A
radioactive,
che non sa,
e
ai pettorali di Narek.
Ogni rosa è preda dell’inverno.
«Nel volto, vivo
o morto, lei ti seguirà».
I vetri oscurati
dell’autovettura mostravano in parte i vari paesaggi di Panem
alternarsi, come nello schermo della vecchia televisione che suo padre aveva
posizionato davanti al divano. Non aveva avuto il tempo di dirgli addio, non
aveva detto a suo fratello quanto lo amava prima che lo caricassero sul treno e
lo trascinassero via, verso la morte che da anni tentava di catturarlo e farlo
suo, di mietere la sua anima stanca e malata.
Marja chinò il capo con gli occhi gonfi di lacrime, i lividi violacei sulle
braccia ed il corpo, dove le botte dei Pacificatori avevano lasciato il loro
segno, marchiandola come una traditrice, una criminale pericolosa per l’intero
stato. Ma lei non aveva fatto nulla, voleva solo salvare una vita, una vita
innocente.
Fece oscillare
le catene delle manette che le stringevano i polsi, che le graffiavano la pelle
e martoriavano le piaghe aperte. «Il re la colpì, quella dama rapì | nel mare
si rianimò | Il cielo più intenso, nel mare immenso | quei ladri qui, guidò»
intonò, ma uno dei Pacificatori le colpì una gota, costringendola a smettere.
Li sentì ridere mentre la sua guancia bruciava, ferita dal colpo. «Lasciala
stare, fra poco non canterà più!» affermò uno dei soldati della Capitale,
aprendo poi la portiera dell’auto. La spinsero giù con la forza, la tirarono
per i capelli fino alla scalinata di un imponente palazzo. Riusciva a vedere la
scritta dorata dominare il portone: Panem. Hodie. Crastinum. Perpetuum, diceva.
Non ci volevano degli studi per intendere cosa significasse, poteva benissimo
immaginarlo da sola. «Yoh – oh, la gloria corre nell’aldilà
| nel volto, vivo o morto | lei ti seguirà» canticchiò alzandosi a fatica,
trascinandosi lentamente lungo la gradinata. Erano le sue ultime parole, non
avrebbe più cantato, dopo.
«Yoh – oh, non c’è tregua, quella gloria vivrà» continuò
mentre uno dei Pacificatori le puntava la pistola contro la spina dorsale –
poteva sentirlo, il proiettile che le avrebbe trapassato la schiena se solo
avesse fatto un passo falso, un tentativo di fuggire. A loro non importava, non
importava: avrebbe varcato quella porta da
viva, o da morta – toccava a lei, decidere.
«Nel volto, vivo
o morto, lei ti seguirà» concluse, nello stesso istante in cui il portone si
chiuse dietro di lei, dietro la sua vita, la sua voce, la sua lingua.
Narek fissò gli occhi al molo, al legno vuoto e deserto, a quel posto che
solitamente era occupato da lei, da quei capelli del colore del tramonto. Si
aspettava – come per miracolo – di vederla comparire, di osservarla mentre sgusciava
fuori dall’acqua, bella come sempre, bella come le sirene. Ma lei non c’era
più, e non sarebbe più tornata a cantare per lui, per il suo marinaio che
sarebbe arrivato, prima o poi. Doveva arrendersi all’idea che la Sirena del
Distretto 4 se n’era andata, era morta assieme a quel ragazzino, a quel Tributo
ucciso nel Bagno di Sangue, trapassato dalla lama di una spada.
Immerse lo
spazzolone costringendosi a smetterla di pensare a lei, di sperare che un
giorno o l’altro l’avrebbe rivista, bella come sempre, e che sarebbe tornata a
cantare, ad intonare quella vecchia nenia che lui non riusciva a smettere di
fischiettare.
Era la rosa più
bella del mare, ma si sa: ogni rosa è preda dell’inverno.
Guardò il riflesso
della specchiera, osservò le sue ciocche rovinate e scolorite sfiorarle il
collo mentre le lacrime le rigavano lentamente le gote. Non osava aprire la
bocca, schiudere le labbra ed osservare il vuoto, il niente che avevano
lasciato al posto della sua lingua. Suo fratello era morto, e con lui era morta
anche Marja, la Sirena. Non aveva più un motivo per
vivere, per respirare, non poteva più cantare e tessere quella rete lunga come
i suoi capelli, infinita come il mare.
Era solo una senza–voce come
altri, non possedeva più un’identità, un nome ed una famiglia – ma la
personalità, quella non avrebbero potuto portargliela via. Si era fermata più
volte – nel Centro di Addestramento – ad osservare le conchiglie che ornavano
la tavola, che l’abbellivano e decoravano a festa, lì al piano riservato ai
Tributi del Distretto 4. Le avevano ordinato di servire lì solo per mostrare – a
chi l’avesse riconosciuta – quello che Capitol City fa ai ribelli come lei, a quelli che non
rispettano le leggi e tentano di mettersi contro la Capitale, contro il
Presidente.
Sarebbe stata di
esempio: la prova che nessuno può vincere
contro di loro.
Raccolse un
vassoio e lo portò fino alla stanza del tributo maschio di quell’anno, un certo
Narek Yakir che non aveva
mai sentito nominare, anche se i lineamenti del suo viso le erano familiari: lo
aveva già visto, da qualche parte.
Non incrociò il
suo sguardo nemmeno per un secondo, lui sembrava evitarla come si fa con i
malati, con gli ubriachi al porto, e qualcosa dentro di lei le disse che lui
sapeva, sapeva più di quanto avesse voluto. Abbandonò il porta vivande
girandosi in fretta, dandogli le spalle e uscendo, fischiando ancora quella
vecchia canzone.
“Là dove senti cantare fermati, gli
uomini malvagi non hanno canzoni.
Lèopold Sèdar Senghor”
• NdA;
Non chiedetemi da dove è uscita questa cosa, perché non lo so: davvero.
Volevo scrivere qualcosa su Marja e Narek, e mi è venuto questo.
Tutto è molto Licenza Poetica, ma ho dato sfogo ai miei deliri, ed ecco
qui che cosa è uscito.
Insomma, la canzone che canta Marja è “Issa la Bandiera” de “I
Pirati dei Caraibi” – sono fissata, lo so.
Narek è un OC di radioactive che potete trovare qui: Quando si
muore, si muore soli. 19th Hunger Games. Che vi invito caldamente a leggere, perché merita
davvero tanto. Garantito al Limone, insomma. ~
E per il resto non è ho idea. Se fa schifo: ditelo. Se vi è piaciuta:
ditelo.
Vado, sperando che a radioactive
abbia apprezzato, ma non lo so. Sì.
Adios. ~
~yingsu.