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Autore: arya_stranger    20/12/2013    2 recensioni
“Avevo la certezza che un giorno sarebbe successo qualcosa che avrebbe riscattato tutto il mio dolore, che mi avrebbe finalmente reso felice e libero dalle mie sofferenze.
Ho sempre sperato che accadesse e non ho mai mollato nemmeno nei momenti più difficili, mai. […] Ma non vi ho ancora raccontato nulla di me, allora cominciamo con le presentazioni, sono Gerard Way, e sono cieco dalla nascita.”
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ci sono delle cose che nella vita non andrebbero mai sottovalutate. Spesso la gente si lamenta di quello che ha, anche se è molto, e non pensa a quello che gli altri non hanno, semplicemente perché la maggior parte delle persone è egoista.
Basterebbe uno sguardo attento ad una qualsiasi occasione per capire quanta sofferenza c’è e quanto stupidi siano alcuni a lamentarsi.
Per esempio, i ragazzi sono sempre a piagnucolare di avere dei genitori troppo protettivi che non li lasciano uscire quando e dove vorrebbero o cose del genere. Tutto ciò non ha senso quando ci sono dei bambini e dei ragazzi che i genitori nemmeno ce li hanno, nessuno si dovrebbe permettere di non apprezzare i propri, per quando noiosi possano essere.
Io questo lo so bene, non che non abbia i genitori, ce li ho, quello era solo un esempio pratico. Ho dei genitori e sono anche piuttosto presenti anche se ormai ho ventitré anni e tecnicamente non ne avrei più bisogno.
Ritornando al discorso di prima, non sottovalutate mai quello che avete, perché può essere il dono più bello che possiate mai ricevere, fidatevi. Io dalla vita ho ricevuto tante delusioni, ma non me ne sono mai lamentato. Perché? Semplicemente avevo la certezza che un giorno sarebbe successo qualcosa che avrebbe riscattato tutto il mio dolore, che mi avrebbe finalmente reso felice e libero dalle mie sofferenze.
Ho sempre sperato che accadesse e non ho mai mollato nemmeno nei momenti più difficili, mai.
Ho imparato ad interagire col mondo anche se per me era molto difficile, ho cominciato ad apprezzare quel che avevo e alla fine ho trovato la mia strada.
Ho faticato, non lo nego, ma forse ne è valsa la pena e adesso non mi pento di nulla di tutto ciò che ho fatto. Nemmeno una piccola azione che mi possa anche minimamente far pensare di aver fatto una cazzata. Insomma, non è una cosa da poco, ci sono delle persone che se potessero rinascerebbero solo per evitare di ripetere gli stessi errori e vivere la vita come avrebbero voluto, ma secondo me è scorretto. Errare è umano e nemmeno dopo mille vite smetteremmo di sbagliare.
Ovviamente anche io ho fatto i miei sbagli, ne ho fatti tanti, ma invece di stare a rimuginare su questi, li ho archiviati e studiati attentamente così da non rifarne di uguali. È semplice: analizzi, capisci e non ripeti.
Tutto funziona secondo una schema logico e ordinato che non ammette intoppi, tutto deve essere posto secondo un preciso ordine.
E qui ecco il mio primo grosso sbaglio, di cui però non mi pento. Non avevo tenuto conto di una cosa, una cosa importantissima nella vita, ma che avevo erroneamente tralasciato e che fatalmente non seguiva questo schema. I sentimenti.
Non avevo calcolato la presenza delle emozioni e quando ci sono andato a sbattere contro mi sono ritrovato un po’ perso, ma ho cercato di rimediare come meglio potevo.
Sicuramente avrete le idee terribilmente confuse, e vi capisco, non vi ho ancora raccontato nulla di me. Bene, cominciamo con le presentazioni, sono Gerard Way, e sono cieco dalla nascita.  
 

Le mie giornate erano piuttosto monotone, ma tutto sommato non mi annoiavo mai.
Appena alzato, dopo colazione, mi sedevo sulla poltrona sotto la finestra della mia camera e rimanevo per molto ad ascoltare il rumore degli uccellini e delle macchine. Se mi alzavo presto riuscivo anche ad udire le voci dei bambini e delle madri che stavano accompagnando i figli a scuola. Era divertente stare lì a sentire tutti quei suoni, piacevoli o fastidiosi che fossero, era come ascoltare una bellissima melodia, quella dell’universo.
Quella mattina, però, era cominciata diversamente, la notte avevo dormito pochissimo a causa di insopportabili rumori esterni che non ero riuscito bene a decifrare.
Ero piuttosto nervoso, a me piaceva dormire, nel sonno nessuno mi poteva giudicare o prendere in giro, ero semplicemente io. Così avevo deciso di andarmi a sedere sulla mia solita poltrona comoda sotto la finestra. Ma nemmeno lì avevo avuto un momento di pace. Lily, la mia cagnolina, mi era saltata addosso, prendendomi alla sprovvista. Ero talmente assorto nei miei pensieri che non l’avevo sentita arrivare.
I miei mi regalarono Lily quando compii quindici anni, lei al tempo ne aveva tre, ed era stata appena addestrata per essere un cane guida. Le ho sempre voluto bene, ed è stata un cane eccezionale, forse un po’ troppo affettuosa e impetuosa.
Comunque alla fine si era seduta vicino a me, buona.
Ho sempre cercato di essere indipendente nonostante la mia situazione, non ho mai voluto essere un peso per nessuno, né per i miei genitori o tantomeno per mio fratello. Non perché non volessi il loro aiuto, semplicemente non credo sia giusto che loro debbano rovinarsi la vita per me. Sono cieco, e allora? Me la posso cavare, ho imparato a convivere con questa cosa, insomma, se nasci in una certa situazione, non ti sembra nemmeno strana, perché ha sempre fatto parte di te e lo sarà per sempre.
Comunque ho capito che completamente da solo non avrei mai potuto fare nulla di concreto.
Sono andato a scuola come tutti i ragazzi della mia età, anche se in classe avevo un insegnante di sostegno. Beh, non ne avrei avuto bisogno se avessi avuto degli amici di cui mi potessi davvero fidare, ma non ne avevo, e allora per spostarmi o fare anche le cose più semplici, avevo bisogno di qualcuno. Quando è arrivata Lily ero al liceo, ma con me non la potevo portare. Quando mi dissero che doveva rimanere a casa, il mio splendido castello di carta in cui potevo portarla a scuola cadde al sentire un lieve alito di vento e ne rimasi annientato.
Sono sempre stato orgoglioso e avere qualcuno che durante le ore scolastiche ti sta incollato non è una bella cosa, per niente. Se fosse stata una persona a cui volevo bene e che si preoccupava di me, avrei anche potuto accettare la cosa, ma quel fottuto insegnante non era nessuno per me, solo un cognome che mi scorrazzava per la scuola.
All’ultimo anno cercai di convincere i miei che non ne avevo bisogno, ormai mi sapevo perfettamente orientare e mi sarebbe bastato uno di quei bastoni che danno ai ciechi per ‘sopravvivere’. Mi ci volle un’estate intera per avere una loro parziale conferma. Mi dissero che mi avrebbero dato una settimana di prova in cui sarei stato seguito a distanza da quell’insegnante che mi pedinava dal primo anno, se non avessi avuto problemi sarei potuto diventare abbastanza indipendente, con solo l’accorgimento di uno speciale cercapersone che mi avrebbe consentito di chiamare quel famoso insegnante che stava comunque a scuola.
Il mio ultimo anno cominciò, così come la mia settimana di prova. Il primo giorno andò tutto sommato bene, solo una volta rischiai di rompermi l’osso del collo cadendo dalle scale d’ingresso, ma fui contento di me stesso.
Il secondo giorno come sempre mio padre mi accompagnò fino all’ingresso, entrai normalmente e andai in segreteria dove avvisai che ero arrivato, così che il mio pedinatore potesse seguirmi a distanza. Lo so che può sembrare ridicolo, ma vi assicuro che non è così.
Comunque sembrava andare tutto bene e la mattinata proseguì liscia come l’olio.
Pausa pranza, il momento più critico. Mi diressi alla mensa, presi da mangiare, ma cercando di raggiungere un tavolo libero caddi rovinosamente per terra, insieme al mio pranzo. Sentii arrivare il mio pedinatore di corsa e mi aiutò a rialzarmi. Nel frattempo mi resi conto che intorno a noi c’era un brusio fastidioso, una piccola folla si era radunata intorno a noi. Cercai di capire cosa stessero dicendo, ma forse sarebbe stato meglio se non l’avessi fatto.
“È quello cieco”, “sì, ma che fa?”, “ma perché era da solo, è cieco, come fa a girare per la scuola senza nessuno?”, “ma era solo?!”
Commenti come questi si diffusero piano piano in tutta la mensa. Vi ho già detto che sono davvero troppo orgoglioso, potete ben immaginare la mia reazione.
Trattenni le lacrime di rabbia e delusione verso me stesso e chiesi al pedinatore di portarmi in segreteria. Chiamai a casa con la scusa di un mal di testa e appena giunsi nella mia camera scoppiai a piangere.
Con quelle lacrime gettai fuori tutto quello che avevo dentro, fatto sta che compresi che avevo bisogno di qualcuno, da solo non ce la potevo fare.
Comunque durante quell’ultimo anno conobbi una ragazza e diventammo amici, si chiamava Emma.
Era davvero dolce e mi aiutava in tutto, non si tirava mai indietro, e durante quegli anni fu la mia salvezza.
Andammo all’università insieme, ma lì lei conobbe un ragazzo inglese e dopo la laurea mi annunciò che si sarebbe trasferita in Europa con lui.
Fu un brutto colpo, ma mi ripresi abbastanza in fretta. D’altra parte lei doveva costruirsi la sua vita ed io la mia.
Ovviamente mi laureai anche io, Belle Arti, e cominciai seriamente a dipingere. Lo avevo sempre fatto, ma così, per svago, da quel momento iniziai da vero pittore, se così mi posso definire.
No, non sto scherzando, sono davvero un pittore. Come faccio? Sono più che consapevole di essere cieco, ma di certo questo non mi ferma, anzi, mi da una spinta in più.
Amo prendere in mano il pennello, mescolare i colori. Il fatto di non vederli rende tutto ancora più eccitante e misterioso. La curiosità di vedere cosa è venuto fuori è tale che avvolte scoppierei, ma fa parte del gioco, non posso vedere le mie creazioni, e mai le vedrò.
Però la storia del pittore cieco è piaciuta a molti e mi guadagnai da vivere vendendo i miei quadri, ovviamente tutti molto astratti.
Dopo l’università passai poco meno di un anno a casa mia, per lo più dipingendo, poi compresi che non volevo essere un peso per i miei e decisi di trovare una soluzione. Mia mamma e mio padre cercarono in tutti i modi di persuadermi a non farlo, a non andare via, ma prima o poi loro sarebbero morti, e a quel punto di me che sarebbe stato? Mio fratello Mikey avrebbe messo su famiglia e io non potevo essere un fardello per lui, non volevo.
Con l’aiuto dei miei trovai una sorta di clinica per ciechi in New Jersey, accoglieva non vedenti di tutte le età. Il costo era piuttosto alto, ma lì avrei potuto continuare a dipingere e vendere i miei quadri per pagare l’istituto. Per fortuna potei portare Lily.
E così cominciò la mia vita in quel posto.
Come vivo lì ve l’ho già detto, ma ora è meglio riprendere da dove avevo lasciato.

 
Seduto su quella poltrona spesi quasi metà della mattina, fino a quando non sentii bussare alla porta.
“Avanti!” gridai. Era sicuramente Melanie, una delle infermiere più gentili che lavorasse nell’istituto.
E infatti non appena la porta si aperì sentii la sua voce allegra.
“’Giorno Gerard!”
“Ehi Melanie, come va?” chiesi.
“Bene, tu?” La senti armeggiare per la stanza e poi udii il fruscio di alcune coperte; stava rifacendo il letto.
“Normale” asserii.
Il fruscio di stoffa si fermò e sentii Lily che cominciava a scodinzolare e si allontanava da me. Melanie cominciò a parlare con la mia cagnolina e io sorrisi.
“Senti Gee” mi fece, “porto Lily a fare una passeggiata, vuoi che ti accompagni a fare colazione?”
Mi voltai nella direzione da cui proveniva la voce e sorrisi. “No grazie, non ho fame.”
“Bene, allora io vado, a dopo!”
Sentii dei passi, le zampe di Lily che toccavano il pavimento e poi il rumore della porta che si chiudeva con uno scatto.
Appoggiai la testa sulla mano, pensieroso.
Quel giorno non avevo voglia di fare nulla, ero stanco e svogliato, cosa che non mi succedeva quasi mai.
Dopo circa un’ora tornò Melanie  e mi disse che aveva lasciato Lily con Jeremy. Jeremy era un ragazzino che era stato mandato nell’istituto perché i suoi genitori erano entrambi medici e non avevano tempo di occuparsi di lui. Da quado ero arrivato lì aveva sempre amato giocare con Lily, e io glielo lasciavo fare.
Scendemmo nella sala comune e dal brusio doveva esserci quasi tutto l’istituto. Non eravamo molti, una trentina in tutto, per lo più giovani, dai dieci ai cinquant’anni, perché gli anziani andavano direttamente nelle case di riposo.
Io non avevo legato con nessuno, ero troppo riservato e solo qualche volta parlavo con Jeremy mentre giocavamo con Lily.
Mi sedetti sul grande divano di fronte alla tv, oggetto assolutamente inutile in un istituto per ciechi, ma questa cosa non la capirò mai, piuttosto comprate una radio!
Mi misi le mani in grembo e aspettai pazientemente che fosse ora di pranzo, anche se continuavo ad non avere fame.
Mi isolai completamente da tutto e tutti, non che fosse difficile, e cominciai a pensare.
Mi riscosse una mano posata sulla spalla.
“Ehi Gee,” era Melanie, “si mangia.”
Mi prese per una mano e mi portò gentilmente verso un tavolo, poi una qualche cuoca sconosciuta mi servì il pranzo.
Prendevo una forchettata dopo l’altra senza preoccuparmi realmente di quello che stessi ingurgitando, fino a quando sentii la voce della direttrice provenire da un tavolo un po’ più lontano.
“Fate un attimo di silenzio, devo dirvi una cosa importante!”
In meno di un minuto la mensa cadde nel silenzio e la direttrice si schiarì la voce per poi cominciare a parlare.
“Abbiamo deciso di dare il via ad un progetto di collaborazione fra l’istituto e le carceri del New Jersey.”
Okay, cosa c’entra un carcere con un istituto per ciechi?
“I detenuti devono svolgere lavori utili al sociale e io ho proposto che una parte di questi venga qualche volta qui, diciamo a farvi compagnia e a parlare con voi.”
Appena la direttrice ebbe finito di parlare un brusio si alzò, tutti parlavano fra loro, e in quella confusione non riuscii a capire nulla.
La direttrice non disse più nulla, e intuii che se ne fosse andata.
Io non sapevo cosa pensare, insomma, sarebbero venuti dei detenuti nel nostro istituto a farci compagnia e a parlare con noi. Ma chi aveva bisogno di parlare con dei detenuti? L’unica cosa che potevamo avere in comune era il fatto di essere entrambi una classe piuttosto discriminata.
Davvero non capivo il senso di questo progetto, ma forse, tutto sommato, sarebbe stato un modo per svagarmi e passare qualche ora al giorno a fare qualcosa che non fosse dipingere o stare seduto su una poltrona a sentire i suoni che provenivano da fuori.


Il resto della giornata fu assolutamente monotono, come sempre, solo che avevo qualcosa di nuovo a cui pensare. Durante il pomeriggio Melanie mi aveva detto che la prima visita dei detenuti sarebbe avvenuta il giorno seguente, ci sarebbe stato affidato un ragazzo o ragazza ciascuno. Erano tutti piuttosto giovani. Di fatto il progetto mirava al coinvolgimento in particolare di noi giovani da entrambe le parti. Beh, questo aveva un senso.


La mattina dopo mi svegliai disorientato. Non avevo dormito bene nemmeno quella notte e pensai che sarei morto per mancanza di sonno, sempre se era possibile, ma pensai che lo fosse. Comunque feci colazione velocemente e poi andai con Melanie e Lily a fare una passeggiata. Lo facevamo spesso, certe volte portavamo con noi anche Jeremy e andavamo nel bosco dietro l’istituto. Tecnicamente non ci sarebbe stato permesso farlo, ma in fondo non era nulla di male, e se qualcuno ci vedeva chiudeva un occhio. Però quella mattina Jeremy era impegnato con i compiti e andammo solo io e Melanie.
Non fu una passeggiata lunga, lei notò che non ero dell’umore giusto per parlare e dopo poco tornammo dentro.
Quando chiesi l’ora ad una delle infermiere di passaggio, mi fu detto che erano le 15:35 esatte e dopo qualche minuto arrivarono i detenuti. Sinceramente chiamarli detenuti non è che mi piacesse molto, ma tali erano e non avevo soprannomi carini da affibbiare loro.
C’erano anche degli agenti di polizia che ripeterono esattamente quello che aveva detto la direttrice dell’istituto il giorno prima.
Melanie mi aveva avvisato che non erano detenuti pericolosi. Non ci avrebbero mai dato la compagnia di soggetti potenzialmente dannosi alla nostra salute fisica e volendo anche mentale.
Sentivo tante voci che si confondevano fra di loro e non riuscivo a distinguerle. Però ne sentii qualcuna familiare e capii che i più a parlare erano i miei compagni d’istituto. Evidentemente questi fantomatici detenuti non erano molto loquaci.
Sentii Melanie che chiamava il mio nome e mi diressi in quella direzione.
“Allora Gerard” cominciò entusiasta, “starai tutto il pomeriggio con un ragazzo molto simpatico.” Come faceva a dire che era simpatico se molto probabilmente era la prima volta che lo vedeva? Ignorai questo particolare e la lasciai continuare. “Si chiama Frank, ha diciannove anni, solo quattro in meno di te. È qui davanti a te.”
Portai la mano in avanti con l’intenzione di stringere la sua, fortunatamente il ragazzo capì e me la prese.
La sua mano era morbida e forte allo stesso tempo, capii che non doveva essere molto grande e di conseguenza il ragazzo non sarebbe dovuto essere molto alto. Aveva una presa salda e gentile allo stesso tempo. Era tutto pieno di contraddizioni, ma a me piacciono le cose così.
“Piacere” feci, “mi chiamo Gerard.” Sorrisi come meglio potevo, a dire la verità non lo facevo spesso, principalmente perché nessuno mi capiva e quindi non meritava i miei sorrisi, ma quel ragazzo era come me, un emarginato.
“Io sono Frank.”
A quel punto sentii qualcuno che faceva un passo indietro, dal rumore del tacco delle scarpe capii che era Melanie. “Ragazzi” disse, “io vado. Voi potete stare nella camera di Gerard o rimanere nella sala comune, ma è meglio se per oggi non uscite.”
Sentii che se ne andava e io rimasi lì fermo, non che potessi andare in molti posti.
Lui non diceva nulla, percepivo la sua presenza lì davanti a me, ma stava zitto. Decisi di parlare. “Senti, possiamo andare in camera mia? Non mi piace la confusione.”
“Va bene” acconsentì.
Sapevo benissimo andare dalla sala comune fino alla mia stanza senza l’aiuto di nessuno ed ero convinto che se avessi potuto vedere la faccia di Frank, vi avrei trovato un’espressione stupita. Beh, lo potevo capire, quando conosci un cieco non pensi che possa andare da un posto all’altro da solo, senza qualcuno che lo aiuti ma, mancandoci la vista, sviluppiamo maggiormente gli altri sensi, come il tatto, l’udito e l’olfatto. E comunque mi sapevo adattare piuttosto bene e cercavo di memorizzare il prima possibile un luogo.
Quando arrivammo davanti alla mia stanza protesi una mano in avanti e spinsi la maniglia verso il basso aprendo la porta.
Sentivo lui che mi seguiva. Appena entrai sentii Lily che abbaiava e che mi veniva incontro. Chiusi la porta e dopo mi abbassai per accarezzarla. Quando mi faceva le feste io mi sedevo sempre per terra con le ginocchia posate sul pavimento freddo, lei appoggiava le zampe anteriori sulle mie gambe e spesso mi leccava il viso.
Dopo un po’, quando si stancò  di essere accarezzata, se ne andò e io mi rimisi in piedi, cercando di capire dove fosse il ragazzo. Lo sentii tossire e mi voltai verso la sua direzione.
“Allora” disse, “che facciamo?”
Alzai le spalle e andai verso la poltrona sotto la finestra. “Ti puoi sedere sul letto, se vuoi” lo invitai.
“Sono già seduto” fece. Non avevo sentito il fruscio della stoffa del piumone che c’era sul letto, forse ero impegnato con Lily.
“Okay” annuii, “che vuoi fare?”
Lo sentii sbuffare. Era più che ovvio che sarebbe voluto essere in un altro posto. Be’, anche io l’avrei voluto, magari un mondo parallelo in cui vedevo ed ero felice, ma non era possibile. Come ho già detto bisogna accontentarsi di quello che si ha senza lamentarsi troppo, perché domani potremmo avere anche meno.
“Senti” cominciai, “tu non hai voglia di stare qui con me, e nemmeno a me importa così tanto, però dobbiamo, e visto che non sappiamo per quanto andrà avanti questa storia, ci merita trovare qualcosa da fare!”
Sentii che si muoveva sul mio letto. “Hai ragione.”
“Bene.” A quanto pare il mio discorso non aveva avuto dato molti frutti perché rimanemmo almeno dieci minuti buoni senza dire nulla. Nemmeno io sapevo cosa avremmo potuto fare o anche solo dirci.
Sospirai pesantemente, cercando di rompere quel silenzio che nemmeno Lily si era disturbata a infrangere.
“Come si chiama il cane?” fece lui all’improvviso.
Mi riscossi, e mi voltai in direzione della sua voce. “Lily.”
“Da quanto ce l’hai?”
“I miei me l’hanno regalata per i miei quindici anni. Sono passati otto anni.”
“Oh” tossì, “capisco.”
“Hai mai avuto un cane?” chiesi io.
“No, ma da piccolo avevo un gatto, si chiamava Jack o qualcosa così…”
“Io sono allergico al pelo dei gatti, ma penso siano molto belli” affermai. “Comunque lei è una cane guida, mi è stata molto d’aiuto.”
“È davvero un bel cane, è un labrador, vero?” Annuii. Be’, non avrei mai potuto dire se era un bel cane o no.
“E da quanto sei in questa clinica?” continuò con le domande. La cosa mi stava dando un po’ sui nervi. Insomma, se le domande le faceva perché aveva davvero voglia di parlare con me, allora okay, ma se mi faceva l’interrogatorio solo per passare il tempo senza addormentarsi, allora la cosa mi dava parecchio fastidio. Decisi però di rispondere. “Dopo la laurea ho passato qualche mese a casa dei miei e poi sono venuto qui. Non volevo essere un peso per loro e con i soldi che guadagno dai miei dipinti mi posso pagare questa clinica, o istituto, come lo vuoi chiamare.”
In realtà io l’avevo sempre chiamato istituto, ma forse la parola ‘clinica’ era più adatta. In ogni caso non era un mio problema.
“Dipingi?!” Sicuramente in quel momento la sua bocca era spalancata dallo stupore.
“Sì, l’essere cieco mi impedirebbe di fare molte cose, ma cerco di ignorare questo fatto e di farle comunque.”
“Wow” esclamò, “mi piacerebbe vedere i tuoi dipinti.”
“Forse” rimasi sul vago, “un giorno. E tu che fai?”
“Nulla” disse secco, “sto in carcere a non fare nulla dalla mattina alla sera.”
“Potresti leggere, o scrivere” proposi. “Secondo me uno scrittore detenuto diventerebbe famoso.”
“Tu dici?” Aveva la voce scocciata.
“Scusa” dissi io subito. “Non ti volevo offendere, era solo per spezzare il ghiaccio.”
“Tu però dopo averlo rotto sei cascato nell’acqua gelida.”
“Vedi?” chiesi soddisfatto. “Hai appena detto una frase molto poetica, potresti scrivere davvero.”
“Smettila, non è divertente!”
Io in realtà non volevo fare lo spiritoso, volevo solo fare un po’ di conversazione e cercare di passare un po’ di tempo insieme a quel ragazzo. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo. Ci avevano costretto a fare quella cosa, tanto valeva approfittarne, no?
Rimasi in silenzio, senza dire nulla, aspettando che questa volta fosse lui a dire qualcosa, ma lui sembrava non volere più parlare.
Sentii Lily che si alzava e veniva verso la poltrona su cui ero seduto, appena fu ai miei piedi mi sporsi in avanti e l’accarezzai.
“Posso accarezzarla?” domandò Frank.
“Certo” risposi un po’ confuso. Nessuno mi aveva mai chiesto una cosa del genere, la gente lo faceva e basta. Si vedeva che era un cane buono che non avrebbe mai fatto del male ad una mosca, ma per qualche ragione lui me l’aveva chiesto. Forse per la mia situazione, o forse per un motivo che non riuscivo a capire.
Frank chiamò Lily e la sentii avvicinarsi al letto su cui era seduto.
Non riuscii bene a capire cosa successe dopo, ma sicuramente Frank si era seduto per terra per giocare con il mio cane.
Il resto del pomeriggio fu abbastanza noioso, non parlavamo molto, e per lo più ci limitavamo a farci delle semplici domande di circostanza. Non sapevo perché non riuscissimo a fare una conversazione che durasse più di un minuto, speravo solo che nei giorni seguenti la cosa migliorasse.
Frank se ne andò con gli altri poco prima di cena e io rimasi da solo, come sempre d’altronde.


Nemmeno quella notte riuscii a dormire. Di quel passo mi sarei fatto dare qualcosa per poter riposare almeno un paio di ore. Nonostante tutto la mattina mi alzai che non ero affatto stanca, anzi, anche se ero  piuttosto triste, ero pieno di energie. In ogni caso mi ero dimenticato come fosse essere felice, quel sentimento mi aveva abbandonato tempo prima e non sapevo se un giorno sarei mai riuscito a tirarlo fuori del mio cuore. Perché avevo la certezza che dentro di me ci fosse ancora tanta voglia di vivere, però non riuscivo a darle un motivo per venire fuori e travolgermi.
Mi vestii velocemente quando sentii bussare alla porta. “Avanti!” gridai.
“Buongiorno!” Era Melanie. “Oggi tornerà Frank, però sono state organizzate delle attività all’aperto.”
Wow, fantastico. Non ero per nulla entusiasta. Melanie se ne accorse.
“Cosa c’è che non va?” mi chiese premurosa.
“Nulla, non ti preoccupare.” Cercai di sorriderle, ma non con molto successo.
“Gerard” mi ammonì. Non le volevo dire che quella cosa non mi andava affatto, che avrei voluto diventare amico di Frank, ma che non sapevo mai cosa dire e o cosa fare, non che potessi fare molto, comunque.
Ignorai la sua voce che mi incitava a dire cosa avevo, ma alla fine dovetti cedere e le raccontai quello che era successo il giorno prima, o meglio, quello che non era successo.
Durante il mio piccolo racconto ci eravamo seduti sul letto, e quando finii la sentii sospirare.
“Gerard” fece, “non c’è un modo per diventare amici o per stare bene insieme, devi solo essere te stesso, essere naturale.”
“Be’, è quello che ho fatto” le feci notare.
“Evidentemente no, altrimenti non sarebbe andata così!”
“Ma mi sono comportato come avrei fatto con chiunque…” Mi interruppe bruscamente.
“Ecco dove sbagli!” esclamò. “Tu con gli altri non ti comporti naturalmente, ma fai quello che gli altri si aspettano da te, e lo fai così bene che confondi l’essere naturale dal fare quello che fai sempre.”
“Questo vuol dire che sono una persona falsa?”
“Assolutamente no.” Mi mise una mano sulla spalla. “Vuol dire che non vuoi aprire il cuore alle persone.”
“In che senso?” Non capivo dove volesse arrivare.
“Gerard, tu non sei falso, ma pensi che il mondo non ti capisca…”
La interruppi. “Ma è vero che il mondo non mi capisce!”
“No, o almeno” si riprese, “non tutti. Frank è nella tua stessa situazione, è un ragazzo che è sempre stato lasciato da parte, lui ti capisce.”
“Come faccio a sapere che è così?”
“Come fai a sapere che non è così?”
Melanie mi conosceva abbastanza bene, ma non avrei mai pensato che avrebbe potuto darmi così tanti consigli. Era come un’amica per me, e mi capiva davvero. Non avevo mai fatto caso a come mi trattasse, ma lo faceva come se fossi una persona normale, non che non lo fossi, ma molti avrebbero trattato un cieco con i guanti, eppure lei non lo faceva e questa cosa era bellissima.
“Grazie mille.” Questa volta le sorrisi sinceramente, dal cuore. Sicuramente ricambiò.
“Di niente Gerard, quando hai bisogno chiedi pure.”
“Va bene” annuii.
“Senti, adesso tu va di sotto a fare colazione mentre io sistemo un po’ del tuo casino.”
Risi e uscii dalla porta.


Arrivarono subito dopo pranzo. Ci divisero in sei gruppi, non capitai in quello di Frank, ma Melanie mi aveva detto che dopo la passeggiata che era stata organizzata si sarebbero riformate le ‘coppie’ del giorno prima e avremmo potuto fare quello che volevamo però all’interno della clinica.
Andammo nel boschetto attiguo all’istituto, eravamo in dieci, cinque provenivano dalla prigione e cinque dall’istituto in cui ero anche io.
Il risultato di quella passeggiata fu solo un male ai piedi allucinante, e inoltre ero stanco morto quando ritornai nella mia camera, con Frank. Sì, perché quello era il momento di stare con quel ragazzo, e anche quel giorno avevamo deciso che la sala comune era troppo affollata.
Ci mettemmo negli stessi posti del giorno prima, io sulla poltrona e lui sul letto.
Nella mia testa risentii tutto quello che mi aveva detto Melanie quella mattina. Dovevo essere me stesso, solo e sempre me stesso, e non quel Gerard che volevo mostrare agli altri, ma il vero Gerard che avrei mostrato a Frank.
“Come va?” domandai semplicemente.
“Bene, tu?” disse un po’ impacciato.
“Sono stanco morto!”
Rise. “Anche io, quella passeggiata mi ha fatto venire un mal di pedi che non ti dico.”
“Io non me li sento più.” In effetti al posto dei piedi avevo due mattonelle che pulsavano dal dolore.
Scoppiamo a ridere entrambi, e se vi dico che non ricordavo l’ultima volta in cui avevo riso in quella maniera, mi dovete credere, non la ricordavo davvero. Non so come, ma quel ragazzo era riuscito dove mille avevano fallito, e lo conoscevo da poco meno di due giorni. Forse era una specie di supereroe con il potere di far ridere la gente. Beh, non la esclusi come ipotesi.
Alla fine mi faceva male anche la pancia dal ridere, oltre ai piedi.
“Era da tantissimo che non ridevo così” disse lui nel tentativo di calmarsi.
“Anche io” feci.
“Be’, almeno oggi non ci stiamo annoiando” osservò lui.
Sorrisi senza rispondere.
Dopo un po’ eravamo tornati entrambi seri, ma non eravamo più quelli di prima, una semplice risata ci aveva uniti, non so come, ma era successo.
Sentivo il suo respiro che lentamente tornava regolare, come il mio, e se mi concentravo potevo anche sentire le sue mani che stringevano il piumone o che si strusciavano fra loro.
Mi alzai dalla mia poltrona e mi diressi verso il letto su cui era seduto Frank.
“Posso sedermi accanto a te?” gli domandai.
“Certo.” Mi prese la mano e mi fece mettere esattamente accanto a lui.
“Senti”, richiamai la sua attenzione, “lo so che non è una bella domanda da fare, ma perché sei in prigione?”
Cercai di formulare la domanda con più tatto possibile, era sempre una questione delicata, e non volevo obbligarlo a parlare se non voleva. Però ero curioso, dal suo atteggiamento non mi sembrava una persona che potesse stare in carcere, quindi, o ci stava ingiustamente, o qualcosa lo aveva fatto cambiare.
Sospirò. “Io…” cominciò, “è difficile da spiegare.”
“Capisco” abbassai la testa, “non importa, fa lo stesso.”
Si schiarì la voce. “No, te lo voglio raccontare.”
Ero davvero stupito, dopo tutto ero sempre un mezzo sconosciuto. “Sicuro?”
“Sì, sicuro. Però per capire ti devo raccontare un po’ anche la mia vita prima di tutto questo.” Si prese un momento e poi cominciò a raccontare. “Sono nato in una cittadina non molto lontana da qui. Mio padre faceva il meccanico e guadagnava pochissimo, e mia madre stava a casa perché suo padre non voleva che lavorasse. In realtà io non sarei nemmeno dovuto nascere, non volevano figli. I soldi che avevano erano appena sufficienti per loro due, ma venni al mondo, e non se la sentirono di darmi a un orfanatrofio o in adozione. Mio padre era sempre via e io stavo con mio madre tutto il giorno, avevamo un bel rapporto nonostante tutto, ma ho sempre odiato mio padre. Mi considerava uno stupido e un peso, e per un periodo ho anche pensato di esserlo. Insomma, se da sempre ti senti dire che sei un buono a nulla, uno schifo e cose così, alla fine pensi che sia vero. Comunque, cominciai ad ignorare quello che mi diceva. Una sera, quando ero al liceo, tornai a casa che puzzavo di fumo e alcol, non so come se ne accorse. Mi picchiò così forte e per così a lungo che rimasi lì in salotto dove mi aveva lasciato, non riuscivo nemmeno ad alzarmi per andare in camera mia. Ovviamente mia mamma non c’era, era da mia nonna. Tornò la mattina dopo e mi trovò per terra in quelle condizioni. Non l’avevo mai vista piangere. Mio padre picchiò anche lei.”
Si fermò un attimo, durante le ultime parole la sua voce aveva cominciato a tremare. Mi avvicinai a lui e gli presi una mano.
“I miei divorziarono e io e mia madre ci trasferimmo. Però lei non lavorava e io andavo a scuola. I soldi dell’assistenza sociale non ci bastavano, quindi a diciassette anni lasciai la scuola e trovai un piccolo lavoro da apprendista. Ma mia mamma si ammalò di cancro, spesso non potevo andare al lavoro per portarla a delle visite o semplicemente perché non la volevo lasciare da sola. Non avevamo soldi, non sapevo come curarla, non sapevo come darle da mangiare, non sapevo cosa fare. Tu cosa avresti fatto?” Cominciò a singhiozzare rumorosamente e gli stinsi più forte la mano. “Chiesi a dei vecchi amici un piccolo aiuto, ma a quanto pare non erano dei veri amici. Non mi rimase che rubare dalla cassa del piccolo negozio in cui lavoravo. Lo feci una prima volta, e nessuno se ne accorse, incassavano così tanto che non si rendevano conto se mancava poca roba, e allora lo feci ancora e ancora, senza mai dire a mia mamma da dove venissero quei pochi soldi in più. Il prezzo per le sue cure aumentava e io dovevo rubare sempre di più. Mi sentivo in colpa quando lo facevo, ma nemmeno così tanto perché potevo vedere mia madre sorridere perché stava maglio e non mi importava se quei soldi non me li ero guadagnati. Un giorno mi beccarono, andai via dal lavoro tranquillo, ma quando arrivai a casa ad aspettarmi c’era la polizia e mia madre che piangeva disperata. Mi processarono, mio padre testimoniò contro di me, anche senza sapere nulla, e dopo poco mia madre morì. Non so se per il dolore o per il cancro, ma non fa differenza.”
Non riuscì più a trattenersi e scoppiò a piangere. Gli misi un braccio intorno alle spalle e lui poggiò la testa al mio petto. Non volevo che andasse a finire così. Certo, mi aveva raccontato tutto, quindi si fidava, ma non avrei mai voluto farlo piangere, perché se lui stava singhiozzando sul mio petto era solo colpa mia. Ero stato io che avevo portato a galla quei ricordi e non riuscivo a non stare male sapendo che soffriva a causa mia.
Cominciai ad accarezzargli piano i capelli mentre lui continuava a piangere senza sosta.
Alla fine si calmò e mi fece una domanda. “Perché?” In realtà non mi aveva chiesto nulla, ma io avevo capito tutto. Voleva sapere perché io lo capivo davvero. “Perché io sono come te.”
Rimanemmo in quella posizione, seduti sul mio letto abbracciati, finché non arrivò Melanie che disse a Frank che era ora di andare. Io non avrei voluto che se ne andasse, ma non potevo certo nasconderlo da qualche parte e dire che non l’avevo mai visto.


Frank veniva alla clinica più o meno quattro volte a settimana, e stavamo sempre insieme. Se il tempo lo permetteva andavamo fuori, altrimenti stavamo nella mia camera a parlare. Un giorno gli mostrai anche i miei dipinti. Si innamorò di uno in particolare, e quando gli chiesi perché lui rispose ‘perché ci sei tu dentro questo quadro.’ Non capivo cosa volesse dire esattamente, e non lo capii nemmeno dopo.
Erano passati quasi otto mesi dal nostro primo incontro quando lo baciai la prima volta.


Era una mattina freddissima, ero uscito con Melanie per portare un po’ fuori Lily, ma rientrammo subito per evitare di morire congelati o in alternativa seppelliti dalla neve che stava cominciato a cadere. Di lì a poco sarebbe arrivato Frank, anche per pranzo.
Mi feci una doccia veloce e scesi ad aspettarlo. Mi sedetti su uno dei divani che c’erano davanti a quell’inutile televisione e attesi.
“Gerard vieni!” Era Melanie che urlava, mentre veniva da me.
“Che è successo?” domandai agitato.
“Frank!” Non appena le sentii pronunciare quel nome scattai in piedi e lei mi prese una mano.
Mi portò fuori di corsa ma si fermò di scatto. Nevicava ancora, sentivo i piccoli fiocchi che si posavano freddi fra i miei capelli e sui miei vestiti.
“Melanie” dissi disperato. “Che è successo?”
“Non appena Frank è arrivato è scappato verso il bosco, l’hanno trovato mezzo nudo sulla neve e…” Parlava velocemente e io ero confuso.
“Dove è adesso?” chiesi sbrigativo.
“È lì dove l’hanno trovato, gli hanno dato una coperta, ma ha mandato via tutti e dice che vuole parlare solo con te.”
“Portami da lui.”
Camminammo per qualche minuto e alla fine Melanie si fermò. “Io vado” mi sussurrò.
“Gerard!” Era Frank, lo sentii che correva sulla neve e alla fine mi gettò le braccia al collo. Scoppiò a piangere come quella volta che mi aveva raccontato la sua storia e lo sentivo che tremava abbracciato a me.
“Ehi, shh.” Cercavo di calmarlo come meglio potevo, ma lui non riusciva a smettere e non si staccava da me. Se avessi potuto lo avrei preso in braccio e lo avrei riportato indietro, ma non sapevo la strada.
Sperai che Melanie non si fosse allontanata di tanto e come se l’avessi chiamata arrivò da dietro e mi mise una mano su una spalla. “Viene, portalo dentro.”
Presi Frank in braccio e lui mi lasciò fare poi, con Melanie che mi teneva una mano sulla spalla per guidarmi, tronammo dentro. Lo portai in camera mia e, non senza qualche problemino, lo infilai dentro le coperte, io mi distesi accanto a lui. Dopo poco sentii il suo respiro che si faceva pesante, così mi addormentai anche io.


“Gee, Gee.” Mi svegliai. Frank mi chiamava, mi rivoltai nel letto.
“Ehi” lo salutai, “come stai?”
Non rispose, si avvicinò a me e posò la sua testa sul mio petto. Gli cinsi le spalle con il mio braccio. Non aveva praticamente nulla addosso, era ancora come quando lo avevano trovato in mezzo alla neve. Mi sporsi un secondo dal letto e presi una t-shirt che sapevo di aver lasciato sul comodino il giorno prima. Gliela porsi e sentii che se la metteva.
“Frank”, volevo delle spiegazioni, “voglio sapere cosa è successo stamattina. Cosa credevi di fare disteso senza niente addosso in mezzo alla neve?”
“Mi prometti che non ti arrabbierai?”
“E perché mi dovrei arrabbiare?” domandai.
“Va bene” sospirò. “Stamani, prima di venire qui, mi hanno detto una cosa.” Ricominciò a piangere.
“Ehi Frankie, dai, non piangere.”
“Okay,” disse lui tirando su col naso. “Mi hanno detto che mi trasferiscono.”
“In che senso?” Avevo capito benissimo, ma finché non l’avesse detto non ci avrei creduto.
“Gerard, non ci vedremo più.”
“Volevi…” non riuscivo a finire la frase. “Volevi morire.” E non era una domanda.
“Io non voglio vivere senza di te.”
Non riuscivo a dire più nulla, non avevo parole, non volevo che accadesse, non poteva accadere. Non prima di avergli fatto capire quello che lui era stato per me in tutto quel tempo, quello che aveva fatto, anche inconsapevolmente, per farmi stare bene, per rendermi felice. Perché lui mi aveva reso davvero felice, in tutti i sensi possibili. Mi aveva fatto capire quanto potesse essere bella la vita, mi aveva dato qualcosa in cui credere, una fiamma di speranza che mi spronasse ad andare avanti. Lui era quella cosa che tanto avevo aspettato e che alla fine era arrivata, era la mia salvezza. E soprattutto, era stato i miei occhi, e io ero stato la sua forza.
Avrei voluto piangere anche io, ma sarebbe stato inutile, quindi ricaccia indietro le lacrime.
Erano quelli i momenti in cui odiavo essere cieco, avrei voluto vedere il bel viso di Frank, perché sapevo che era bello, avrei voluto vedere il suoi occhi, mi aveva detto che erano nocciola ma non avendo mai visto un colore per me era come se non avesse detto nulla. Tempo prima mi aveva anche detto che i miei non avevano un colore preciso, immaginavo per via della mia cecità, ma disse anche che poteva sembrare un verde un po’ sbiadito.
Passammo tutta la sera sotto le coperte, abbracciati, senza dirci nulla, ma a quel punto le parole sarebbero state piuttosto superflue.
Dopo un po’ sentii Frank che accanto a me si tirava su a sedere.
“Gee?” mi chiamò.
“Mh?”
“Ti posso dire una cosa?” chiese. “È da tanto che avrei voluto dirtela, ma non ho mai trovato il coraggio. Però ora devo, perché forse non ne avrò più l’occasione…”
Non lo lasciai finire di parlare, avevo già capito cosa voleva dire.
Gli presi il viso con una mano e l’avvicinai al mio, aspettai qualche secondo per vedere se si ritirava o no, poi feci combaciare le nostre labbra.
Le sue erano terribilmente morbide e calde. Sentii una lacrima che finiva sulle sue labbra e sulle mie. Stava piangendo.
“Ehi”, mi staccai dalla sua bocca abbracciandolo, “perché piangi?”
Lo sentii singhiozzare. “Nessuno mi aveva mai baciato così” disse con la voce che gli tremava.
Sorrisi e ripresi a baciarlo. Lui ricambiò e schiuse piano le labbra.
Non avrei mai pensato che il nostro primo bacio sarebbe stato molto probabilmente anche l’ultimo, e non volevo che accadesse. Avrei dovuto farlo tempo prima, ma avevo paura della sua reazione e a quanto pare anche per lui era lo stesso.
Presi ad accarezzargli dolcemente i capelli con una mano e lui mi prese l’altra e me la strinse. Sciolsi la prese dai suoi capelli e gli accarezzai la schiena. Lo sentii rabbrividire e lo avvicinai ancora di più a me facendo combaciare anche i nostri petti.
Ci mancava un po’ il respiro per la foga, ma nessuno dei due aveva intenzione di interrompere il bacio, a costo di morire soffocati. Avevamo aspettato troppo tempo.
Lo misi disteso sul letto, lentamente senza che le nostre labbra si scollassero. Smisi un attimo di baciarlo e gli sfilai la maglietta che gli avevo dato non troppo tempo prima e gli accarezzai il petto liscio.
Non so perché avessimo aspettato tutto quel tempo per capire che ci amavamo e che eravamo l’uno dell’altro, ma non mi lamento perché avremmo anche potuto non accorgercene mai.
“Mi ricorderò di questa notte quando sarai andato via” dissi calmo.
“E io mi ricorderò dei tuoi occhi quando me ne andrò.” I miei occhi…
Stavo per riprendere a baciarlo quando sentii come una voce nel cuore che mi suggeriva di dire tutto, perché quello era il momento giusto.
“Ti amo Frankie.” Gli sussurrai quelle parole nell’orecchio, come fosse un segreto.
“Ti amo anche io Gee.”
E nonostante continuassi a vedere tutti buoi capii una cosa fondamentale. Non che l’avessi sperimentata di prima persona, ovviamente non potevo, tuttavia le conoscenze che avevo acquisito durante la mia vita mi consentivano di fare un’osservazione quasi di importanza vitale.
Non avrei mai visto la luce, né nessuna delle cose che popolavano il mondo. Sarei per sempre vissuto nell’oscurità, ma sono nelle tenebre le stelle possono brillare. E se io ero la notte, Frank era la mia stella, e lui brillava più intensamente di ogni altro astro del cosmo. Prima vedevo solo le ombre della luna, adesso riuscivo a scorgere anche il baluginio di un corpo celeste.
 

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