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Autore: Panssj    12/05/2008    4 recensioni
[...] ad un certo punto delle loro passeggiate, David lo conduceva dietro qualche muro, dove prepotentemente lo bloccava con il suo corpo e lo abbracciava in modo più intimo. Come tanti anni prima, affondava il viso nell’incavo del suo collo, fra i capelli o nei vestiti, e lo annusava come un animale con un altro animale, e infine sussurrava “Sai di buono, Stella Capricciosa”
Genere: Romantico, Triste, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Slash, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dedicato ad Agito, che ha creato con me personaggi irripetibili. Per il tuo compleanno cara. Anche se è ancora lontano, è meglio premunirsi xD

 

Stella Capricciosa

 

Parte I: Rice Star

 

Rice Star era chiamato da tutti “Stella Capricciosa”. Non in sua presenza, ovviamente; tutti avevano un po’ paura di lui. Non perché fosse particolarmente alto o minaccioso. Semplicemente era diverso. Rice Star era cieco. Un giorno uno sconosciuto nel parco dietro la scuola lo aveva colpito con violenza alla testa con un bastone. Rice non sapeva il motivo. Non conosceva quell’uomo, e quindi neanche cosa lo avesse spinto a farlo. L’ultima cosa che aveva visto erano stati gli occhi di quell’uomo: lucidi e privi di qualsiasi rimorso. Da quel momento la sua luce si era spenta, e lui aveva capito, a soli cinque anni, quanto oscuro e profondo può essere l’animo umano.

Da allora il suo era stato un mondo fatto di suoni ed odori, di sensazioni tattili e pensieri. Pensava molto, Rice. Tanto che alle volte gli faceva male la testa. Pensava ai “come”, ai “quando” e “perché”. Pensava ai “chi”. Di solito non giungeva a nessuna vera risposta, anche se come essere incompleto aveva una visione molto più ampia delle persone ‘normali’. Rice non vedeva, ma al tempo stesso scorgeva dettagli che nessuno notava. Rice era stato un ragazzo allegro; ora quell’emozione si era spenta in lui, come l’amore o l’odio. Non provava più nulla. O Quasi.

Rice portava sempre un cappello in modo da coprire gli occhi, e i capelli lunghi stretti in una coda per lo stesso motivo. Per orgoglio, non usava occhiali neri o un bastone, sapeva dove andare e come arrivarci contando semplicemente i passi. Cinque per andare dalla camera al bagno, settantacinque per arrivare a scuola e altri tredici per arrivare in classe. Sbagliare o dimenticare non erano opzioni nel mondo di Rice.

 

 

Il primo che lo chiamò “Stella Capricciosa” fu un bambino alle elementari. Rice era cieco da un anno, e ogni giorno l’aveva di quei terribili dodici mesi l’aveva speso a piangere. Se qualcuno tentava toccarlo, urlava. Se gli urlavano contro, si stendeva sul pavimento e batteva i pugni fino a farsi male. Tuttavia dovevano spostarlo di peso, poiché il suo corpo sembrava aver dimenticato come si camminava o parlava; era regredito allo stadio di un infante.

Un giorno un bambino, come solo i bambini possono fare, lo prese per i capelli nel mezzo di una crisi e gli urlò di smetterla
“Smetti di fare i capricci! Capriccioso, capriccioso, Stella Capricciosa!” e così il nome gli rimase. Lui stette in silenzio, stupito, per la prima volta da mesi senza piangere o urlare. Poi gridò, un grido lungo e prolungato che da animalesco diventò quasi umani, e si lanciò contro il bambino. Non vedeva dove colpire, e così faceva a casaccio, ma sapeva già distinguere un odore da un altro, o un suono. E così prima che la maestra li separasse Rice era riuscito a ferire l’occhio dell’altro bambino. David Moon non diventò cieco come il compagno, ma per tutta la vita una pallida cicatrice lo sfregiò in volto, risaltando contro la pelle perennemente abbronzata.

Qualche giorno dopo il litigio, David si avvicinò a Rice, che giocava da solo in un angolo, e si sedette accanto a lui rimanendo a fissarlo in silenzio per lunghi minuti. Rice, consapevole della presenza dell’altro, non disse nulla. Infine David si avvicinò all’altro, e appoggiando il viso nell’incavo del suo collo, inspirò a lungo un paio di volte prima di mormorare
“Sai di buono, Stella Capricciosa.”

Quella fu l’inizio della loro amicizia.

 

 

Molti anni dopo, quando entrambi frequentavano le superiori, Rice non aveva più quelle crisi di rabbia incontrollata. Era diventato un ragazzo silenzioso, praticamente invisibile, senza alcun segno di distinzione se non il suo difetto fisico. Il bambino che era stato, era morto quando quell’uomo, secoli prima, aveva sferrato quell’unico colpo violento. Spazzato via senza un perché.

Nessuno lo conosceva o lo considerava; invisibile, scivolava come un’ombra attraverso una moltitudine di vite diverse, prendendo da tutte un pezzetto ma senza dare nulla, poiché nessuno gli chiedeva nulla.

Solo David lo vedeva. Era diventato un bel ragazzo, alto e allenato dal football, popolare tra le ragazze, un po’ stupido e spaccone. Un normale, stereotipato ragazzo con il dono di vedere l’invisibile.

“Ciao Stella” lo salutava, puntuale all’uscita della scuola in un copione recitato migliaia e migliaia di volte, togliendogli lo zaino dalle spalle e mettendo un braccio attorno alle sue spalle esili. “Com’è andata la giornata?” e quell’unica, banale domanda riusciva a portare Rice fuori dal suo mondo di silenzio, scatenando un fiume inarrestabile di parole, sospiri, lamentele o appunto, capricci. David ascoltava, stranamente paziente, guidando l’altro attraverso le strade e i vicoli della città, portandolo a conoscere un mondo altrimenti a lui sconosciuti. Rice si perdeva ben presto nell’ignoto, ma non aveva paura.

Poi, ad un certo punto delle loro passeggiate, David lo conduceva dietro qualche muro, dove prepotentemente lo bloccava con il suo corpo e lo abbracciava in modo più intimo. Come tanti anni prima, affondava il viso nell’incavo del suo collo, fra i capelli o nei vestiti, e lo annusava come un animale con un altro animale e infine sussurrava

“Sai di buono, Stella Capricciosa”

 

 

Solo una volta, quando erano in quello stadio della vita dove non si è più bambini, ma non ancora adulti, mentre dietro il vicolo di un ristorante cinese (Rice poteva percepire l’odore caratteristico di pesce provenire dai bidoni della spazzatura) David lo annusava lentamente, assaporandolo quasi, impiegando più tempo del solito, le loro labbra si erano misteriosamente sfiorate. Se fosse stato un caso o un atto voluto, Rice non avrebbe saputo dirlo; ma ricordava perfettamente quegli interminabili secondi in cui le labbra dell’altro avevano sfiorate le sue, succhiandole e mordendole, con rabbia, ferocia e passione. Poi si era distaccato, stringendolo a se ancora più strettamente, con disperazione. In seguito, avevano intrapreso la solita strada verso casa. Non ne avevano più parlato.

 

 

Capitava alle volte che David senza preavviso, invece di riaccompagnarlo lo portasse di nascosto a casa sua. Rice se ne accorgeva quando superavano il numero di passi prestabilito per il corso da scuola a casa, ma non diceva mai nulla. La madre di David lo salutava cordialmente, ma con una nota stonata nella voce. Come tutto il resto del mondo, a parte David, non sapeva mai come comportarsi con lui. Inoltre, nelle sue parole c’era sempre un sottofondo greve, come se continuamente domandasse Perché un ragazzone sano come il mio Davy tiene tanto a te, un cosino denutrito e storpio?

Comprensibile in fondo, da una donna che di ragazzoni ne aveva partoriti sette, tutti robusti e sani. Dopo la madre di David, con il suo profumo caratteristico di farina e sapone, c’era la sua camera; quella stanza stretta e calda, perennemente disordinata come un percorso ad ostacoli creato appositamente per lui, impregnata ovunque dell’odore del suo proprietario, un misto di muschio e dopobarba che sapeva vagamente di sudore. Un’essenza di uomo adulto che il corpo dell’altro aveva cominciato ad emanare fra i tredici e i quattordici anni, lasciandolo confuso e amareggiato. Era successo più o meno nel periodo in cui il corpo aveva cominciato a cambiare, diventando più alto, imponente, fortificato dallo sport e pieno di salute. Rice invece era rimasto indietro, come se il non vedere pregiudicasse la sua crescitA relegandolo ad uno stato di eterno bambino. Infondo, un adulto sarebbe stato solo; invece tutti si sentivano in obbligo di aiutare un bambino, specie se cieco. Nessuno lo avrebbe abbandonato.

 

 

Quando arrivavano nella sua stanza, David che lo aveva sempre tenuto stretto a sé per non farlo cadere, lo depositava delicatamente sul letto e lo lasciva lì mentre compiva i gesti abituali. Riceva sentiva il fruscio degli abiti quando si cambiava, l’aroma di pesca e limone quando usciva dalla doccia, le urla dei suoi fratelli che entravano senza bussare e si bloccavano vedendolo lì, come un soprammobile fuori posto rispetto all’ambiente.

Ovviamente David gli parlava; chiacchiere senza senso perlopiù. Ma una volta, come una provocazione buttata a caso, gli aveva domandato

“Tu non hai mai visto il mio volto, vero Stella? Eri già cieco quando ci siamo incontrati.” Rice annuì, pensoso. Poi dopo alcuni minuti di silenzio aggiunse

“Non ho mai visto il tuo viso, ma posso immaginarlo. Hai una cicatrice sull’occhio destro, e questo lo so perché te l’ho fatta io. La mascella squadrata, il naso dritto e regolare, le sopracciglia folte e una barbetta quasi perenne. Te la fai solo la domenica e il mercoledì. I capelli sono corti, e hai un orecchino al lobo destra a forma di dente di squalo. Infine hai le labbra grandi” mormorò arrossendo “e la pelle è sicuramente sempre abbronzata.”
“Wow” commentò David “E’ incredibile”

“Quando non ci vedi, impari molti altri modi per conoscere il mondo”

La cena trascorreva in un’atmosfera di sfrenata allegria; sette fratelli maschi insieme ad una tavola la rendevano una battaglia continua senza vincitori. David si premurava di riempire il piatto di Rice, anche quando non richiesto, sostenendo che se non mangiava sarebbe sicuramente morto di inedia. Rice sedeva in mezzo alle battaglie con le molliche di pane, alle urla e al cibo sovrabbondante, come se facesse effettivamente parte di quell’ambiente ma senza far notare la sua presenza: era una fantasma.

Di notte, nella casa, non c’era mai silenzio. Ogni tanto i due enormi cani che leccavano sempre Rice abbaiavano, dalle camere a fianco proveniva il rumore degli altri sei fratelli o i suoni di chi era ancora sveglio.

David lo avvolgeva in una delle sue enormi maglie della divisa della squadra di football – Rice sospettava perché così il suo odore sarebbe rimasto impresso nel tessuto – e lo stringeva fra le braccia schioccandoli un bacio in fronte prima di mormorargli “Buona notte Stellina”.

Poi calava il silenzio.

Questo era il momento della giornata in cui Rice sperimentava il significato della parola “paura”. Senza rumori, il mondo era ancor più sconosciuto e quindi potenzialmente pericoloso. Ma il calore dell’altro, il contatto fra i loro corpi e il respiro lieve che gli sfiorava il volto lo tranquillizzavano e cadeva di preda di un sonno senza sogni.

 

 

A scuola facevano finta di non conoscersi quasi; appartenevano a gruppi diversi, o meglio, David faceva parte dei fighetti della scuola, e Rice faceva gruppo da solo. Ma entrambi non dimenticavano; loro sapevano. Cosa riguardava solo loro due, come un segreto di cui nessun’altro era partecipe.

Avvenne più o meno verso maggio, alla fine dell’anno scolastico, quando i raggi di sole tornavano ad essere di nuovi caldi e Rice non doveva più preoccuparsi di indossare troppi abiti per il verso giusto.

“Ehy Stellina Capricciosa” lo salutò David sedendosi accanto a lui in un angolo del cortile della scuola. Rice era stupito; era una novità che si parlassero all’interno dell’edificio. “Si avvicinano le vacanze. Che ne dici di un viaggio?” buttò là quasi a caso.
“Si, perché no” rispose beffardo il ragazzino archiviando la cosa come l’ennesima stupidaggine. Lui, un cieco, che intraprendeva un viaggio!

E invece, eccolo solo un mese dopo, davanti alla porta di casa sua, che faceva rumoreggiare il motore di una ducati mentre gli urlava di muovere quel culetto secco e di posizionarlo dietro di lui.

“Ma non ho preparato nulla.” Protestò debolmente Rice, che ancora indossava un orrendo pigiama con le paperelle scelto da sua madre.

“Non preoccuparti. Ho roba per tutti e due. Ho lasciato anche un biglietto ai tuoi. Dai, vieni o ti lascio qui!” Rice avrebbe potuto mandarlo a quel paese, chiudere la finestra e ficcarsi di nuovo sotto le coperte. Niente sarebbe successo, tutto sarebbe rimasto immutato, casa, scuola, David.
Quindi non seppe mai spiegarsi perché uscì di casa, vestito di tutto punto, e lasciò che l’altro gli infilasse un pesante giubbotto di pelle, troppo grande per lui (“Sentirai freddo altrimenti”) e un casco (“Così non ti rompi la testolina”), per poi posizionarlo sul sedile di una grossa e sconosciuta moto dove si sentiva come un pesce fuor d’acqua. Ma non aprì bocca, tranne che per un piccolo gridolino che gli sfuggì quando l’altro con un “Reggiti forte!” e un’impennata azzardata partì lasciando velocemente dietro di loro tutto il mondo sicuro e conosciuto che Rice si era costruito con fatica negli anni.

No, Rice non sapeva perché. Ma il vento che gli soffiava sulla faccia dandogli la sensazione di volare nel suo mondo fatto di buio gli sembrò una risposta sufficiente.

 

Fine Parte I

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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