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Autore: suni    10/05/2008    11 recensioni
Sirius e Regulus. La Stella del Cane e quella del Re.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sirius o Alpha Canis Maior, volgarmente nota come la Stella del Cane, è la gemma più preziosa nella costellazione del Cane Maggiore

 

Per la mia Big Damn Table su Sirius Black di fanfic100_ita, che trovate qui, prompt 046, Stelle. Questa è la prima cosa nuova che ho scritto in questi giorni appositamente per la BDT e spero sia gradevole.

suni

 

 

Il Cane e il Re

 

 

 

 

Sirius o Alpha Canis Maior, volgarmente nota come la Stella del Cane, è la gemma più preziosa nella costellazione del Cane Maggiore. Nota presso gli antichi egizi, che basavano sul suo sorgere eliaco il loro calendario, col nome di Isis, emanazione fisica del potere della divinità, era ritenuta responsabile delle benefiche inondazioni del Nilo nel periodo più caldo dell’anno. Per questo la calura è comunemente definita come canicola – dal latino canicula - e si ritiene dovuta alla sua influenza. Sirius è la stella più luminosa del cielo notturno e costituisce uno dei tre vertici del triangolo invernale, asterismo consistente in una  conformazione geometrica particolarmente riconoscibile, insieme a Alpha Canis Minor, o Procione, e Betelgeuse, spalla della costellazione di Orione. […]

 

Regulus o Alpha Leonis, conosciuta anche come il Cuore del Leone e facente parte della costellazione omonima, era una delle quattro stelle reali dei Persiani e veniva appunto definita da svariate popolazioni antiche come il Re – tra gli altri i Babilonesi, i Greci, gli Arabi. La sua orbita la porta spesso ad incrociare la posizione della Luna, dalla quale è sovente occultata, ma da essa è stata individuata per la prima volta la processione degli equinozi. Regulus è una stella doppia, con una compagna meno visibile dotata del suo stesso moto celeste e che è a sua volta in realtà composta da due astri estremamente vicini e difficili da separare. […]

 

Lezioni mandate a memoria fin dalla più tenera infanzia. Anche a trentasei anni, il giorno stesso della sua morte, Sirius Black avrebbe ancora saputo ripetere ad occhi chiusi i dati esatti della magnitudo della sua stella, della sua inclinazione sull’asse terrestre e del suo moto nel corso dei secoli. Suo padre Orion aveva voluto che i propri figli conoscessero la magnificenza degli astri di cui si pregiavano di portare i nomi, per non dimenticare la gloria che entrambi avrebbero dovuto apportare alla famiglia per onorarli.

Ricordava da sempre anche l’espressione insoddisfatta e imbronciata di Regulus quando i suoi occhi scorrevano sulle righe relative a Sirius, gemma più preziosa e stella più luminosa del cielo notturno. Il minore si consolava, tuttavia, quando era il momento di ripetere che Regulus veniva definita come il Re. La sua vocina acuta di bambino si impennava con orgoglio su quel titolo importante e a quel punto era lui, Sirius, a sbuffare di finta noia.

A volte gli era capitato di pensare che in quelle sessioni di apprendimento astronomico fosse stato già disegnato perfettamente il nucleo di tutto il loro rapporto.

Equiparavano le particolarità delle rispettive stelle cercando di stabilire quale fosse la più ammirevole, ma era un confronto già vinto in partenza. Quel stella più luminosa del cielo notturno eliminava sul nascere ogni possibile rivendicazione di Regulus, che in nulla poteva rivaleggiare con quel comparativo assoluto. All’epoca lui se n’era vantato, gioendo della vittoria schiacciante che, ancora una volta nell’astronomia come in ogni altro singolo aspetto dell’esistenza, lo poneva su un gradino superiore rispetto al fratello cadetto.

Qualche volta, intorno ai suoi vent’anni, Sirius si era fermato a riflettere sul corpo celeste di cui il fratello era depositario del nome. Regulus, la stella duplice, il traditore doppiogiochista che si era ribellato al suo Signore Oscuro.

Non seppe mai in che modo e per quali motivazioni avesse compiuto quel gesto di rivolta. Si era sempre detto che la vigliaccheria fosse stato il motore che l’aveva portato a ritornare sulle proprie scelte e decidere di sottrarsi al cammino che aveva intrapreso, con la sprezzante condiscendenza impietosa che usualmente gli riservava già negli anni della scuola.

Una stella non autonoma, che necessitava di una compagna per compiere il proprio moto. Non era mai stato capace, Regulus, di agire in maniera autosufficiente. Da bambino era a partire da lui, il fratellone, che si orientava per affrontare l’esistenza. E quando si diceva questo, Sirius volutamente dimenticava quanto la cosa fosse stata reciproca.

Difatti aveva sempre ripetuto agli amici, con spregio, che fin da che aveva memoria Regulus era stato una palla al piede, una seccante propaggine non voluta che si attaccava a lui come un parassita fastidioso. Aggiungeva, sorridendo malevolo, che la prova irrefutabile risiedeva nel fatto che, una volta confrontato con l’azione individuale, si fosse dimostrato quel debole che era rivelandosi incapace di prendere posizioni nette e ondeggiando come una banderuola. Aveva etichettato con freddezza la morte del fratello come una conseguenza naturale della sua inettitudine.

Non si era dilungato oltre sull’evento. A chi aveva azzardato domande, aveva semplicemente risposto che non era mai andato d’accordo con Regulus e che sicuramente lui era stato ben felice di diventare l’erede diretto della famiglia Black al suo posto. Non aspettava altro, affermava, che scalzarlo per sentirsi finalmente superiore, liberandosi da un giogo cui peraltro lui stesso si era a suo tempo asservito.

Concludeva, con sufficienza, sostenendo che, basilarmente, lui e Regulus si erano sempre odiati.

E se qualche debole pensiero contrastante gli si affacciava inconsciamente alla mente, Sirius si ripeteva caparbio che si trattava di dettagli insignificanti. Ferito indelebilmente nell’animo da una rottura che aveva definito benefica e rigenerante, aveva classificato come irrilevante tutto quel che riportava i suoi sentimenti verso qualunque Black che non fosse Andromeda o suo zio Alphard a qualcosa di differente dall’odio e dal disprezzo.

Definì la sua silenziosa e mai confessata presenza fuori dal cimitero, il giorno del funerale del fratello, come un momento di debolezza ridicola dovuto al periodo stressante e alla stremante partecipazione alle attività dell’Ordine.

Catalogò la malinconia delle settimane successive alla sua morte come una mattana derivante dal senso di solitudine che la guerra opprimente e l’inevitabile distacco dagli amici, a loro volta assorbiti dalla lotta, gli arrecava.

Poi si disse con noncuranza che era semplicemente la noia delle giornate di eterna clausura a spingerlo, di tanto in tanto, a scartabellare tra le cose che erano appartenute a Regulus durante i troppo lunghi pomeriggi di isolamento a Grimmauld Place, mentre gli altri membri del nuovo Ordine della Fenice agivano liberamente all’esterno.

Giustificò la propria scelta di conservare i vecchi scritti e alcuni effetti del ragazzo nella propria stanza, risparmiandoli dalla pulizia sommaria e totale cui lui e Molly sottoposero la dimora di famiglia liberandola da quasi tutto quel che era stato proprietà dei suoi, con la scusa debole, ma in cui si impose di credere ciecamente, che gli sarebbero serviti a sfogare la propria collera distruttiva quando il ricordo opprimente degli anni cupi trascorsi con i familiari tra quelle mura si fosse fatto troppo insopportabile.

Rise malignamente, adducendo la scusa della stanchezza e della frustrazione, quando Remus una notte, seguendo la scia della luce accesa, lo trovò immobile seduto sul letto che era stato del fratello e perso nel rimirare il vuoto con espressione dolente, soltanto pochi giorni prima che la morte lo cogliesse nell’Ufficio Misteri.

A quella spiegazione pronunciata con denigrazione Remus dapprima non rispose. Si limitò soltanto a guardarlo negli occhi, imperscrutabile, per alcuni lunghi secondi durante i quali Sirius non poté che avvertire la vertigine angosciante della verità.

Poi il licantropo parlò, con la consueta mitezza.

“Non c’è niente di male, sai,” commentò, senza distogliere lo sguardo. “Dopotutto era comunque tuo fratello.”

Sorrise debolmente, quasi con imbarazzo, prima di voltarsi e lasciarlo solo.

Sirius non respirò, per qualche secondo.

Poi forse fu la stanchezza, forse l’impotenza accumulata, il rammarico, il senso di colpa devastante che da troppi anni lo attanagliava o la consapevolezza dolorosa e ineluttabile di aver perso in un modo o nell’altro, un po’ alla volta, quasi tutte le persone che nella propria vita aveva amato, compreso secondariamente se stesso.

Lentamente, quasi senza rendersene conto, voltò il capo verso la testa del letto e allungò delicatamente una mano – magra, ossuta e rovinata – ad accarezzare timidamente il copriletto che rivestiva il cuscino. Chiuse gli occhi istintivamente, mentre al di là della stoffa i suoi polpastrelli ritrovavano con l’immaginazione la forma sinuosa della nuca del fratello bambino, la consistenza serica dei capelli appena più chiari dei suoi e la sporgenza armonica e sottile del suo nasino dritto, sempre senza sollevare le palpebre.

La luce era spenta e lui tastava il buio a tentoni, mentre Regulus piangeva sommessamente.

“Ho fatto un brutto sogno,” mormorava atterrito. “Ho paura.”

La sua mano continuava a scivolare, gentile come lo era raramente.

“Me lo racconti?” domandava lui sottovoce, accoccolandosi meglio sull’angolo del letto. La testa di Regulus si muoveva bruscamente sotto le sue dita.

“No. Non voglio, mi fa paura,” rispondeva il più piccolo con la sua vocina angosciata.

Lui sbuffava in silenzio, per non spazientirsi. Non era molto comprensivo, ma era notte fonda e la paura del fratello rendeva inquieto anche lui.

“Se li racconti, i brutti sogni, poi ti passa la paura, me l’ha detto la mamma,” insisteva, e la sua mano scivolava a stringersi delicatamente sulla spalla magra di Regulus – e scivolava, con il medesimo movimento, a stringere il copriletto ormai vuoto.

Il minore esitava, il respiro ancora rotto dal pianto.

“C’era…” iniziava pigolando. “C’eravamo io, te e Cissy,” proseguiva più fermamente, e Sirius lo incoraggiava aumentando affettuosamente la stretta sulla sua spalla. “Ed eravamo...non lo so dove, in una specie di bosco. Stavamo camminando e poi c’era…questo rumore. Come una specie di ululato, ma diverso. Più cattivo e ruggiva. Ci spaventavamo e cominciavamo a correre via per scappare, e diventava notte.” Man mano che parlava, la sua voce si faceva più spezzata e terrorizzata, e Sirius si ritrovava a chinarsi perché sentisse che era lì vicino, e gli appoggiava la testa sulla schiena – e la appoggiava, ugualmente, sul materasso freddo.

“E poi?” sussurrava, bonario.

“Continuava ad essere più vicino e si sentiva che faceva rumore mentre camminava, era grosso e puzzava di cattivo. Correvamo ed era sempre più buio,” riprendeva Regulus ansiosamente. “Mi giravo e non c’eravate più. Vi chiamavo, continuavo a chiamarti e a chiederti dov’eri ma ero solo e non sapevo dove andare e correvo. E poi arrivava. Era un animale grande grande, alto come un albero, con dei denti lunghissimi, aveva due teste ed era mezzo coperto di squame, mezzo di peli e aveva la bocca sporca di sangue e io pensavo che vi aveva mangiati e che stava per mangiare anche me,” aggiungeva, con un singhiozzo al quale lui reagiva riportando la mano sulla sua testa. “E poi allungava una zampa e mi prendeva. Ho urlato e sei arrivato tu,” concludeva, e c’erano nuove lacrime nella sua voce.

Lui non aveva paura dei mostri, per quanto fosse singolare per un bambino della sua età – gli piaceva annunciare ai grandi che non aveva paura quasi di niente. Era sul punto di scoppiare a ridere e motteggiare il fratellino ricordandogli che non esistevano animali del genere, ma proprio in quel momento la mano di Regulus si aggrappava a quella che lui aveva adagiato al suo fianco mentre l’altra gli scorreva tra i capelli. Le dita del minore si allacciavano alle sue con urgenza e Sirius non pensava più a prenderlo in giro. Era il suo fratellino ed aveva paura.

“Vuoi che chiami la mamma?” mormorava impacciato.

Di nuovo, la testa di Regulus si muoveva in diniego.

“Non sono un fifone,” affermava tremulo, tirando su col naso.

Lui sorrideva nell’oscurità – e sorrideva a una stanza vuota – prima di sfilarsi le ciabatte con un calcio e farsi largo contro il corpo del fratellino, tirando la coperta per infilarsi sotto.

“Magari sto qui,” ipotizzava, vago.

Regulus non rispondeva, evidentemente perché l’idea lo tranquillizzava. Rimaneva accoccolato nel poco spazio a disposizione senza parlare, la mano ancora avvinghiata a quella del fratello grande, gli occhi sgranati ma il respiro più calmo.

“Non ci pensare più, Reg,” lo invitava lui, in un bisbiglio. “Non esiste, quell’animale. Non mangerà proprio nessuno.”

Regulus annuiva con un sospiro di stanchezza, prima di sfregare il viso nel cuscino con sonnolenza.

“Tu non li fai, i brutti sogni?” domandava più tranquillamente, riscaldato dal tepore del corpo amico al suo fianco.

Lui non esitava nemmeno per un istante, fiero e smargiasso.

“No, mai,” affermava, mentendo.

“Mai mai?” insisteva Regulus ammirato.

“Mai,” ripeteva lui con orgoglio.

Regulus sbadigliava rasserenato, rannicchiandosi come poteva e appoggiando la testolina contro la sua spalla.

“Se ti succede chiamami e ti faccio compagnia,” suggeriva, già biascicando.

Lui ridacchiava, mezzo divertito, mezzo contento.

“Ti farò sapere,” borbottava, iniziando a sua volta ad assopirsi.

Regulus brontolava un ultimo assenso, e poi era solo sonno, riposo e respiri rilassati.

La notte ritornava silenziosa e tranquilla, senza mostri, urla o ululati, soltanto i due bambini addormentati.

“Ho fatto tantissimi brutti sogni, in tutti questi anni, ma non c’era nessuno a farmi compagnia,” sussurrò Sirius amaramente, la voce tremante di dolore represso.

“Hai detto qualcosa, Padfoot?” lo riscosse da lontano la voce di Remus.

Sirius sgranò gli occhi di scatto, con un sussulto di sorpresa.

La luce artificiale in cui era immersa la stanza deserta faceva quasi male alle pupille, mentre abbassava lo sguardo sul letto vuoto e ordinato sul quale era ancora seduto. Sbatté le palpebre un paio di volte, prima di sollevare una mano con fastidio, e vergogna, per asciugarsi due minuscole lacrime.

“No,” rispose a voce alta per farsi sentire, rauco. “No, non ho detto niente.”

Scrollò la testa e prese fiato, mentre l’espressione del viso ritornava all’inflessibile durezza ombrosa. Si alzò dal materasso come se scottasse, stringendosi le braccia intorno alle spalle con un moto di disagio. Piegando la testa verso il basso spense la luce, prima di avviarsi a spalancare la finestra.

Si sporse al di là del davanzale, aguzzando la vista per ritrovare, nel cielo troppo illuminato della metropoli, la traccia che lo portava alle due stelle tanto note. Sirius risplendeva debolmente appena al di sopra del tetto di un palazzo, ma Regulus non era visibile. Continuò la sua vana ricerca, esaminando metodicamente ogni palmo di firmamento accessibile, ma riconoscere la stella del Re non gli riuscì. Forse era nascosta da qualche tetto, o forse in quel periodo era coperta dalla luna, ad ogni modo nel cielo non la seppe trovare.

Ed era un cielo triste, incompleto.

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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