesa,
lo trovò immobile seduto sul letto che era stato del fratello e perso
nel rimirare il vuoto con espressione dolente, soltanto pochi giorni prima che
la morte lo cogliesse nell’Ufficio Misteri.
A quella spiegazione pronunciata con denigrazione Remus
dapprima non rispose. Si limitò soltanto a guardarlo negli occhi,
imperscrutabile, per alcuni lunghi secondi durante i quali Sirius non
poté che avvertire la vertigine angosciante della verità.
Poi il licantropo parlò, con la consueta mitezza.
“Non c’è niente di male, sai,”
commentò, senza distogliere lo sguardo. “Dopotutto era comunque
tuo fratello.”
Sorrise debolmente, quasi con imbarazzo, prima di voltarsi
e lasciarlo solo.
Sirius non respirò, per qualche secondo.
Poi forse fu la stanchezza, forse l’impotenza
accumulata, il rammarico, il senso di colpa devastante che da troppi anni lo
attanagliava o la consapevolezza dolorosa e ineluttabile di aver perso in un
modo o nell’altro, un po’ alla volta, quasi tutte le persone che
nella propria vita aveva amato, compreso secondariamente se stesso.
Lentamente, quasi senza rendersene conto, voltò il
capo verso la testa del letto e allungò delicatamente una mano –
magra, ossuta e rovinata – ad accarezzare timidamente il copriletto che
rivestiva il cuscino. Chiuse gli occhi istintivamente, mentre al di là
della stoffa i suoi polpastrelli ritrovavano con l’immaginazione la forma
sinuosa della nuca del fratello bambino, la consistenza serica dei capelli
appena più chiari dei suoi e la sporgenza armonica e sottile del suo
nasino dritto, sempre senza sollevare le palpebre.
La luce era spenta e lui tastava il buio a tentoni, mentre
Regulus piangeva sommessamente.
“Ho fatto un brutto sogno,” mormorava
atterrito. “Ho paura.”
La sua mano continuava a scivolare, gentile come lo era
raramente.
“Me lo racconti?” domandava lui sottovoce,
accoccolandosi meglio sull’angolo del letto. La testa di Regulus si muoveva bruscamente sotto le sue dita.
“No. Non voglio, mi fa paura,” rispondeva il
più piccolo con la sua vocina angosciata.
Lui sbuffava in silenzio, per non spazientirsi. Non era
molto comprensivo, ma era notte fonda e la paura del fratello rendeva inquieto
anche lui.
“Se li racconti, i brutti sogni, poi ti passa la
paura, me l’ha detto la mamma,” insisteva, e la sua mano scivolava
a stringersi delicatamente sulla spalla magra di Regulus
– e scivolava, con il medesimo movimento, a stringere il copriletto ormai
vuoto.
Il minore esitava, il respiro ancora rotto dal pianto.
“C’era…” iniziava pigolando.
“C’eravamo io, te e Cissy,”
proseguiva più fermamente, e Sirius lo incoraggiava aumentando
affettuosamente la stretta sulla sua spalla. “Ed eravamo...non lo so
dove, in una specie di bosco. Stavamo camminando e poi c’era…questo
rumore. Come una specie di ululato, ma diverso. Più cattivo e ruggiva.
Ci spaventavamo e cominciavamo a correre via per scappare, e diventava notte.”
Man mano che parlava, la sua voce si faceva più spezzata e terrorizzata,
e Sirius si ritrovava a chinarsi perché sentisse che era lì
vicino, e gli appoggiava la testa sulla schiena – e la appoggiava,
ugualmente, sul materasso freddo.
“E poi?” sussurrava, bonario.
“Continuava ad essere più vicino e si sentiva
che faceva rumore mentre camminava, era grosso e puzzava di cattivo. Correvamo
ed era sempre più buio,” riprendeva Regulus
ansiosamente. “Mi giravo e non c’eravate più. Vi chiamavo,
continuavo a chiamarti e a chiederti dov’eri ma ero solo e non sapevo
dove andare e correvo. E poi arrivava. Era un animale grande grande, alto come un albero, con dei denti lunghissimi,
aveva due teste ed era mezzo coperto di squame, mezzo di peli e aveva la bocca
sporca di sangue e io pensavo che vi aveva mangiati e che stava per mangiare
anche me,” aggiungeva, con un singhiozzo al quale lui reagiva riportando
la mano sulla sua testa. “E poi allungava una zampa e mi prendeva. Ho
urlato e sei arrivato tu,” concludeva, e c’erano nuove lacrime
nella sua voce.
Lui non aveva paura dei mostri, per quanto fosse singolare
per un bambino della sua età – gli piaceva annunciare ai grandi
che non aveva paura quasi di niente. Era sul punto di scoppiare a ridere e
motteggiare il fratellino ricordandogli che non esistevano animali del genere,
ma proprio in quel momento la mano di Regulus si
aggrappava a quella che lui aveva adagiato al suo fianco mentre l’altra
gli scorreva tra i capelli. Le dita del minore si allacciavano alle sue con
urgenza e Sirius non pensava più a prenderlo in giro. Era il suo
fratellino ed aveva paura.
“Vuoi che chiami la mamma?” mormorava
impacciato.
Di nuovo, la testa di Regulus si
muoveva in diniego.
“Non sono un fifone,” affermava tremulo,
tirando su col naso.
Lui sorrideva nell’oscurità – e sorrideva
a una stanza vuota – prima di sfilarsi le ciabatte con un calcio e farsi
largo contro il corpo del fratellino, tirando la coperta per infilarsi sotto.
“Magari sto qui,” ipotizzava, vago.
Regulus non rispondeva, evidentemente
perché l’idea lo tranquillizzava. Rimaneva accoccolato nel poco
spazio a disposizione senza parlare, la mano ancora avvinghiata a quella del
fratello grande, gli occhi sgranati ma il respiro più calmo.
“Non ci pensare più, Reg,”
lo invitava lui, in un bisbiglio. “Non esiste, quell’animale. Non
mangerà proprio nessuno.”
Regulus annuiva con un sospiro di
stanchezza, prima di sfregare il viso nel cuscino con sonnolenza.
“Tu non li fai, i brutti sogni?” domandava
più tranquillamente, riscaldato dal tepore del corpo amico al suo fianco.
Lui non esitava nemmeno per un istante, fiero e
smargiasso.
“No, mai,” affermava, mentendo.
“Mai mai?” insisteva
Regulus ammirato.
“Mai,” ripeteva lui con orgoglio.
Regulus sbadigliava rasserenato,
rannicchiandosi come poteva e appoggiando la testolina contro la sua spalla.
“Se ti succede chiamami e ti faccio
compagnia,” suggeriva, già biascicando.
Lui ridacchiava, mezzo divertito, mezzo contento.
“Ti farò sapere,” borbottava, iniziando
a sua volta ad assopirsi.
Regulus brontolava un ultimo assenso, e
poi era solo sonno, riposo e respiri rilassati.
La notte ritornava silenziosa e tranquilla, senza mostri,
urla o ululati, soltanto i due bambini addormentati.
“Ho fatto tantissimi brutti sogni, in tutti questi
anni, ma non c’era nessuno a farmi compagnia,” sussurrò Sirius
amaramente, la voce tremante di dolore represso.
“Hai detto qualcosa, Padfoot?”
lo riscosse da lontano la voce di Remus.
Sirius sgranò gli occhi di scatto, con un sussulto
di sorpresa.
La luce artificiale in cui era immersa la stanza deserta
faceva quasi male alle pupille, mentre abbassava lo sguardo sul letto vuoto e
ordinato sul quale era ancora seduto. Sbatté le palpebre un paio di
volte, prima di sollevare una mano con fastidio, e vergogna, per asciugarsi due
minuscole lacrime.
“No,” rispose a voce alta per farsi sentire,
rauco. “No, non ho detto niente.”
Scrollò la testa e prese fiato, mentre
l’espressione del viso ritornava all’inflessibile durezza ombrosa.
Si alzò dal materasso come se scottasse, stringendosi le braccia intorno
alle spalle con un moto di disagio. Piegando la testa verso il basso spense la
luce, prima di avviarsi a spalancare la finestra.
Si sporse al di là del davanzale, aguzzando la
vista per ritrovare, nel cielo troppo illuminato della metropoli, la traccia
che lo portava alle due stelle tanto note. Sirius risplendeva debolmente appena
al di sopra del tetto di un palazzo, ma Regulus non
era visibile. Continuò la sua vana ricerca, esaminando metodicamente
ogni palmo di firmamento accessibile, ma riconoscere la stella del Re non gli
riuscì. Forse era nascosta da qualche tetto, o forse in quel periodo era
coperta dalla luna, ad ogni modo nel cielo non la seppe trovare.
Ed era un cielo triste, incompleto.