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Autore: Nero inchiostro    10/12/2013    2 recensioni
[...] Ci vollero pochi istanti perché vedessi il suo corpicino fragile cadere al suolo, tanto vicina a quelle scarpe laccate attaccate all’uniforme del suo assassino. Il suo cuore aveva semplicemente smesso di battere quando la sua manina aveva toccato la copertina del libro, una macchia si era espansa sul suo bel vestitino a fiori e lei era semplicemente morta, per salvare ciò che, di quegli ideali che ci avevano rubato, le rimaneva.
Genere: Romantico, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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98288


 

Mi trovavo lì, al buio, a pensare ancora una volta a che cosa fosse andato storto nella mia vita. Pensavo a quali orribili comportamenti io avessi avuto per ridurmi a vivere in quella maniera, se vivere si poteva chiamare. Che cosa avessi fatto per meritare una sorte come quella. Eppure pensavo anche, pensavo che poteva andare peggio.

Quella lì, Abigaille, Abigaille Danitti, le avevano sparato dritto in faccia sfigurando ciò che un tempo erano stati dei grandi occhi verdi. Non avevano notato la sua espressione di rimpianto, non le avevano concesso un ultimo bacio, un ultimo che per lei sarebbe stato il primo. Gioele la aspettava giù al fiume quella mattina e invece lei era lì ad aspettare che uno di quegli scimmioni in uniforme le sparasse dritto sul viso. Aveva ventiquattro anni e il sorriso di chi ancora ne voleva vivere almeno cinquanta, con Gioele. Ma lui non lo avrebbe mai saputo, a questo punto.

Non c’è poi da andare a pensare molto lontano, avrei potuto pensare a Dalila e alle sue manine soffici piuttosto che pensare ad una ragazza che in città conoscevo appena, ma la sua sparatoria mi aveva inciso una paura, così affondo, nelle ossa che se fossi sopravvissuta credo l’avrei ricordata per tutta la vita. Dalila era giovane, aveva all’incirca otto anni e due lunghe trecce nere, color dell’ebano. Non era una bambina vivace, non era come le altre, non rideva a sproposito, non si vaneggiava, lei leggeva molto e quando prendeva in mano uno dei suoi libri nessuno riusciva a distoglierla dall’attenzione che vi riponeva. Dalila era morta così, per uno dei suoi innumerevoli libri. Lo scimmione in uniforme l’aveva urlato ancora una volta di lasciare qualunque nascondiglio avessimo perché lui sapeva che eravamo lì, in quella sua lingua dura come l’acciaio che però lei comprendeva, Dalila era una bambina molto intelligente, lo riconoscevo anch’io. Be’ Dalila fece cadere il suo bel libro di poesie e non ci fu verso di fermarla dal buttarsi a riprenderlo. Il suo nascondiglio ormai era polvere, polvere come quella che rimase accanto al suo bel libro. Ci vollero pochi istanti perché vedessi il suo corpicino fragile cadere al suolo, tanto vicina a quelle scarpe laccate attaccate all’uniforme del suo assassino. Il suo cuore aveva semplicemente smesso di battere quando la sua manina aveva toccato la copertina del libro, una macchia si era espansa sul suo bel vestitino a fiori e lei era semplicemente morta, per salvare ciò che, di quegli ideali che ci avevano rubato, le rimaneva.

Mi passai le dita sulle mani e le sentii così ruvide, così piene di piccole crepe che credetti si stessero per sgretolare. Sul braccio ancora la cicatrice, infetta, di quello che doveva essere il mio nuovo nome. 98288, era il mio nuovo nome e faticavo così tanto a ricordarlo, così tanto a guardarlo che mi bastava non farlo ed essere picchiata quando mi chiamavano e non rispondevo.

Un giorno ero seduta per terra, il sole coceva come non aveva mai fatto in quelle lunghe settimane e mi godevo quel tepore assorbendo tutti i raggi solari che potevo, ero egoista in quel momento, li volevo tutti per me e faticavo a comprendere la gente che invece se ne stava all’ombra a piangere. Ad un tratto loro avevano bisogno di me e loro mi chiamavano, mi chiamavano a gran voce ma io non rispondevo. 98288, dicevano, urlavano, strillavano ed io me ne stavo ancora con gli occhi chiusi, il viso verso il sole, la mente altrove. 98288, ripetevano e, ad un tratto, aprii gli occhi, abbassai lo sguardo e compresi che 98288 ero io. Mi presero a calci, schiaffi in pieno volto che mi fecero perdere un dente e molto sangue e mentre incassavo tutto quel dolore al suon di urla naziste Zaccaria mi guardava. Se ne stava seduto, all’ombra di uno dei molti prefabbricati, sussultava ad ogni pugno che mi veniva dato, piangeva sempre di più ad ogni parola che mi stava ferendo, in silenzio. Tutto in religioso silenzio, il silenzio del terrore, paura liquida che gli scendeva dagli occhi, avrei bevuto le sue lacrime se solo fosse servito a risparmiargli tutta quell’angoscia.

Un tempo Zaccaria ed io ci eravamo amati in silenzio. Trovavo le sue poesie nelle cassette delle lettere, fiori essiccati dentro biglietti colorati. Lui trovava i miei disegni appoggiati nel cestino della sua bicicletta, sul davanzale della finestra del suo appartamento al piano terra. La prima volta che lo vidi fu in un giorno di dicembre, ricordo che il freddo pungente dell’inverno era accompagnato da un vento fastidioso. Odiavo andare in giro con quel tempo, ma dovevo assolutamente comprare un regalo per Dalila e la libreria era assai distante da casa nostra, decisi comunque di andare a piedi. Sulla via del ritorno però la mia sciarpa prese il volo, depositandosi ai piedi un giovane. Zaccaria era ebreo, avevano fatto mettere anche a lui la stella sulla camicia, io la trovavo carina ma il babbo si lamentava spesso che era un affronto alla nostra cultura, che presto ci avrebbero fatto fuori tutti ma io non ci credevo. Zaccaria semplicemente raccolse la sciarpa e me la diede, quegli occhi scuri mi si impressero nella mente, quelle sue mani grandi appena sfiorarono le mie ma ricordai perfettamente il tocco leggero sulle dita, l’aria che si spostava per il gesto che sferzò il dorso della mia mano mi parve così dolce, così patetico forse pensarci che iniziai a ridere nervosamente.

“Mi dispiace”, gli dissi.

“Non ti preoccupare”, mi rispose.

Quelle furono le uniche parole che ci scambiammo, da quel giorno a quello in cui mi picchiarono per la prima volta passarono due anni. In quei due anni avevo vissuto la più intensa storia d’amore che avessi mai avuto, in silenzio. Solo il profumo delle sue rose, le viole, le orchidee,  la forza delle eterne rose di gerico, i colori dei miei dipinti, i ritratti, la carta da lettere e tutto quell’inchiostro che speravo, un giorno, si tramutasse in parole. Ma non successe mai. Non mi parlò nemmeno quel giorno che sputai sangue sul terreno.

E mi ritrovavo lì al buio, a pensare, pensare. Quella era l’unica attività che non ci era proibita, pensare, sognare. Ad un tratto però smisi di pensare perché ebbi un’illuminazione, un flash improvviso. A volte capita di essere presa dal flusso di pensieri e in quel flusso trovarci un pensiero che avevi dimenticato, accantonato o che nemmeno avevi mai avuto. Ebbene in quel flusso trovai la consapevolezza che sarei dovuta correre dall’uomo che amavo ed urlare, a pieni polmoni, che lo amavo, lo amavo. Zaccaria mi avrebbe penetrato l’anima con quei suoi occhi scuri e sarebbe stato come farci l’amore, avrei preso poi i miei pugni, le mie botte ma ad ogni rivolo di sangue avrei pensato che era per lui, per l’uomo che ora sapeva che l’amavo e sarei potuta anche morire.

Sorrisi e quel sorriso mi riscaldò il cuore. Ne ero sicura, gli scimmioni ci avevano messi tutti in uno spogliatoio, puzzavamo, dicevano. Ma io ero convinta, non mi sarei persa d’animo anche se fossero passati dei mesi: sarei andata da Zaccaria subito dopo aver fatto la doccia.

 

[Parole: 1.191]

 

 

   
 
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