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Autore: RadioPotter    16/12/2013    3 recensioni
Viaggio introspettivo nell'infanzia di Hermione, alla scoperta del suo amore per i libri.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hermione Granger
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto
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Un'insopportabile Sottutto
di EllenPotter
Un’insopportabile Sottutto.
Quante volte avrò sentito questa frase? Quante volte mi hanno chiamato così? E quante volte ho fatto finta di non sentirli, li ho ignorati, ho sorriso con finta accondiscendenza? E ancora quante volte ho scherzato con gli altri su me stessa, chiamandomi allo stesso modo, come se fosse un divertentissimo appellativo?
Eppure, eppure.
Eppure nessuno, nessuno sa quanto io ci stia male ogni volta. Non per il termine in sé, sia chiaro. Chiunque almeno una volta nella vita vorrebbe essere chiamato sottutto. Sentirsi intelligente, più informato degli altri, tutti lo vorrebbero, no? Sono certa di non essere l’unica. No, quello che mi dà fastidio è che nessuno sa PERCHE’ io sono “un’insopportabile sottutto”. E’ questo il problema della gente.
Tutti giudicano, tutti trovano facilità a parlarne, a prendere in giro, a dire le parole con leggerezza, ma nessuno si interessa del perché. Il perché è futile, poco considerabile, vago. Perché quella ragazza è grassa? Avrà i suoi problemi, non perché lo voglia, questo è poco ma sicuro. Nessuno vorrebbe essere grassa. Perché quel ragazzo ha i capelli in quel modo? Boh, chi se ne importa, io lo prendo in giro comunque. E’ questa la mentalità delle persone che mi circondano, da sempre.
Cominciò tutto in seconda elementare. La professoressa ci stava insegnando a sillabare. Quel giorno me lo ricordo come se fosse stato ieri. Indossavo una maglietta rossa a quadretti stampati, una gonna grigia e avevo un enorme fiocco nei capelli, i gusti discutibili di mia madre. Discutibili come l’enorme apparecchio per i denti che mi sfigurava il volto. Non un apparecchio normale, di quelli piccoli, magari colorati, no: un aggeggio che mi avvolgeva tutto il viso, mi apriva le mascelle e mi impediva di parlare, mangiare, bere e fare qualsiasi altra cosa che richiedesse l’uso della bocca correttamente. Avevo quasi 8 anni e neanche un’amica. Le bambine si spaventavano guardandomi, già dall’anno precedente, quando era cominciato il mio supplizio. Figlia di dentisti, ironia della sorte, cambiando i denti da latte erano cambiati anche i miei connotati. Non c’era un dente che fosse cresciuto al suo posto, neanche per sbaglio, e i miei genitori non avevano perso tempo.
“E’ brutto, tesoro, lo capisco; ma tempo due o tre anni e avrai la dentatura più perfetta di tutta l’Inghilterra!”, questa era stata la rassicurazione di mio padre. Con il suo sorriso perfetto, la sua moglie perfetta e la sua vita perfetta, non aveva mai pensato a quello che avrebbe potuto comportare una maschera del genere sulla faccia di una bambina alle elementari. Gli altri bambini avevano quasi paura di stare vicino a me, preferendo sedersi lontano e bersagliarmi con foglietti pieni di insulti e cattiverie. “Ironlady” era il mio preferito, a volte mi ci chiamavo da sola così, quando ero in camera con i miei peluche a giocare alle signore che prendono il tè. “Miei cavi ovzacchiotti, oggi abbiamo l’onove di aveve con noi la zignovina IvonLady!”. Quello che l’apparecchio ortodontico aveva fatto alla mia pronuncia era qualcosa di… impronunciabile, appunto. 
Ero nell’età in cui tutti i bambini correvano al parco, con il sole e con la pioggia, insieme ai loro amichetti; eppure quell’età la passai quasi sempre chiusa in camera, come unica compagnia i miei peluche e una serie infinita di libri presi in prestito alla Biblioteca Civica della mia cittadina.
Era stata una scoperta importante, quella della Biblioteca. Dacché ricordi, fin da piccola ero passata davanti a quel palazzone col vestibolo contornato di colonne (pronao, si chiamerebbe se fosse un tempio greco o romano; io l’ho letto) chiedendomi cosa fosse, perché fosse così grande, cosa contentesse. I miei non mi ci avevano mai portato. “Non ho tempo tesoro, forse domani” era la scusa preferita di mia madre. Un giorno avevo preso coraggio e ci ero entrata da sola, aggiustandomi alla bell’e meglio la sciarpa sul viso affinché non si vedesse quell’obbrobrio che era diventato il mio volto. All’estremità opposta all’entrata dell’enorme salone d’ingresso c’era una signora, che mi dava la schiena, impegnata ad ordinare chissà quale archivio. Mi avvicinai intimidita e feci qualche piccolo colpo di tosse, sperando di richiamare l’attenzione. Lei probabilmente non mi sentì, per cui pigolai un lievissimo “Mi scusi”… quando si girò mi passò ogni timore. 
Era come me! Enorme apparecchio ortodontico (“è il classico ‘baffo’, tesoro” mi direbbe papà), occhialoni spessi almeno un centimetro e l’aria un po’ sofferente. Mi sorrise (per quanto era possibile sorridere con quell’aggeggio in bocca) e mi disse:
“Benvenuta alla Biblioteca Civica, cara! Mi sembra di non averti mai visto qui. La sezione ragazzi è da quella parte” indicò col dito uno stanzone tutto colorato alla destra dell’ingresso, “se hai qualche richiesta particolare puoi chiedermi tutto quel che vuoi, sono qui per aiutarti!”
Le sorrisi (il discorso del sorriso valeva anche per me) e mi avviai alla sezione ragazzi. Da quel momento la mia vita cambiò radicalmente.
Lessi di mille e mille avventure, di viaggi, peripezie; ben presto divenni un’assidua frequentatrice non solo della sezione ragazzi, ma di tutte le altre sezioni della Biblioteca. Prendevo nove, dieci libri alla volta, e nel giro di un mese li restituivo. Le insegnanti non riuscivano a capacitarsi di come fossi diventata brava non solo nel sillabare, ma nel costruire lunghissime frasi con parole ricercate che bambini della mia età non si sarebbero neanche sognati di sapere. Il mio rapporto con i libri si apriva, e nel frattempo quello con i miei coetanei si chiudeva sempre di più. Più studiavo, più cercavo di inserirmi nei loro discorsi per farmi accettare, più loro mi rifiutavano.
“Sei sempre a studiare! Sei noiosa!” mi disse un giorno una bambina, Evelyn, che aveva, all’epoca, sette fidanzatini e una lista di pretendenti che si divertiva a mostrare tra una divisione e un’altra durante l’ora di matematica. “I ragazzi non ti guarderanno mai se continuerai a mettere quella macchina ortopratica in bocca e continuerai a leggere libri per grandi!” aggiunse, con aria superiore.
“Apparecchio ortodontico…” la corressi; correggere gli errori degli altri era diventato più forte di me. Lei alzò le spalle e si allontanò. 
In quel periodo la mia lettura si avvicinò ad un genere che, so che non ci crederete, mi ha sempre segnato. Cominciò perché la simpatica bibliotecaria, che si chiamava Grace, un giorno mi prese da parte e mi mostrò un enorme libro con in copertina un leone che spalancava la bocca e mostrava le fauci.
“Ciao, Hermione! Questo l’ho tenuto per te. Non farti spaventare dalla grandezza, in realtà sono tanti libri messi insieme. E’ stato scritto da un’inglese molto famoso, si chiama C. S. Lewis. Leggilo, e fammi sapere se ti è piaciuto!”
Se mi piacque? No, in realtà non mi piacque. Semplicemente lo amai. Maghi e streghe, buoni e malvagi, mondi paralleli dove tutto era possibile, animali parlanti, velieri, principi, principesse e fantastiche avventure. Fu il primo di una lunga serie di libri di questo tipo che cominciai a leggere. Lo Hobbit, di Sir Tolkien, fu il secondo. Elfi, nani, uomini, hobbit, stregoni, negromanti, draghi… più leggevo di quei mondi fantastici e più sognavo ad occhi aperti, maledicendo il mio mondo così normale, così piatto, privo di novità, assolutamente digiuno di magia.
Quanto desideravo poter essere una persona speciale, poter vivere in un mondo di persone speciali, dove tutto (o quasi) poteva essere aggiustato con una formula magica o qualche polverina fantastica. 
Fu per questo che, quando la professoressa McGranitt bussò alla porta della mia villetta con giardino nella periferia di Londra e venne a dirmi che ero una strega, mentre i miei genitori quasi svenivano e mio padre preparava un tè molto forte corretto col Whiskey per mia madre, io quasi scoppiai dalla gioia. Avevo undici anni e mi ero giocata l’infanzia. Non mi sarei giocata anche l’adolescenza e l’età adulta.
La Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts! Che nome splendido, altisonante, superbo! Per i miei genitori non fu troppo difficile, infine, accettare la cosa, e di questo sono loro molto grata. Mio padre aveva cominciato a borbottare debolmente qualcosa sulla scuola privata alla quale avevano pensato di mandarmi, ma smise di parlare quando vide la mia espressione speranzosa. Cambiammo i soldi e corremmo a Diagon Alley (quanta gente! Quante persone come me! mi sentivo estatica a guardarli), dove comprai tutto l’occorrente per la scuola. La scelta della bacchetta fu la più grande emozione per me. Il signor Olivander mi fece esattamente due domande, e deciso mi diede una bacchetta di Vite e corda di cuore di drago, senza dubitare neanche un istante che fosse quella giusta per me, e così era. Appena la presi in mano sentii un calore mai provato prima, un senso di appartenenza inscindibile.
Il primo settembre partii per Hogwarts, e mi sembra ieri: ho aiutato Neville a cercare il suo rospo, ho conosciuto Harry e Ron, mi sono seduta davanti a tutta la scolaresca mentre il Cappello Parlante sulla mia testa decideva se mandarmi a Corvonero o a Grifondoro. Non avrebbe avuto importanza per me, all’epoca, mi sarebbero piaciute entrambe, ma il Cappello decise che il mio coraggio (coraggio nascosto bene, devo dire) aveva più valenza della mia intelligenza, e mi spedì sotto gli stendardi giallorosso. 
Non è che fosse cambiato molto, inizialmente… l’apparecchio ortodontico l’avevo ormai tolto, ma la tendenza a parlare a proposito e a correggere ciò che dicevano gli altri mi è rimasta. Abitudini che non penso si toglieranno mai. Anche stamattina. Vitious ha fatto una domanda di una facilità pazzesca, ma in classe nessuno sembrava sapere la risposta. Mi seccava dover alzare di nuovo la mano, era già la quarta volta dall’inizio dell’ora, ma il professore mi guardava così speranzoso che non ho potuto non rispondere – correttamente, s’intende. 
Uscita dall’aula, Pansy Parkinson – una simpaticona, proprio – mi ha urtato con forza mentre si avviava verso il corridoio, facendomi cadere la borsa. La boccetta di inchiostro cambiacolore si era aperta, imbrattando tutti i miei libri.
“Che sfigata, Granger!” ha riso lei, accompagnata dagli altri intelligentoni del suo gruppo, “quando la smetterai di essere un’insopportabile sottutto?”
“Smamma, Parkinson, prima che ti faccia un incantesimo a quella faccia da carlino che ti ritrovi!”
Ho dovuto alzare la testa. Ron stava guardando male Pansy, e le puntava la bacchetta contro (o quello che era rimasto della bacchetta, dopo lo scontro col Platano Picchiatore di qualche mese fa), mentre Pansy lo guardava altezzosa. Il gruppo ha alzato i tacchi, andandosene. Ron si è abbassato e ha cominciato ad aiutarmi a riordinare i libri, mentre io mi occupavo di pulirli aspirando l’inchiostro. 
“Ti ha fatto male?” quella premurosità da parte di Ron non era particolarmente ciò che mi aspettavo, ma forse si era svegliato con la luna dalla parte dritta. 
“No, figurati, quella mazza di scopa… mi spiace solo per l’inchiostro, la boccetta è vuota ormai, da buttare” ho risposto, guardando triste tutto l’inchiostro sprecato. Ci siamo alzati e siamo usciti fuori, nel parco. Abbiamo camminato verso il solito albero preferito vicino alle rive del Lago Nero. Ci siamo seduti e siamo rimasti in silenzio per un po’. Ho fatto finta di niente, finché, più forti della mia volontà, le lacrime sono cominciate a sgorgare senza sosta. Ron se ne è accorto e mi ha messo un braccio intorno alle spalle. Sono rimasta così sconvolta da questo suo gesto che non ho avuto modo di togliergliele, anzi… l’ho abbracciato piangendo senza sosta.
“Hermione, Hermione, ma che fai?! Piangi? Una ragazza forte come te? Che te ne importa se ti ha chiamato ‘Sottutto’? Io ti chiamo così almeno cinque o sei volte al giorno, ma non mi hai mai detto niente!”
“Ne-nessuno se ne im-importa ni-niente di m-me!” ho singhiozzato. “Tutti credono che a me non interessi quando mi dicono che sono una Sottutto, ma non è vero! A me interessa eccome! Io vorrei tanto essere una persona spensierata, non conoscere niente e non importarmi di niente, ma…”
“Ma non saresti la mia Hermione!” mi ha interrotto lui. “Una Hermione stupida? E’ come immaginare un Piton simpatico. E’ assolutamente impossibile!” mi ha detto, cercando di strapparmi un sorriso. Ahimè, riuscendoci. “Ammetto che a volte sei pesante, questo non si può negare… ma io a chi chiederei di correggermi i compiti se non ci sei tu? Come farei a sapere come si chiama quella pozione se non ci fossi tu a dirmelo? E come farei a lezione se la tua mano ogni volta non mi cavasse un occhio nella furia di alzarla per rispondere ad ogni domanda?” ha aggiunto, indicandosi l’occhio ancora un po’ nero di qualche giorno fa, quando involontariamente l’ho colpito mentre alzavo la mano per rispondere ad Incantesimi. Sono arrossita. Ma lui ha continuato.
“Tu sei così, e sei insostituibile… vanti il record dell’unica studentessa che ha letto Storia di Hogwarts almeno una decina di volte… sei nostra amica, e ti apprezziamo così come sei, così come meriti… non devi cambiare e non devi pensare al giudizio degli altri. E poi… a me piaci così.”
Ho alzato gli occhi e ho incontrato il suo sguardo, amico, confidente, fraterno. Gli ho sorriso.
…Il resto della storia lo conoscete già.
   
 
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