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Autore: Muni    14/12/2013    1 recensioni
"Non era come vedere o sentire davvero, non nel senso in cui lo intendono gli esseri umani. È un modo diverso, un modo che solo gli oggetti possono capire, esistere è una faccenda troppo complessa. A volte ti limiti a essere una tazzina di porcellana, la tua serenità è poter contenere delle bevande buone, sei felice se sei decorata, oppure triste quando una tua compagna cade e si frantuma, hai paura di fare la stessa fine. E lei, lei che era una bambola, era un oggetto troppo simile agli umani per non invidiare la loro possibilità di esistere e vivere allo stesso tempo."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La bambola di Maria



Aveva sempre vissuto all'ombra di una mensola. Quella su cui risiedeva lei era sempre più impolverata, però era di un bel legno comodo, castano scuro. Mogano. Aveva sempre amato osservarne le venature, lisciate per bene da un bravo falegname che l'aveva ricavata a mano, così come la maggior parte dei mobili nella stanza. Era da molti anni che quella era il luogo che chiamava casa: davanti a lei poteva scorgere una grande parete, la cui carta da parati era un po' ingiallita dal tempo, decorata con una trama floreale; al centro si trovava un camino il cui calore era in grado di riscaldare l'intero ambiente, mentre le fiamme scoppiettanti al suo interno avevano cullato le sue giornate, dandole qualcosa da osservare quando si annoiava. Le piaceva il fuoco anche perché non amava il buio che le dava un'idea di totale solitudine, come se fosse impossibile esistere, nell'oscurità. E già per lei esistere era molto complicato, al contrario delle persone che si aggiravano sempre per la casa... loro avevano la possibilità di muoversi e di parlare. Aveva sentito parlare di una cosa chiamata “muscoli”, che permetteva agli umani e agli animali di spostarsi, di agire, di correre e di ballare. Ah! Quanto le sarebbe piaciuto ballare, le feste nel salone erano così grandiose, piene di colori e di sguardi felici, ricolme di sorrisi e di risate, di parole. Un altro dei suoi sogni segreti era quello di poter, un giorno, parlare. Sentire la propria voce e i propri pensieri fuoriuscire da un paio di labbra morbide e calde, permettere agli altri di udire i suoi pensieri.
La sua attenzione per un po' rimase catturata dal fuoco, ma poi si concesse di studiare la libreria che prendeva tutto un lato della stanza. All'altro capo, opposto, c'erano i divani del salotto attorno a un tavolino in vetro, all'interno del quale, come una vetrina, si trovava una collezione di animaletti d'argento e di vetro. Quelli d'argento erano molto accurati e antichi, la padrona di casa, la signora Vergara, li collezionava da ottantacinque anni. La signora era molto anziana e ora si trovava seduta su di una poltrona non troppo distante dal caminetto. Le sue fragili mani pallide e ossute, che lasciavano intravedere ogni vena appena sotto la superficie della sottile pelle, carezzavano un gatto dal pelo ingrigito dagli anni. Era un Korat, ed era sempre stato di un delicato argento lunare, ma l'età aveva spento quel tipo di lucentezza che il morbido manto aveva sempre avuto. Ormai aveva più di quindici anni, camminava poco, come la padrona, passava la maggior parte del suo tempo appoggiato alle gambe di lei, facendosi carezzare. L'anziana donna aveva gli occhi color caramello come quelli del suo gatto, Novembre (poiché era quello il mese in cui l'aveva adottato), impalliditi per via di una malattia che la rendeva quasi cieca. Tutto il mobilio del salone era antico e a lei era sempre piaciuto, era accogliente e le dava un senso di pace.
A un tratto arrivò dalla stanza adiacente una donna con un abito bianco, un'infermiera. L'aveva vista entrare, ma non era la solita donna che si occupava della signora. Quella era impegnata in cucina, probabilmente.
« Signora... sembra che non ci sia più niente da fare. Mi dispiace. Il medico dice che probabilmente non supererà la notte. »
La signora rimase in silenzio, senza distogliere lo sguardo dal fuoco, mentre una di quelle fragilissime mani andava a sfiorare il volto cereo, con una punta di angoscia. Chiuse gli occhi e annuì.
« Mia figlia e mio nipote come stanno? » La sua voce era come sentire il fruscio della seta sulla pelle, quasi si poteva palparne la leggerezza.
« La signora Maria sta cercando di consolare la nuora, povera donna. È distrutta, non smette di piangere un istante. Il signorino non lascia il capezzale della bambina. »
Finalmente poté comprendere cosa stava accadendo. Lei non era brava a capire tutto degli umani, ma viveva da tanto tempo in quella casa e aveva imparato molte cose. Aveva giocato con quella bambina e aveva giocato con la nonna della bambina, la madre di suo padre. Era stata regalata a lei, in effetti, dalla signora Vergara, per il compleanno della piccola Maria. Un giorno tanto lontano nel tempo lei non viveva in quella casa, ma in una bottega molto più piccola. Era stata creata da un signore di nome Nino Carmeli, un educato artigiano cui piaceva costruire bambole sia per l'alta borghesia che per i nobili. Aveva vissuto nella bottega, sulla terza mensola, accanto a due bambole dal volto molto più grazioso del suo e dai boccoli biondi. Lei era stata progettata con i riccioli neri, portava un cappellino di pizzo blu come l'abito, non troppo vistoso, ma piacevole e comodo. La signora Vergara l'aveva osservata a lungo, come se potesse parlarle, quindi l'aveva scelta, fatta impacchettare dentro una bella scatola rossa, portata a casa e sistemata dentro una cesta di regali per il giorno dei morti. Quando Maria, quella mattina di inizio novembre, aveva aperto il proprio dono, si era illuminata radiosa, prendendola tra le piccole mani e sorridendo felice, per poi abbracciarla. Era stata la compagna di gioco di Maria per moltissimi anni, vivendo nella sua stanza, dormendo con lei, vegliandola di notte e bevendo il tea con i biscotti la mattina. Avevano fatto lunghe passeggiate nei giardini della villa, avevano inventato storie e giocato con altre bambole. Quelle si erano rotte o erano state regalate, con il tempo, mentre lei era rimasta nella camera di Maria finché lei non si era sposata. Era stato allora che la signora Vergara l'aveva spostata nel salone, in alto, a vegliare sul camino e sugli altri piccoli oggetti nella stanza. Si era sentita molto importante ma molto sola per anni. Maria non aveva avuto figlie femmine, soltanto maschi, tre: Vittorio, Manfredi e Francesco. Quest'ultimo, detto Cicciuzzo, era il padre di Angelica, la bambina ora malata nella stanza che una volta era appartenuta a Maria. Aveva giocato con Angelica, alcune volte, ma la bambina non era tipo da giocattoli come lei, preferiva quelli nuovi, oppure giocava spesso in cortile con altri bambini. Non le aveva fatto una colpa di questo, certo, la bambina le piaceva. E ora era malata. Sapeva cosa voleva dire, molte altre bambole malate erano state gettate via e dimenticate, perché ormai irrimediabilmente rotte. E Angelica era rotta.
Si sentiva il pianto della moglie di Cicciuzzo, nella stanza dove la bambina giaceva sul letto, la donna era disperata, non riusciva a sopportare l'idea di perdere la figlia, nessun genitore dovrebbe veder morire i propri figli. La signora Vergara si alzò, con grande fatica, aiutandosi con il bastone. Novembre scivolò invece a terra, miagolando piano, per poi raggiungere il camino e sedersi lì, senza sdraiarsi. La signora si spostò piano verso l'altra stanza, lasciandola sola con il fuoco e con il gatto. Non poteva sapere cosa accadeva nelle altre stanze, poteva solo immaginarlo. Essere umani sembrava così doloroso, a volte, che quasi si scordava i momenti in cui avrebbe tanto desiderato poter vivere anche lei.
Novembre camminava in tondo, inquieto, sul tappeto davanti al caminetto, finché non prese una decisione, fermandosi, cominciando a guardare in sua direzione. I gatti non avevano bisogno di parole per parlare, i loro occhi erano la finestra per comunicare con il mondo. E ora erano rivolti a lei, ai suoi occhi: due sfere di vetro dipinte di blu per assomigliare a occhi umani, mentre ciglia finte simulavano l'idea delle palpebre. Lei non poteva mostrare espressioni, si limitava a percepire il mondo attorno a lei. Non era come vedere o sentire davvero, non nel senso in cui lo intendono gli esseri umani. È un modo diverso, un modo che solo gli oggetti possono capire, esistere è una faccenda troppo complessa. A volte ti limiti a essere una tazzina di porcellana, la tua serenità è poter contenere delle bevande buone, sei felice se sei decorata, oppure triste quando una tua compagna cade e si frantuma, hai paura di fare la stessa fine. Essere una casa ti rende utile, sapere di avere delle finestre ti fa respirare, puoi sentire le emozioni di chi abita in te, diventi parte della famiglia, sei il luogo che possono sentire come rifugio. Talvolta sei detestata, altre volte disabitata.
E lei, lei che era una bambola, era un oggetto troppo simile agli umani per non invidiare la loro possibilità di esistere e vivere allo stesso tempo. Era curiosa, tanto curiosa di sapere cosa potesse voler dire avere un cuore che ti batte nel petto. Ed ecco cosa successe: il gatto inclinò la testa di lato, guardandola. E lei in qualche modo capì la sua proposta.
Certo, era una cosa strana.
Pericolosa.
Novembre le spiegò, nel suo modo di spiegare con gli occhi, che non doveva temere, anche se poteva far male. E lei non sapeva bene come reagire, poiché non sapeva realmente cosa volesse dire sentire male. Il Korat era un gatto speciale, aveva un dono particolare, lui poteva proteggere e aiutare gli umani. Per lui era triste non poter proteggere la piccola Angelica, ma soprattutto si sentiva affranto per il dolore che la morte della bambina avrebbe causato alla famiglia. Questo poteva comprenderlo anche lei, che come lui si sentiva responsabile per la famiglia Vergara, per tutti i discendenti della gentile signora che l'aveva comprata. Fu una cosa a convincerla: Maria arrivò in sala, con l'aria stanca, distrutta. I capelli ormai bianchi le scivolavano sciolti sulle spalle, nonostante di solito li portasse accuratamente legati alla nuca. Gli occhi color caramello, come quelli della madre, erano stracolmi di lacrime. Forse il suo cuore non avrebbe retto la perdita della bambina, perché stringeva il petto con forza. E lei non poteva permettere una tale sofferenza alla sua dolce amica Maria. Quindi decise.
Per la prima volta aprì gli occhi.
Sentì fluire una grande energia dentro di sé, una sorta di potere invisibile che la soffocò, riempiendole ogni fibra del corpo. Aria. Non stava soffocando, stava respirando. Sentì tante cose, cominciò a capire la differenza tra il suo mondo di prima e il mondo di ora. Poteva davvero udire dei rumori, poteva vedere davvero i colori, l'aria fluiva nel suo corpo assieme al sangue, il tutto gestito da un motore che aveva sempre sognato di avere: il cuore. Batteva all'impazzata, molto più velocemente di quanto mai avesse potuto immaginare. La realtà era tanto più impetuosa della sua fantasia che se ne sentì sopraffatta. Delle voci si accalcarono le une sulle altra, non riuscì a distinguere i suoni, né le parole. Sentiva il corpo madido di sudore, caldo. Sentiva caldo. Non aveva mai sentito caldo, anche se il calore le piaceva. E ora era scossa da tremiti, luci e immagini le fluttuavano attorno come un vortice.
« Cosa sta succedendo alla mia bambina? » Domandò una disperata voce maschile. Cicciuzzo, si disse. Papà, disse una vocina nella sua testa. Qualcuno le prese il polso per sentirne i battiti, che si calmavano sempre più. Le tastarono la fronte, mentre la febbre scendeva.
« Io... non so che dirle. Sta meglio. La febbre sta uccidendo la malattia. Non so come spiegarlo. »
Si sentì confusa, cominciò a ricordare delle cose. A capire cosa volesse dire ricordare per una mente umana, era tutto più vivido. E quanti ricordi aveva quella bambina! Provò, per la prima volta, a capire come muoversi. Spostò prima le dita, che sembravano più facili da gestire. Poi la mano, mentre sentiva il respiro calmarsi, mentre qualcuno le inumidiva la fronte. Portò la mano fino alla guancia e sentì il calore della pelle, mentre contemporaneamente sentiva il tocco dei polpastrelli. Impiegò tempo, ma si abituò. Sognò molte cose. Tra queste cose sognò una bambina che la ringraziava, prima di allontanarsi stringendo una bambola tra le braccia. Novembre la stava accompagnando verso il luogo luminoso e caldo dove vanno le cose rotte.
Infine riaprì gli occhi. Sua madre e suo padre erano al suo capezzale, addormentati, sfiniti, Novembre era accoccolato ai piedi del letto. Si mise a sedere, si spostò i capelli dalla fronte, umidi, aveva sudato tutta la notte. Toccò il tessuto della camicia da notte, poi quello delle lenzuola e della coperta.
« Ti sei svegliata, amore mio? » La dolce, calda voce di nonna Maria la raggiunse, così si voltò a guardarla. Tra le mani stringeva una bambola rotta, che appoggiò di lato, su di un mobile, per poi andare a sedersi sul letto dove lei aveva superato la sua malattia. Sentì la mano della nonna prendere la propria, carezzarla amorevole. Le sorrise. Era bello, sorridere.
« La bambola si è fatta male? » Domandò, anche se la voce era ancora roca e debole.
« Sì... è caduta. Era una bambola cui tenevo molto, me l'aveva regalata nonna Teresa, la bisnonna. Ma non ci pensare, l'importante è che stai bene, ora, piccola mia. »
Guardò la propria mano stretta in quella dell'anziana signora, sentì l'amore che provavano l'una per l'altra. Sentì di aver perso qualcosa, ma sentì di aver guadagnato qualcosa d'altro. Annuì, piano, stringendo più forte la mano della nonna.
Di Maria. 
  
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