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Autore: amy_m88    12/12/2013    0 recensioni
Acqua. Diluvio.
Lei era indecisa se entrare nel locale che offriva cibo, bibite e tavolini a chiunque avesse varcato la soglia; o rimanere sotto la pioggia estiva, passeggiando tra salite e discese.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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COSA CI RIMANE
 
Acqua. Diluvio.
Lei era indecisa se entrare nel locale che offriva cibo, bibite e tavolini a chiunque avesse varcato la soglia; o rimanere sotto la pioggia estiva, passeggiando tra salite e discese. Alle sue spalle colline e mare, davanti a sé un locale che offriva consumazioni gratuitamente.
L’ombrello, che riprendeva il colore del cielo sereno, non avrebbe avuto problemi a ripararla da quelle quattro gocce. I temporali estivi sono brevi, si sa. I suoi piedi, però, chiedevano una sosta. Supplicavano che si fermasse affidandosi all’alleanza con il senso di fame che cominciava a farsi strada: i tramezzini di tre ore prima erano già stati dimenticati.
Erano passate da poco le undici di un sabato sera. Scusandosi con l’ombrello, prese posto nel locale.
Il ragazzo dietro il bancone le passò una lattina di Coca-Cola, scegliendo una Sprite da 0,5 l per lui.
“Pochi minuti e avrai la tua pizza!” le disse alzando il pollice.
Pochi minuti e avrebbe avuto la sua pizza! Annuì e sospirò.
 
Estate. Finalmente era tornata. La stagione della sua adolescenza. Sì, perché negli ultimi anni era stata la spettatrice di molti suoi cambiamenti, di tutti i suoi cambiamenti. No, non era stata essenziale, solo importante! Molto importante!
Estate, tre mesi. Un mese. Una ventina di giorni. Ventiquattro giorni. Ventiquattro miseri giorni avevano cambiato tutto. Avevano cambiato lei. Emozioni contrastanti si presentavano sempre più spesso, da quel giorno. Un giorno di dieci anni prima.
No, non erano ragione e sentimento. Le sorelle Dashwood erano ancora lontane. Jane Austen non era ancora entrata nella sua vita. Erano solo emozioni, che volevano esprimersi senza poterlo fare. Quel sentimento era proibito, per lei. Avrebbe voluto lottare per quel sentimento. Non poteva. Si sarebbe scontrata contro ogni logica, senza incontrare Mirko. Non poteva. Qualcosa glielo impedì quell’anno, come negli anni successivi.
Ora, era passato un decennio.
Mezzanotte meno un quarto. Undici e quarantacinque di un sabato sera.
Era in vacanza da dodici ore. Dodici ore prima l’aereo proveniente da Fiumicino, dall’aeroporto Leonardo Da Vinci, aveva terminato la manovra di atterraggio. All’una meno un quarto, aveva già dato le indicazioni al tassista per raggiungere il paesino sperduto sulle colline conosciuto da pochi. No, non si trattava di una forma di oligarchia. Semplicemente se ne ignora spesso il nome.
Adesso era seduta nel locale. Il loro bar. Loro.
Erano presenti nel giorno dell’inaugurazione, loro. Le serate iniziavano sempre lì, chi arrivava prima occupava un tavolo. Sempre e solo lì, anche quando lui era tornato dopo due anni di assenza.
Sorrise, prese le posate, e tagliò il primo trancio di pizza. Buon appetito dearling!
 
Il giorno seguente lui aveva fatto colazione con una tazza di caffè, cinque fette biscottate con burro e marmellata e un bicchiere di succo di frutta alla pesca.
Erano le nove e quarantacinque, sarebbe dovuto essere al mare. Passava molte ore in spiaggia. In quel momento avrebbe potuto essere nel mezzo di un’esplorazione delle coste tanto amate con il suo migliore amico, se quest’ultimo non avesse rimandato il tutto a data da destinarsi per motivi di salute. Peggio di una partita sospesa per neve, traditore.
Si alzò, si avvicinò al lavandino, lavò la sua tazza, i due piattini rossi e rimise la confezione di biscotti nella credenza.
La porta aperta lo rendeva partecipe dei discorsi dei passanti. Discorsi forse ripetitivi, ma sempre piacevoli. Era uno degli aspetti che preferiva di più. Non impicciarsi. Sentirsi partecipe della vita in paese. Ventiquattro giorni erano davvero troppo pochi per qualificarli vacanza. Ventiquattro giorni tra colline e mare non erano solo vacanza.
Un’ora dopo uscì. La spesa non aveva le gambe. Doveva andare lui, volente o nolente.  Nolente, perché, lo sapeva, avrebbe dovuto rispondere ad ogni minima curiosità della negoziante ( e di tutti i clienti). Troppo curiosi a parer suo, ma erano usanze all’antica. E quel paesino era antico eppure sempre nuovo.
“Buongiorno caro, rieccoci!” la donna dietro il bancone sfoderò il suo miglior sorriso. Ecco, anche l’uso della prima persona plurale. Annuì accennando un saluto. Rieccoci. Riuscivano a farlo sentire in una grande famiglia. Perché in fondo era così. Erano tutti una piccola grande famiglia. Una sola famiglia. Non di sangue. Tutti sapevano tutto. Tutto era spesso niente. Tutti sapevano. Tutti fingevano di non sapere. Tutto era affetto.
Si mise in fila e pagò due confezioni di penne lisce, una di acqua frizzante, e snack vari.    
Tornò a casa con i saluti per la famiglia da parte della negoziante e i clienti di cui non ricordava i nomi.
A mezzogiorno mise l’acqua sul fuoco e cominciò i preparativi per un fugace pranzo.
 
Erano trascorsi dieci anni dall’estate che le cambiò la vita, eppure sembrava che il tempo non passasse. Che si fosse fermato a quell’estate. Lei sapeva che avrebbe dovuto ringraziare il ragazzo senza il quale non avrebbe mai incontrato e conosciuto la persona che forse le era stata più vicina negli ultimi anni. Sì, ringraziare un amore proibito per l’amore che non dura una vita. Ma la cambia. Per sempre. Almeno così aveva letto sul retro di un libro. Q.P.G.A. Qui passarono Giulia e Andrea? No! Questo Piccolo Grande Amore, niente più di questo.
Erano le sedici e un quarto di domenica. Aveva appuntamento con un’amica che amava essere in ritardo. Alle sedici e trenta prese il cellulare e fece partire il primo squillo. Muoviti ad arrivare, non voglio avere incontri indesiderati. La tua presenza sarebbe ben accetta.
Alle sedici e trentadue le arrivò lo squillo di risposta. Sappiamo entrambe che vuoi avere l’incontro indesiderato. Comunque cinque minuti e sono da te.
Lo squillo spesso parlava più di un sms di tre pagine.
Un ultimo squillo di ringraziamento e sospirò. Sospiro sognante. Speranza.
Prese posto al tavolo numero 258 e attese.
 
Sedici e venticinque di domenica. Lui era diretto al solito bar per la solita uscita tra amici. Si erano dati appuntamento per le sedici e quarantacinque, ma non voleva rischiare. Preferiva l’anticipo al ritardo. Era un appuntamento tra amici. Nessuno avrebbe potuto dirgli qualcosa: criticarlo.
Alle sedici e trentacinque prese posto al solito tavolo, ordinò una Coca Cola alla spina e attese.
 
Alle sedici e trentasette lei alzò la mano in modo che la ragazza bionda la vedesse. Si salutarono e ordinarono due Fanta Zero in lattine da 33 cl.
“Puntuale come sempre!”
“You’re late dearling!”
“Sai che odio far aspettare le amiche!”
“Fosse solo questo..” insinuò avvicinando la lattina alle labbra. “Tu lo sai che è in questo locale?”
“Chi? Cosa stai blaterando..”
“Lui, il ragazzo che ci sta osservando da quando siamo entrate! O almeno, ha lo sguardo fisso su di te da quando ci siamo salutate!”
“Blateri!” ripetè la mora.
“Come preferisci! Ma pare sia uno sguardo ricambiato!”
Lei non rispose. Arrossì, senza una parola.
Ricambiato!
Come poteva essere così evidente? Eppure aveva scelto quel tavolo perché i loro sguardi non si incrociassero.
“Possiamo andare?”
“Certo!” anche se i suoi piedi non volevano allontanarsi da quella sedia.
“Ok, ancora cinque minuti!” assentì l’amica. “Ricordami di fare i complimenti al ragazzo misterioso dietro di te!”
“Come?”
“Lo sguardo perso! Sto facendo un monologo da quando ti ho fatto notare il Grande Fratello! Coinvolta come non ti ho mai vista!” tre punti. Coinvolta. “Devo fare i complimenti a quel ragazzo!”
“Abita nella mia stessa via. Mi piace da un po’! Parecchio! ”
“Si vede cherie!”
Si vede! Non fu sorpresa!
“Forse hai ragione! Meglio andare!”
Passarono il resto del pomeriggio tra le vie del bel paesino.
 
Alle sedici e cinquantacinque il ragazzo ordinò nuovamente una Coca Cola alla spina, media. Quando ritornò al tavolo lei non c’era più. Degli amici neppure l’ombra. Bevve il suo bicchiere e lasciò il conto sul tavolo, sapeva di potersi fidare.
Tornò a casa.
Lei! La ragazza semplice e con la testa sulle spalle. La ragazza enigmatica e misteriosa che tanto lo incuriosiva. Lei! La tipica ragazza della porta accanto. La ragazza che abitava a tre palazzi di distanza da lui. Lei! Le era mancata quella ragazza. Le era mancata in quei due anni. Quando la vide entrare nel locale, non poté non trasalire. Non era cambiata eppure non era più la stessa. Aveva qualcosa che non riuscì a definire. Si era seduta al tavolo 258, gli dava le spalle. Avrebbe potuto osservarla senza essere visto. Perché non lo aveva notato. O sì?
Si chiuse la porta della camera alle spalle accese il suo notebook, aprì la cartella Word, digitò la product key richiesta, e richiuse il tutto ventidue pagine di word dopo. Aveva riaperto quella cartella due anni dopo. Forse perché parlava di quello che era stato. Di quello che lui era stato. Di come lei avesse influenzato le sue estati. Perché lui provava qualcosa per la ragazza della porta accanto. Per la ragazza che abitava a soli tre palazzi di distanza. Anche se lui era di Londra e lei di Boston. Anche se avevano la possibilità di incontrarsi solo lì, in quel paesino sperduto tra le colline conosciuto da pochi. Il paese che sapeva di poter chiamare casa. Perché dove c’è qualcuno che ti pensa, lì c’è la tua casa. E in quel paesino c’era una persona che continuava a pensarlo. Lei.
 
Lei aveva inserito le chiavi nella serratura del portone, indecisa se salire o continuare a passeggiare.  Aveva passato il pomeriggio con Miss Late, si erano salutate da qualche minuto. Avevano passeggiato molto, ma la sua mente era rimasta in quel locale. Nei pensieri sempre lui. Il cellulare indicava che l’ora del the era passata da tre. Cena, sperando che quel senso di vuoto fosse dovuto esclusivamente alla fame. Preparò un’insalata di pomodori, aggiunse una mozzarella. Caprese. Fresca e veloce. Il senso di vuoto non era passato. Nonostante la frutta.
Il senso di vuoto imperterrito aumentava di minuto in minuto, doveva uscire. Doveva, ma pioveva. Ancora.
Si immerse letteralmente nel mondo svedese di Larsson. Si era affezionata a quei personaggi. Lisbeth, Mikael, Erika, Sonja. Ora che mancano solo cinquanta pagine, quasi si rifiutava di continuare. Non voleva finire. Non voleva chiudere definitivamente quel libro. Non voleva lasciare il mondo di Lisbeth Salander. Lisbeth. Ci aveva pensato solo due giorni prima. Lisbeth equivaleva a Elizabeth. Lis equivaleva a Lizzie. No, Mikael non uguagliava Fitzwilliam. Lisbeth Salander, però, era riuscita a farla commuovere e divertire. C’erano due soluzioni: o lei, ragazza ventiduenne, aveva una calamita per il nome Elizabeth; oppure amava incondizionatamente “the DNA of all romantic comedy” , come lo aveva definito Miss Meera Syal.
 
Quella sera la TV non trasmetteva nulla di interessante. Come ogni estate, programmazione equivaleva a repliche. Repliche su repliche. Nove minuti dopo stava aprendo il portone e decise di fare una visita. Una sorpresa, forse gradita.
A tre palazzi di distanza lei stava leggendo del più odioso e arrogante uomo presente sulla faccia della Terra. Il sorriso che tendeva le sue labbra avrebbe potuto essere considerato il sorriso più stupido, più futile, più ebete che si potesse vedere sulla faccia di qualsivoglia persona. Stupida, non si presenterà! Smettila di sognare! Le labbra tese al massimo e un dlin dlon che le fece sperare.
“Scusa l’ora!” si presentò così, come fosse stato un vampiro. Immobile, come se la padrona di casa dovesse dichiarare una precisa formula perché potesse varcare la soglia. 
“Prego! Può entrare in casa!”
Due passi incerti, come se avesse timore di finire bruciato. Quattro passi incerti, per paura della sua reazione.
“Non ti mangio, tranquillo!” rassicurò lei, chiudendo la porta.
“Non è questo è che…” si bloccò all’istante.
Si sentì osservata, ancora.
Speranza, ancora.
“Che ore sono?”
“Le undici e  dieci!” rispose lui senza distogliere lo sguardo.
“Le undici e dieci!” ripetè lei senza voltarsi.
“Beh, adesso sono le undici e undici!”
“Ovvio! Il tempo passa!”
“Sì!”
“Ne è passato troppo, vero?” chiese con le lacrime agli occhi per chissà quale ragione. Lo sapeva, sapeva di aver perso tempo, inutilmente.
“No!” fu invece la risposta. Il ragazzo le accarezzò la guancia. “No!” ripetè, abbracciandola.
Lei diede libero sfogo alle lacrime. Perché, aveva letto, quando si ha voglia di piangere, si deve piangere. Se vuoi piangere, piangi!
 
Un caffè dopo lei aveva tra le mani un album fotografico.
Un caffè dopo lui si tolse la giacca, rimanendo in camicia e jeans.
 
No. Non era tardi per lui. Non era tardi per lei. Eppure lei continuava a guardare delle fotografie di estati andate. Lui era rimasto in camicia, interessato all’album quanto lei.
 
“Piove!” notò la ragazza. “Rimani qui stanotte!”
“D’accordo!” accettò lui, tranquillamente. Senza malizia.
 
La loro attenzione ritornò alle fotografie.
 
“Cosa ci rimane?” una domanda semplice, ingenua forse.
“Io e te! Ciò che diventeremo!”
   
 
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