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Autore: FrozenInside    14/12/2013    1 recensioni
Gli occhi, che meravigliosa invenzione.
Se non avessimo gli occhi, che cosa succederebbe? Come potremmo vedere i colori e le ombre del mondo? Gli occhi sono un qualcosa di magico, incantevole. Le mille sfumature di colori, le forme ovali o tondeggianti, le ciglia lunghe e folte o rade e corte.
E pensare che, se stiamo osservando la persona che amiamo, le nostre pupille si dilatano, quasi come se volessero vedere meglio colui, solo ed esclusivamente colui, che ci rende felici.
Che meravigliosa invenzione, gli occhi: amano prima loro di tutto il resto del nostro corpo, della nostra mente, del nostro cuore...
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Drew Chadwick, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ho letto su Internet che per innamorarsi occorrono solo trentaquattro minuti.  Trenta in cui ci si parla, conoscendosi, e quattro in cui ci si guarda negli occhi, in silenzio.
Trentasei domande.
Trentasei domande di cui un terzo dev’essere relativo alla vita privata dell’interlocutore.
Quattro minuti osservandosi nella parte più intima di noi stessi: gli occhi.
Gli occhi non mentono; gli occhi li vedi subito, se sono felici o tristi.

Gli occhi, che meravigliosa invenzione.
Se non avessimo gli occhi, che cosa succederebbe? Come potremmo vedere i colori e le ombre del mondo? Gli occhi sono un qualcosa di magico, incantevole. Le mille sfumature di colori, le forme ovali o tondeggianti, le ciglia lunghe e folte o rade e corte.
E pensare che, se stiamo osservando la persona che amiamo, le nostre pupille si dilatano, quasi come se volessero vedere meglio colui, solo ed esclusivamente colui, che ci rende felici. 
Che meravigliosa invenzione, gli occhi: amano prima loro di tutto il resto del nostro corpo, della nostra mente, del nostro cuore.

Sembrerà anche stupido ma, ti voglio fare innamorare di me così: mentre ti parlo e mi guardi. Facendomi conoscere per le due parti più intime di me stessa.
Infondo, sono solo trentaquattro minuti, tanto vale provarci, no?

“Ciao, ti va di uscire insieme, un giorno di questi? Magari anche questo pomeriggio?” 
“Guarda, ho un sacco da fare, devo studiare, ho gli allenamenti e sono davvero molto stanco, se proprio vuoi, posso ritagliarmi una mezz’oretta questo pomeriggio.”
“Perfetto, grazie mille! Ti va di andare da Duetto? Ci prendiamo una cioccolata calda e parliamo un po’ così, per passare il tempo.”
“Se proprio ci tieni…non capisco il perché, non ci siamo mai potuti soffrire e te ne esci così: usciamo e conosciamoci!”
“Beh, lo scoprirai…”


Duetto è un bar della mia città piuttosto grande, famoso per i suoi gelati e frappè alla vaniglia e mele caramellate e per le sue crepes con crema di nocciole e cocco e marmellata d’albicocche e Grand Marnier. E’ situato in centro, di fianco alla mia libreria preferita e ad un negozio di gioielleria. La cosa che mi piace di più è che, anche se è al chiuso, posso vedere i passanti perché ha una sorta di veranda dove si può consumare.
Adoro vedere le persone e immaginare le loro storie: ecco una coppia di innamorati che litiga, più in là una ragazza che cerca disperatamente qualcosa, forse l’amore, l’amicizia, la felicità… Dietro l’angolo un bambino con un signore anziano, probabilmente il nonno…
Mi piace cercare di capire chi sono e come mai sono così, mi piace leggerle, le persone.
Aspetto seduta al tavolo, su una sedia di pelle nera, molto moderna, leggendo il menù.

Ripasso mentalmente il piano: quindici domande per la conoscenza base e le rimanenti per quella più dettagliata.
Botta e risposta. Come una partita di tennis.

 “Ciao.”
“Ehi, accomodati pure. Stavo dando un’occhiata alla carta mentre aspettavo.”
“Hai aspettato tanto?”
“Il giusto.”

La cameriera arriva: è una donna sui trenta con i capelli biondi e ricci raccolti da una molletta e gli occhi gentili. 
“Cosa desiderate?” dice, con voce dolce e vellutata.
“Crepes con cioccolato, cocco e gelato. Doppio gusto: Bacio e Vaniglia.” Dici, e mi metto a sorridere, come quando si sorride ad un bambino che mangia tanto.
“Per me un tè al limone, grazie.” 
“Vuoi scherzare? Io ho rinunciato agli allenamenti e ad una sana dormita per uscire con te, pensando che ci tenessi e tu che ordini: un tè al limone, grazie! Grazie un cazzo, le porti una cioccolata calda con panna montata e uno di quei biscotti grandi con zucchero e cannella.”
“Ma…io…”
“Non si discute.”
La cameriera, al contrario di ciò che avrei potuto immaginare, è felice, sorride, scrive sul taccuino e se ne va.

“Perché volevi prendere solo un tè?”
“Dopo.”
“Ha a che vedere con una delle tue stupide diete?”
“Dopo.”
“Dopo cosa?”
“Dopo e basta.”

Arrivano le ordinazioni. Trentaquattro minuti da ora: iniziamo.

Domanda uno.
“Come va?”
“Bene, tu?”
“Bene.”
Domanda inutile.

Domanda due.
“Ti sto antipatica?”
“Sì.”
“Bene.”
Fanculo.

Domanda tre.
“Perché sei venuto qui oggi?”
“Perché non avevo nulla da fare. Ora la domanda la faccio io, però: perché mi hai chiesto di uscire?”
Merda, che cosa rispondo? ‘Beh, sai, ti volevo solo fare innamorare, tutto qua.’ No, per l’amor del cielo.

Domanda quattro (o cinque).
“E’ buona la crepes?”
“Sì.”
Andiamo avanti alla grande: a monosillabi.

Domanda sei, a questo punto.
“Ti stai rompendo le palle?”
“Non sai quanto, l’unica cosa positiva è la crepes. E il gelato.”
“Oh, giusto…il gelato.”
Di male in peggio.

Domanda sette (siamo solo alla sette? Sto esaurendo le idee).
“Ti…”
“Scusa se ti interrompo, posso assaggiare un pezzo del tuo biscotto?”
“Oh, certo…”
“Grazie, ho troppa fame.”
Quanto meno sta volta l’ha fatta lui, la domanda.
Guardo l’orologio: Undici minuti: decisamente fuori dalla tabella di marcia. Stai mangiucchiando un po’ del mio biscotto, sembri un bimbo nel paese delle meraviglie. Adorabilmente irritante.

Domanda otto.
“Posso andare in bagno? Scusa ma devo pisciare.”
“Sei sempre fine, come al solito.”
Anche sta volta la domanda la pone lui, volgare, ma pur sempre una domanda.
Passano sei minuti e ventotto secondi. In totale ne sono trascorsi diciassette e cinquantasette. Solo otto domande: inizio a perdere le speranze.

Domanda nove.
“Fatta tutta?”
“Quanto sei simpatica?”
“Rispondi prima a me.”
“Sì, l’ho fatta tutta.”
“Bene.”
In teoria queste sono due domande, anche se inutili.

Domanda dieci o undici.
“Quanto ti reputi simpatica?”
“Oh, che domanda interessante…”
“Rispondi.”
“Ecco, diciamo…”
“Muoviti.”
“Non mettermi pressione!”
“E tu rispondi, cazzo!”
“Non mi reputo un bel niente, okay!”
Sto urlando, tutto il locale guarda verso il nostro tavolo. Torno a sorseggiare, schivamente, la mia cioccolata.

Domanda tredici.
“In che senso? Non prendertela troppo, su!”
“Nel senso che non mi reputo né carina né simpatica ma non siamo qui per questo.”
Non ho voglia di lagnarmi per l’ennesima volta, con l’ennesima persona sul mio corpo e sulla mia personalità.

Domanda quattordici.
“E allora, perché siamo qua?”
Touché.

Domanda quindici.
“Ti stai rompendo le palle?”
“No, voglio capire perché sono qui e perché tu sei così.”
“Oh, e pensare che prima l’unica cosa interessante era il gelato.”
“Subito dopo il gelato, la Nutella e il basket vieni tu.”
Divento rossa e riesco solo ad esclamare un “Oh” imbarazzato.

Domanda sedici.
“Beh, è buona quella crepes?”
“Sì, ma è più buono il tuo biscotto. La vuoi assaggiare?”
“No grazie, non mi piace la Nutella.”
“Non è possibile tu non sei umana!”
“A volte lo penso anche io ma non nel senso bello, in quello brutto.”
“Prima di spiegarmi quale sia il senso brutto del sentirsi diversa, pulisciti le labbra che sono tutte sporche di cioccolata e panna!”
Ancora rossa. Sto contribuendo al riscaldamento globale, ne sono sicurissima.

Domanda diciassette.
“Qual è il senso brutto?”
“Quello di sentirsi soli.”
“Ma tu hai tante amiche, non sei sola.”
“Beh, di vere ne ho solo due o tre. Avrei bisogno di qualcuno che sia tutto mio.”
“Una migliore amica.”
“O un ragazzo.”
“Oh.”
Stavolta sei tu quello rosso. Sei tu quello imbarazzato.

Domanda diciotto.
“Perché sei venuto qui, oggi?”
“Me l’hai già chiesto.”
“E io voglio risentire la risposta.”
“Perché volevo conoscerti.”
“Anche io.”
Testa china, gote rosse. Perché proviamo così tanto imbarazzo?

Domanda diciannove.
“Perché ti odi?”
“Perché nessuno mi ha mai detto che sono speciale.”
“Te lo dico io, lo sei.”
“Non è vero, non ci stai credendo fino in fondo.”
“E invece sì. Sei speciale perché sei strana, ridi sempre ma sei sempre triste. Sei speciale perché sei intelligente. E brava con le parole. Sei speciale perché sei coraggiosa. Sei speciale perché sei bella e perché non hai bisogno di dimagrire: sei bella dentro. E anche fuori, ci aggiungo.”
“Perché sei così gentile?”
“Perché sono una persona sincera.”
Vorrei che tutto questo finisse. Il prima possibile.

Domanda venti/ventuno.
“Non ti sto antipatica, quindi?”
“Neanche un po’. Sei strana, complessata, complicata, acida e stronza ma ne vale la pena conoscerti. Davvero.”
“Nemmeno tu mi stai antipatico, proprio per niente.”
È così che ci si sente ad essere apprezzati? Ci si sente con il cuore così felice?

Domanda ventidue.
“Mi guarderesti negli occhi per quattro minuti, in silenzio?
“Perché dovrei?”

Trenta minuti, tempo scaduto.

“Fallo e basta, per favore.”

Credo che questi quattro minuti siano i quattro minuti più belli di tutta la mia vita.
Non so come mi sto sentendo, credo solo che le mie pupille, in questo momento, siano molto dilatate. Davvero tanto.
Occhi color delle castagne che s’incontrano con occhi blu come l'oceano.
Un mix piuttosto banale, forse. 
Un mix che non è insolito o fuori dal comune, un mix ordinario.
Altro che ‘trentaquattro minuti per farlo innamorare’, se lo guardo per un solo minuto m’innamoro e non mi disinnamoro più.
Sembra quasi di cadere nel vuoto, di morire. Ecco cosa sembra, essere innamorati.
Ma se ti innamori anche tu, forse, non cado nel vuoto e non muoio più. Promesso.
C’è un solo problema: le tue pupille sono piccole piccole, col cazzo che sono ‘una speciale’. Sono solo ‘una’. Una piuttosto insignificante.

“Scusa, devo andare in bagno.”
E me ne vado.

Trentatré minuti e quarantasei fottutissimi secondi: non ce l’ho fatta.

Dicembre è un mese troppo freddo e, se il freddo ce lo hai anche dentro, rischi di congelare. Un vento gelido mi sferza il viso, le punte delle dita delle mie mani e dei miei piedi si stanno trasformando in ghiaccioli, tuffo il naso nella mia sciarpa di lana e il mio cuore, nonostante indossi cappotto e maglione, sente più freddo della pelle, delle mani, dei piedi e del naso. Il mio cuore sente il freddo delle delusioni. Il mio cuore sente il freddo dei sentimenti non ricambiati.
Forse, questo, è un mondo troppo freddo. 
Troppo schivo, troppo deludente, troppo apatico, troppo sentimentale, troppo triste, troppo tragico, troppo illusivo, troppo e basta.

“Mi spieghi perché te ne sei andata? Ho dovuto pagare tutto io!”
“Ah, beh, ti frega solo di pagare, fanculo!”
“Non me ne frega solo di pagare!”
“E di che altro, allora?”

Urla e pianti disperati, troppo gelo anche nelle parole.

“Me ne fotte perché sembra quasi che ti interessi e poi dopo scompari: sei sempre così. Parti convinta e poi molli tutto, rischia per una fottuta volta!”
“Io rischio, ma chi rischia per me?”
“Io, se vuoi.”
“Non ti interessa nulla di me.”
“Non è vero, m’interessa eccome.”
“Aiutami.”
“Lo farò, promesso.”

Sentimenti dichiarati in silenzio, dietro un’esplicita richiesta di aiuto: aiutami a non avere più freddo.

“Cosa volevi fare?”
“Farti innamorare in trentaquattro minuti, avrebbe dovuto funzionare.”
“Non ha funzionato, mi spiace.”
“Già…”
“A me è bastato solo un secondo per innamorarmi di te.”
“Oh.”
“Fanculo.”
“Ti amo.”
“Comprami un biscotto, ho fame.”
“Sarà sempre così?”
“Ci spero tanto...”
  
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