Dedicato
ad Agito, che ha creato con me
personaggi irripetibili. Per il tuo compleanno cara. Anche se è ancora lontano,
è meglio premunirsi xD
Stella
Capricciosa
Parte
I: Rice Star
Rice
Star era chiamato da tutti “Stella Capricciosa”. Non in sua presenza,
ovviamente; tutti avevano un po’ paura di lui. Non perché fosse particolarmente
alto o minaccioso. Semplicemente era diverso. Rice Star era cieco. Un giorno uno
sconosciuto nel parco dietro la scuola lo aveva colpito con violenza alla testa
con un bastone. Rice non sapeva il motivo. Non conosceva quell’uomo, e quindi
neanche cosa lo avesse spinto a farlo. L’ultima cosa che aveva visto erano stati
gli occhi di quell’uomo: lucidi e privi di qualsiasi rimorso. Da quel momento la
sua luce si era spenta, e lui aveva capito, a soli cinque anni, quanto oscuro e
profondo può essere l’animo umano.
Da
allora il suo era stato un mondo fatto di suoni ed odori, di sensazioni tattili
e pensieri. Pensava molto, Rice. Tanto che alle volte gli faceva male la testa.
Pensava ai “come”, ai “quando” e “perché”. Pensava ai “chi”. Di solito non
giungeva a nessuna vera risposta, anche se come essere incompleto aveva una
visione molto più ampia delle persone ‘normali’. Rice non vedeva, ma al tempo
stesso scorgeva dettagli che nessuno notava. Rice era stato un ragazzo allegro;
ora quell’emozione si era spenta in lui, come l’amore o l’odio. Non provava più
nulla. O Quasi.
Rice
portava sempre un cappello in modo da coprire gli occhi, e i capelli lunghi
stretti in una coda per lo stesso motivo. Per orgoglio, non usava occhiali neri
o un bastone, sapeva dove andare e come arrivarci contando semplicemente i
passi. Cinque per andare dalla camera al bagno, settantacinque per arrivare a
scuola e altri tredici per arrivare in classe. Sbagliare o dimenticare non erano
opzioni nel mondo di Rice.
Il
primo che lo chiamò “Stella Capricciosa” fu un bambino alle elementari. Rice era
cieco da un anno, e ogni giorno l’aveva di quei terribili dodici mesi l’aveva
speso a piangere. Se qualcuno tentava toccarlo, urlava. Se gli urlavano contro,
si stendeva sul pavimento e batteva i pugni fino a farsi male. Tuttavia dovevano
spostarlo di peso, poiché il suo corpo sembrava aver dimenticato come si
camminava o parlava; era regredito allo stadio di un infante.
Un
giorno un bambino, come solo i bambini possono fare, lo prese per i capelli nel
mezzo di una crisi e gli urlò di smetterla
“Smetti di fare i capricci!
Capriccioso, capriccioso, Stella Capricciosa!” e così il nome gli rimase. Lui
stette in silenzio, stupito, per la prima volta da mesi senza piangere o urlare.
Poi gridò, un grido lungo e prolungato che da animalesco diventò quasi umani, e
si lanciò contro il bambino. Non vedeva dove colpire, e così faceva a casaccio,
ma sapeva già distinguere un odore da un altro, o un suono. E così prima che la
maestra li separasse Rice era riuscito a ferire l’occhio dell’altro bambino.
David Moon non diventò cieco come il compagno, ma per tutta la vita una pallida
cicatrice lo sfregiò in volto, risaltando contro la pelle perennemente
abbronzata.
Qualche
giorno dopo il litigio, David si avvicinò a Rice, che giocava da solo in un
angolo, e si sedette accanto a lui rimanendo a fissarlo in silenzio per lunghi
minuti. Rice, consapevole della presenza dell’altro, non disse nulla. Infine
David si avvicinò all’altro, e appoggiando il viso nell’incavo del suo collo,
inspirò a lungo un paio di volte prima di mormorare
“Sai di buono, Stella
Capricciosa.”
Quella
fu l’inizio della loro amicizia.
Molti
anni dopo, quando entrambi frequentavano le superiori, Rice non aveva più quelle
crisi di rabbia incontrollata. Era diventato un ragazzo silenzioso, praticamente
invisibile, senza alcun segno di distinzione se non il suo difetto fisico. Il
bambino che era stato, era morto quando quell’uomo, secoli prima, aveva sferrato
quell’unico colpo violento. Spazzato via senza un perché.
Nessuno
lo conosceva o lo considerava; invisibile, scivolava come un’ombra attraverso
una moltitudine di vite diverse, prendendo da tutte un pezzetto ma senza dare
nulla, poiché nessuno gli chiedeva nulla.
Solo
David lo vedeva. Era diventato un bel ragazzo, alto e allenato dal football,
popolare tra le ragazze, un po’ stupido e spaccone. Un normale, stereotipato
ragazzo con il dono di vedere l’invisibile.
“Ciao
Stella” lo salutava, puntuale all’uscita della scuola in un copione recitato
migliaia e migliaia di volte, togliendogli lo zaino dalle spalle e mettendo un
braccio attorno alle sue spalle esili. “Com’è andata la giornata?” e
quell’unica, banale domanda riusciva a portare Rice fuori dal suo mondo di
silenzio, scatenando un fiume inarrestabile di parole, sospiri, lamentele o
appunto, capricci. David ascoltava, stranamente paziente, guidando l’altro
attraverso le strade e i vicoli della città, portandolo a conoscere un mondo
altrimenti a lui sconosciuti. Rice si perdeva ben presto nell’ignoto, ma non
aveva paura.
Poi,
ad un certo punto delle loro passeggiate, David lo conduceva dietro qualche
muro, dove prepotentemente lo bloccava con il suo corpo e lo abbracciava in modo
più intimo. Come tanti anni prima, affondava il viso nell’incavo del suo collo,
fra i capelli o nei vestiti, e lo annusava come un animale con un altro
animale e infine sussurrava
“Sai
di buono, Stella Capricciosa”
Solo
una volta, quando erano in quello stadio della vita dove non si è più bambini,
ma non ancora adulti, mentre dietro il vicolo di un ristorante cinese (Rice
poteva percepire l’odore caratteristico di pesce provenire dai bidoni della
spazzatura) David lo annusava lentamente, assaporandolo quasi, impiegando più
tempo del solito, le loro labbra si erano misteriosamente sfiorate. Se fosse
stato un caso o un atto voluto, Rice non avrebbe saputo dirlo; ma ricordava
perfettamente quegli interminabili secondi in cui le labbra dell’altro avevano
sfiorate le sue, succhiandole e mordendole, con rabbia, ferocia e passione. Poi
si era distaccato, stringendolo a se ancora più strettamente, con disperazione.
In seguito, avevano intrapreso la solita strada verso casa. Non ne avevano più
parlato.
Capitava
alle volte che David senza preavviso, invece di riaccompagnarlo lo portasse di
nascosto a casa sua. Rice se ne accorgeva quando superavano il numero di passi
prestabilito per il corso da scuola a casa, ma non diceva mai nulla. La madre di
David lo salutava cordialmente, ma con una nota stonata nella voce. Come tutto
il resto del mondo, a parte David, non sapeva mai come comportarsi con lui.
Inoltre, nelle sue parole c’era sempre un sottofondo greve, come se
continuamente domandasse Perché un
ragazzone sano come il mio Davy tiene tanto a te, un cosino denutrito e storpio?
Comprensibile
in fondo, da una donna che di ragazzoni ne aveva partoriti sette, tutti robusti
e sani. Dopo la madre di David, con il suo profumo caratteristico di farina e
sapone, c’era la sua camera; quella stanza stretta e calda, perennemente
disordinata come un percorso ad ostacoli creato appositamente per lui,
impregnata ovunque dell’odore del suo proprietario, un misto di muschio e
dopobarba che sapeva vagamente di sudore. Un’essenza di uomo adulto che il corpo
dell’altro aveva cominciato ad emanare fra i tredici e i quattordici anni,
lasciandolo confuso e amareggiato. Era successo più o meno nel periodo in cui il
corpo aveva cominciato a cambiare, diventando più alto, imponente, fortificato
dallo sport e pieno di salute. Rice invece era rimasto indietro, come se il non
vedere pregiudicasse la sua crescitA relegandolo ad uno stato di eterno bambino.
Infondo, un adulto sarebbe stato solo; invece tutti si sentivano in obbligo di
aiutare un bambino, specie se cieco. Nessuno lo avrebbe
abbandonato.
Quando
arrivavano nella sua stanza, David che lo aveva sempre tenuto stretto a sé per
non farlo cadere, lo depositava delicatamente sul letto e lo lasciva lì mentre
compiva i gesti abituali. Riceva sentiva il fruscio degli abiti quando si
cambiava, l’aroma di pesca e limone quando usciva dalla doccia, le urla dei suoi
fratelli che entravano senza bussare e si bloccavano vedendolo lì, come un
soprammobile fuori posto rispetto all’ambiente.
Ovviamente
David gli parlava; chiacchiere senza senso perlopiù. Ma una volta, come una
provocazione buttata a caso, gli aveva domandato
“Tu
non hai mai visto il mio volto, vero Stella? Eri già cieco quando ci siamo
incontrati.” Rice annuì, pensoso. Poi dopo alcuni minuti di silenzio
aggiunse
“Non
ho mai visto il tuo viso, ma posso immaginarlo. Hai una cicatrice sull’occhio
destro, e questo lo so perché te l’ho fatta io. La mascella squadrata, il naso
dritto e regolare, le sopracciglia folte e una barbetta quasi perenne. Te la fai
solo la domenica e il mercoledì. I capelli sono corti, e hai un orecchino al
lobo destra a forma di dente di squalo. Infine hai le labbra grandi” mormorò
arrossendo “e la pelle è sicuramente sempre abbronzata.”
“Wow” commentò David
“E’ incredibile”
“Quando
non ci vedi, impari molti altri modi per conoscere il
mondo”
La
cena trascorreva in un’atmosfera di sfrenata allegria; sette fratelli maschi
insieme ad una tavola la rendevano una battaglia continua senza vincitori. David
si premurava di riempire il piatto di Rice, anche quando non richiesto,
sostenendo che se non mangiava sarebbe sicuramente morto di inedia. Rice sedeva
in mezzo alle battaglie con le molliche di pane, alle urla e al cibo
sovrabbondante, come se facesse effettivamente parte di quell’ambiente ma senza
far notare la sua presenza: era una fantasma.
Di
notte, nella casa, non c’era mai silenzio. Ogni tanto i due enormi cani che
leccavano sempre Rice abbaiavano, dalle camere a fianco proveniva il rumore
degli altri sei fratelli o i suoni di chi era ancora sveglio.
David
lo avvolgeva in una delle sue enormi maglie della divisa della squadra di
football – Rice sospettava perché così il suo odore sarebbe rimasto impresso nel
tessuto – e lo stringeva fra le braccia schioccandoli un bacio in fronte prima
di mormorargli “Buona notte Stellina”.
Poi
calava il silenzio.
Questo
era il momento della giornata in cui Rice sperimentava il significato della
parola “paura”. Senza rumori, il mondo era ancor più sconosciuto e quindi
potenzialmente pericoloso. Ma il calore dell’altro, il contatto fra i loro corpi
e il respiro lieve che gli sfiorava il volto lo tranquillizzavano e cadeva di
preda di un sonno senza sogni.
A
scuola facevano finta di non conoscersi quasi; appartenevano a gruppi diversi, o
meglio, David faceva parte dei fighetti della scuola, e Rice faceva gruppo da
solo. Ma entrambi non dimenticavano; loro sapevano. Cosa riguardava solo loro due, come un
segreto di cui nessun’altro era partecipe.
Avvenne
più o meno verso maggio, alla fine dell’anno scolastico, quando i raggi di sole
tornavano ad essere di nuovi caldi e Rice non doveva più preoccuparsi di
indossare troppi abiti per il verso giusto.
“Ehy
Stellina Capricciosa” lo salutò David sedendosi accanto a lui in un angolo del
cortile della scuola. Rice era stupito; era una novità che si parlassero
all’interno dell’edificio. “Si avvicinano le vacanze. Che ne dici di un
viaggio?” buttò là quasi a caso.
“Si, perché no” rispose beffardo il
ragazzino archiviando la cosa come l’ennesima stupidaggine. Lui, un cieco, che
intraprendeva un viaggio!
E
invece, eccolo solo un mese dopo, davanti alla porta di casa sua, che faceva
rumoreggiare il motore di una ducati mentre gli urlava di muovere quel culetto
secco e di posizionarlo dietro di lui.
“Ma
non ho preparato nulla.” Protestò debolmente Rice, che ancora indossava un
orrendo pigiama con le paperelle scelto da sua madre.
“Non
preoccuparti. Ho roba per tutti e due. Ho lasciato anche un biglietto ai tuoi.
Dai, vieni o ti lascio qui!” Rice avrebbe potuto mandarlo a quel paese, chiudere
la finestra e ficcarsi di nuovo sotto le coperte. Niente sarebbe successo, tutto
sarebbe rimasto immutato, casa, scuola, David.
Quindi non seppe mai
spiegarsi perché uscì di casa, vestito di tutto punto, e lasciò che l’altro gli
infilasse un pesante giubbotto di pelle, troppo grande per lui (“Sentirai freddo
altrimenti”) e un casco (“Così non ti rompi la testolina”), per poi posizionarlo
sul sedile di una grossa e sconosciuta moto dove si sentiva come un pesce fuor
d’acqua. Ma non aprì bocca, tranne che per un piccolo gridolino che gli sfuggì
quando l’altro con un “Reggiti forte!” e un’impennata azzardata partì lasciando
velocemente dietro di loro tutto il mondo sicuro e conosciuto che Rice si era
costruito con fatica negli anni.
No,
Rice non sapeva perché. Ma il vento che gli soffiava sulla faccia dandogli la
sensazione di volare nel suo mondo fatto di buio gli sembrò una risposta
sufficiente.
Fine Parte I
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