SPOILER per chi segue il manga in italiano.
Disclaimer: I personaggi citati appartengono a
Masashi Kishimoto; la canzone citata, la splendida Guerra di Piero di
Fabrizio De Andrè appartiene, ovviamente, all'anima immortale del suo
autore.
...Cadesti a terra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che la tua vita finiva quel giorno
e non ci sarebbe stato ritorno.
["La Guerra
di Piero", F. De Andrè]
Touched by a thousand invasions
and still forever an
island.
Ci sono
sei personaggi, sette contando il cielo innaturalmente azzurro.
Quattro sono riversi a terra, ma uno di questi sembra più vivo degli altri. Il
quinto è una grossa spada che sembra fatta di pelle di mostro. Anche il sesto
personaggio è una spada, o, per meglio dire, è lo scalcinato mucchietto color
vetro che ne rimane.
Il personaggio più vivo di tutti si è già alzato in piedi a fatica, malfermo
come un ubriaco, barcollando su un paio di gambe devastate dalle ferite. Si
appoggia a un corpo che sembra aver dichiarato la resa, ormai pronto al
collasso. Cadrà? Non cadrà? Impossibile dirlo adesso.
Al momento è solo intrappolato nell'eterna stasi, il piede cristallizzato
nell'atto di poggiarsi a terra, il passo a mezz'aria.
Gli altri personaggi sono fermi, immobili.
Ci potrebbe essere in effetti un ottavo personaggio: il sangue.
Quel liquido che è fisiologicamente programmato per stare dentro il
corpo umano e che invece in quel frangente ha deciso di farsi largo e schizzare
fuori, di diventare una lunga strada rossa e avvolgere in un abbraccio umido
ogni cosa. Disgustoso, sì.
Non aveva mai pensato che un liquido umano, una cosa immensamente ovvia e
banale, potesse essere disgustosa. Davvero, non ci aveva mai pensato. Non aveva
mai avuto importanza, come molte, troppe cose nella sua vita, cose che le erano
sfrecciate accanto a una velocità talmente folle da accorgersene a stento,
figuriamoci distinguerne i contorni o - utopia - fermarle. Se fosse stata una
persona incline all'autoanalisi o all'introspezione, avrebbe paragonato i suoi
quindici anni mai salvati alla curva liquida dell'onda che si gonfia verso
l'alto e un istante dopo precipita nel baratro, per poi svettare nuovamente in
un turbine di schiuma e gettarsi un'altra volta nel buio di una caduta senza
fine.
Così era stata lei, in alto o nella polvere, mai una via di mezzo, nessun posto
sicuro in cui fermarsi un poco e attendere la fine dell'uragano.
Prevedibile che il suo ultimo scatto verso l'alto l'avesse poi portata a finire
lì, rantolando fra le sterpaglie in un giorno pieno di vento.
E' affogata nell'abisso di un'onda troppo grande per lei, che non sapeva
nuotare poi così bene e si teneva a galla con l'incoscienza temeraria di una
funambola.
Solo quando è troppo tardi ha realizzato che tutto, tutto quanto era un
gigantesco errore in cui lei era stata scaraventata senza aver voce in
capitolo, obbligata a giocare a dadi con Madama Morte in persona.
Per poi perdere, alla fine, e tenersi a denti stretti la morte che le era
capitata.
Il vento
soffiava implacabile tra i fili di riso. Da qualche mese aveva messo in
ginocchio le risaie affogate nel gelo e tormentava la vallata con folate sempre
più violente.
A memoria d'uomo, mormoravano i vecchi del villaggio alla luce d'un bicchier
d'acqua stantia che chiamavano sakè, l'inverno non era mai stato così crudele
con loro. Piagava le mani e i piedi, s'infilava inclemente sotto i vestiti,
faceva annegare nel ghiaccio i ruscelli, ammazzava le bestie, aveva aperto la
strada a una quantità esorbitante di infezioni dal nome più o meno complicato,
sgranocchiava le messi estive con una voracia disumana: era il colpo mortale a
un paese ancora malato dei postumi di guerra.
E quello non era un vasto e potentissimo stato ninja che potesse vantare
territori sterminati e di conseguenza risorse abbondanti, né Clan tanto potenti
e senza scrupoli che devastassero interi villaggi per raggranellare un pugno di
granaglie ammuffite: non aveva nessun daimyo, nessuna facoltosa famiglia
fornita di un'oscura kekkei genkai, non aveva leggende né macchine da guerra.
Era solo un fazzoletto di terra traforato dalle acque dei campi di riso, un
posto così ridicolo, così infimo in mezzo al ribollire minaccioso dei grandi
Paesi degli Elementi da far quasi ridere. Un deserto che a lei, bambina troppo
ambiziosa e decisamente presuntuosa, andava stretto.
Karin avanzava strisciando nell'erba gelata, gli steli muffiti che le
solleticavano il viso, gli occhiali storti sul naso e due piccoli occhi
febbrili fissi sulla preda che, qualche passo avanti a lei, si puliva
innocentemente il muso con una zampina.
La bimba strinse ancora più forte il coltello che teneva fra le dita, rozza
imitazione di un kunai, mentre con estrema e calcolata lentezza strisciava
verso la lepre.
Il suo stomaco si contrasse in un ansito doloroso quando, involontariamente,
pensò a uno stufato fumante con contorno di riso e verdure. Un brontolio sordo
le risalì cupo dal ventre.
La lepre, scura come un ciuffetto di caffè in quegli sterpi giallastri, alzò di
scatto il muso, fendette l'aria col nasino umido e a Karin parve che le sue
lunghe orecchie sfiorassero il cielo grigio.
Per un interminabile minuto la bambina divenne come terra immobile. Respirava
con il vento, dormiva un sonno millenario, i suoi occhi bene aperti erano gli
occhi degli abissi profondi.
Il suo stomaco invece si stava distruggendo dai crampi, ma la ragazzina si
costrinse a pensare che quella era l'ennesima occasione per ribadire la sua
superiorità sugli altri bambini, sui più grandi, sui ninja del villaggio, per
farla breve su tutti quanti. La linea che alla sua nascita era stata tracciata
tra lei e loro andava man mano ispessendosi.
Bene. Non poteva desiderare altro.
La bambina si gettò di scatto sull'animale. Il suo coltello trafisse la
terra.
Davanti a lei rimanevano solo le buffe nuvolette di polvere sollevate dai balzi
della lepre.
La individuò infine, appena sotto il declivio del poggio, che innalzava di
nuovo verso le nuvole le sue soffici appendici di cartilagine.
Lo stomaco di Karin, così indisciplinato rispetto al cervello, gemette un'altra
volta. Cosciotto di lepre col riso, brodo di lepre caldo, lepre allo spiedo,
lepre farcita di funghi, lepre cotta nel vino...
Allora vide ciò che anche la lepre stava osservando, sicuramente con piccoli
occhi neri intensi quanto i suoi.
Anzi, un istante prima di vedere, già lo sapeva, già l'aveva sentito.
(Karin sentiva i temporali, le gelate, le guerre, le carestie, i fiumi che
erompevano dagli argini, i cuori degli uomini e il loro soffio di vita, sentiva
tutto come la cartina tornasole del mondo intero.)
L'unica abilità appena pregevole del suo Clan di pezzenti: percepire l'energia
degli eventi, saper codificare i sussurri del chakra.
Le avevano detto di non allontanarsi troppo dal villaggio, di non raggiungere i
confini della valle, ma poi aveva trovato una preda da inseguire e un'ottima
scusa per arrivare fino alle porte che si affacciavano sul vero mondo,
aldilà di quella cripta sonnolenta in cui, non per sua scelta, era nata.
Dunque vide emergere dai lembi nebulosi della gola di roccia un ragazzino che,
prepotentemente vestito di bianco, sembrava voler obbligare il mondo intero a
guardarlo, un ragazzo immacolato come i figli della nebbia.
Karin si sistemò, come inebetita, gli occhiali sul naso.
La lepre saltellò in avanti, si confuse tra gli arbusti rinsecchiti, nuovamente
incurante del cacciatore poco sopra di lei, e riservò i suoi occhietti liquidi
per la ricerca della sua preda, grillo o cavalletta che fosse.
La bambina, orgoglio consapevole di un Clan che agonizzava sul letto di morte,
rimase immobile.
Nelle sue narici s'infiltrò una lievissima nota acre, pastosa, che le spiegò
sommessamente che l'inverno sarebbe finito di lì a qualche settimana.
Una leggera pressione del polso sul pugnale e, tac,
la lama era penetrata nella carotide sinistra e, tac, Kazuko-chan
non esisteva più.
"Ma non eri di qui, tu?"
Quando tutto quanto era finito, Tayuya, comodamente seduta sul cadavere del
capovillaggio, le aveva rivolto quell'interrogativo così, a bruciapelo,
accompagnato da uno dei suoi soliti sguardi diffidenti.
Karin aveva sbattuto gli occhi, incredula e oltraggiata.
"Ma quando mai, Faccia di Cagna!
Ti pare possibile che io possa essere nata in un buco di culo del genere?!?"
Aveva sbottato con l'arroganza gonfia di presunzione che le era connaturata.
(Perchè è la tua parte, Karin, non ci si aspetta altro da te.)
Il colpo di Kimimaro Kaguya, il "figlio della nebbia" di
molti anni prima, le era arrivato giusto sotto l'occhio, proprio dove lo zigomo
s'inarcava disegnando la curva morbida di una collina.
"Porta rispetto a un tuo superiore" disse soltanto, la voce
gelida di una macchina, mentre l'osso della mano sinistra tornava al suo
legittimo posto.
E Karin finì col viso nel fango, accanto agli occhi di cristallo di Kazuko-chan
e alla grande macchia densa e appiccicosa che si allargava sotto il suo
cadavere.
Tayuya inarcò le sopracciglia con sufficienza, unico segno che scalfisse la sua
indifferenza. Sakon (o era Ukon?) si leccò divertito le labbra secche.
"Capisco perchè Orochimaru-sama ha proposto te per questa missione"
riprese Kimimaro con la stessa voce monocorde e distante, un oceano piatto di
gelo. Non guardò neppure la figura che, tremebonda, si rialzava da terra pulendosi
con rabbia la gota arrossata e sporca di terriccio.
"'Fanculo", gli concesse Karin. Tanto ci finirai molto presto,
aggiunse tra sé e sé.
Kaguya allora le dedicò la smorfia distorta più simile a un ghigno che uno come
lui potesse forzare:"Orochimaru-sama sarà contento" e le volse le
spalle.
Karin, le ginocchia affondate nel molle impasto di sangue e fango, gli riservò
uno sguardo carico di rancore.
"Non è affatto vero che sono nata qui" mormorò acida, nettando gli
amati occhiali che per puro miracolo non erano andati in mille pezzi.
Alzò gli occhi e vide il risolino maligno di Ukon (o forse quello era Sakon?)
incombere su di lei:"Io non sono così buono, principessina. La prossima
volta la lingua te la strappo."
(La tua parte, Karin, la tua parte.)
"Tsk."
Col dorso della mano pulì via il sangue di Kazuko-chan che le era colato alla
base del naso.
"Forza, in piedi" sbottò brusco Sakon (oppure Ukon? Bah, del resto
non aveva importanza). Le stritolò il polso in una morsa ferrea e un istante
dopo Karin tornò a reggersi sulle proprie gambe.
"Rimettiamoci in marcia, abbiamo perso anche troppo tempo."
Kimimaro era già ai confini del villaggio.
Il resto
era storia, e una Squadra di quattro persone che davano vita a una chimica
sbagliata.
Per quanto ricercasse un senso, un motivo, un criterio più rassicurante del
caos ad averli uniti, non lo trovava. Forse perchè, era costretta ad ammettere,
una circostanza simile non esisteva.
Erano solo quattro individui che correvano in quattro direzioni antitetiche
l'una all'altra. La catena che li aveva imprigionati, poi, aveva finito per
spezzarsi.
Una chimica sbagliata. Una reazione instabile. Una specie di freak of nature,
che in un altro mondo non avrebbe avuto ragione d'esistere. Un coagulo infetto
del destino, tutto qui.
E ora?
Ora non rimaneva niente.
La sua attrazione per Sasuke? L'ennesimo obbligo previsto dalla sua parte, una
serie di vuoti gesti senza senso caduti dell'oblio.
L'astio per Suigetsu? Svanito come un soffio di nebbia al sole, quando lui aveva
ricevuto un colpo in mezzo al torace destinato a lei.
Il terrore istintivo che le ispirava Juugo, la fonte del Segno Maledetto? Acqua
passata. S'era volatilizzato assieme al suo chakra mentre Juugo, stramazzato al
suolo, era morto con la Samehada che gli trapassava il corpo.
L'ambizione?
No davvero, non c'era più posto nemmeno per quella.
Una ragazza-razzo che dalle brume delle risaie era schizzata in alto, fino a
giocherellare per un istante coi filamenti traslucidi del potere impigliati
tra le dita, e poi era precipitata giù di botto. Moriva in un campo di sterpi
in un giorno pieno di vento, poco lontano da due individui che per lei erano
poco meno di estranei.
E adesso? Adesso cosa restava?
(La maschera, il copione, i vestiti di scena e la parte silenziosamente
scivolavano a terra.)
Restava Karin, col nulla stretto nel pugno.
Non posso morire qui, fu quello che credette il suo ultimo, illusorio
pensiero. Ma dopo ce ne furono altri: guardò Juugo, guardò Suigetsu, e allora
capì che quella non era mai stata la loro battaglia. Capì che erano morti nel
modo sbagliato e, per giunta, nel modo peggiore, sprecando l'unica occasione
che era stata concessa loro.
Guardò un po' più a lungo il viso di Suigetsu: i suoi occhi di vetro, in vita
così vividi, erano diventati un cielo perennemente giallo, immutabile. Ammise
che non poteva dargli la notte, non poteva, anche se era quello che aveva
sempre voluto fare.
(Le
luci si spengono, e tu con loro, Karin.)
I passi
claudicanti di Kisame Hoshigaki, curvo sotto il peso della mastodontica spada
Samehada, si affievolivano piano, uno dopo l'altro, in lontananza.
Fin
Glossario:
Kekkei genkai: Abilità Innata, such as Byakugan, Sharingan e via di
seguito.
Samehada: l'amatissima spada di pelle di squalo di Kisame.
Nota
dell'Autrice
Alla fine non è
come me l'aspettavo. Sadness ._. In effetti non mi soddisfa proprio per niente.
Penso sia piuttosto bruttina, in effetti, e penso di non aver sviluppato bene
il tema.
Tutta colpa di Karin, sì sì. E di Kishimoto che le fa dire sì e no due
scempiaggini ._. E della sua caratterizzazione che non va oltre la
PervertSasukeFangirl.
Avevo in mente di scrivere un'altra flavour sul Team Hebi, ma se il buongiorno
si vede dal mattino temo proprio che dovrò abbassare le armi.
La cosa che comunque mi sembra più azzeccata è il titolo: le è cucito
perfettamente addosso. Toccata da mille invasioni e ancora e per sempre
un'isola: spero che la sensazione trasmessa sia proprio questa.
Talpina Pensierosa: Ancora ti ringrazio molto per il complimento^^! E' un
piacere vedere che segui le mie flavours, davvero.
Helen Lance: Se ti dico che aver ricevuto una recensione da te lo
considero un onore, ridi é.è? Spero di no, anche perchè ti posso assicurare che
è la verità. Ti stimo moltissimo come autrice, penso anche d'averti recensito
qualcosa :) e Grey Eyes Of the Storm figura a pieno titolo fra i miei
preferiti. Aw <3!
Per questo sapere che ho reso IC Neji -uno dei personaggi di Naruto che mi
risulta più difficile da rendere- mi ha reso immensamente felice. Non sai
quanto ho faticato scrivendo di lui, e vedendo che la mia fatica alla fin fine
è valsa qualcosa non ho potuto che rallegrarmi di cuore. Felice d'aver
immaginato il tuo stesso Neji ANBU :).
La mia Hinata poi, è vero, è diversa da quella di Kishimoto: ho una visione
tutta mia del personaggio (se può interessarti, ti consiglio la mia 'Remedios
la bella' che è tutta incentrata su di lei) e questa mia concezione tende a
essere onnipresente quando la inserisco nelle mie storie. L'ho voluta rendere
forte come il fuoco, il fulmine e l'acciaio qui per un solo motivo: perchè si
rendesse conto che l'unica volta che ha osato esporsi nella sua vita è stata
quando ha creduto che Neji potesse morire (Kyuubi non è che ci vada leggera,
con gli uomini).
Ho pensato che questo potesse farle aprire gli occhi e renderla, sì, un po'
meno debole. Mi spiace che non sia molto credibile ç_ç.
Arwen5786: Oh, mi fai arrossire così >.
Per quanto riguarda il resto... beh... Su Shikamaru ho qualcosa di già pronto,
su Temari idem, ma Shikamaru e Temari insieme, ecco, come dire... Amenochè non
mi decida a scrivere qualcosa sulla loro amicizia, mi spiace dirti che proprio
non c'è speranza ._. Scusami, ma da questo punto di vista sono Immacolata chedipiùnonsipuò,
temo di non riuscire a scrivere una ShikaTema neanche sotto tortura, ecco ç_ç.
Kaho_chan: Dulcis in fundo la mia Chaos, che non vedeva l'ora di leggere
questa shot e che per fortuna è fra i miei Quattro Lettori <333!
Come farei senza di te?
Adesso devi prepararti a rendere nota al mondoH intero la tua SasoKure (because
crack is life!) della nostra sfida, che secondo me farà stragi da tanto che è
bella e vivida, ma ne riparleremo quando entrambe ci daremo alla pubblicazione.
Dai, non vedo l'ora di leggere la tua recensione, tu sì che mi sostieni e mi regali un sorriso, tesoro *O*!