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Autore: AsanoLight    20/12/2013    1 recensioni
Ambientato quando ancora Hirato era giovane ed apprendista alla Chrono Mei.
Una molto soft Hirakari ♥
« Guardò la Luna ed allungò una mano verso la finestra.
Voleva afferrarla e trascinarla a sé, vicina per non lasciarla mai più andare.
Non si nasce liberi. In quel mondo non c'era maniera per esserlo. I civili erano soggiogati dalla loro debolezza, dal non poter vincere i Varugas, costretti a piegarsi ai loro ordini e voleri.
Ma entrare nel Circus non rendeva a sua volta liberi. Era una prigionia, non un semplice 'lavoro'.
Era il loro sistema. »
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Akari, Hirato, Tsukitachi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I gave you Love
You gave me Freedom





Aprì con un calcio la porta, sprizzava vivacità da ogni poro della pelle. Non avrebbe preso sonno facilmente quella notte. Le feste alla Chrono Mei non erano mai un gran che e nessuno si era mai lamentato di ciò, tantomeno lo era stata quella celebrazione di Halloween. Non era una comune scuola –quella. La si sarebbe potuta definire, senza tanti preamboli o convenevoli, un centro d'addestramento alla battaglia ed al contempo una preparazione alla sofferenza, al dolore e, un giorno, alla probabile morte.
Le feste non erano un’evenienza alla quale dover dare valore.
Erano i civili quelli che avevano il compito di svagarsi, di dilettarsi, di sollazzarsi con tali piccolezze dimenticandosi dei problemi, del male nel mondo, della disperazione e dello sporco che li circondava. Ma loro un giorno avrebbero lavorato nel Circus, per il Circus. Sarebbero divenuti le bestie che le persone andavano a vedere alle parate, quelle che amavano tanto osservare, le stesse alle quali applaudivano come folli invasati da una qualche divinità, animati da chissà quali spiriti. Tutto ciò che per loro era comune, semplice e non necessario, per i civili era degno delle loro urla estatiche ed entusiaste.
Hirato si pulì la spallina della nera mantella passandoci il dorso della mano, impiastricciandoselo di schiuma verde, la stessa che un suo compagno di corso, più grande di lui di forse due o tre anni, gli aveva spruzzato addosso schernendolo. Si voltò verso Tsukitachi, allora intento a rotolarsi sul suo stretto materasso, con la maglietta sporca di briciole, e tirò un greve sospiro. Il ragazzo sembrava essersi accorto di venire osservato ma non disse nulla, restò piuttosto sdraiato sul suo letto lasciandosi scrutare, come un gatto appollaiato sul davanzale si lascia indifferentemente ma al contempo sensualmente ammirare dalle signore che passano per la via e che, sottovoce, commentano la sua bellezza. Ma Hirato, a differenza delle donne, non si esprimeva quasi mai, era avaro di parole o –molto più semplicemente, non aveva nulla da dire, e nel suo sguardo non c'erano segni di apprezzamento a proposito del suo corpo né di gradimento di quella compagnia.
Tutto gli passava davanti, nulla lo interessava, la vita, più che viverla, la subiva.
Ogni suo comportamento confermava sempre più le ipotesi del giovane e vivace ragazzo dai rossi capelli. E, anche quella sera, era successo allo stesso modo. Se ne era rimasto seduto sul divano della sala principale, elucubrando su chissà cosa, con lo sguardo fisso sul lontano muro, vacuo e disperso. Per un istante gli era parso esamine, aveva tenuto quella smorfia ieratica sul volto per tutta la serata, come se il terribile ed assordante volume della musica e le grida divertite dei suoi compagni non l'avessero minimamente scalfito. Era come un marmo greco, Hirato. Se qualcuno quella sera gli avesse dato un pugno in faccia, non avrebbe fatto nemmeno una piega. E l'idea, in un certo senso, quasi tentava in quel momento Tsukitachi, che aveva improvvisamente deciso di sfilare dalla tasca della mantella un biscotto porgendolo al compagno di stanza.
«Prendi, musone», disse sereno in un ampio e beffardo sorriso a trentadue denti, «Non hai toccato cibo per tutta la serata. Non mi dirai mica che non hai fame?». Il corvino restò freddo e distante, le mani congiunte all'altezza del bacino mentre sedeva annoiato sul suo letto. Lasciò scorrere lo sguardo pigro sul dono che gli aveva porto il rosso e tacque, come se parlare gli fosse costata un’enorme fatica, sperando che, da quella sua lunga pausa, il rosso potesse intendere da sé la risposta. Non poteva negarlo. Aveva davvero fame, tanta da non reggersi nemmeno in piedi ma non gli sembrava il caso, quello di mangiare a quell'ora della notte. Sarebbe stato più saggio rispettare il regolamento dei pasti e fare colazione come tutti gli altri all'alba del giorno successivo.
Sbuffò Tsukitachi e ritrasse la mano notando il suo silenzio.
Hirato era strano, era davvero strano ma gli piaceva per questo motivo. Non c'era nulla che non amasse veramente osservare di lui e, più a lungo lo scrutava, più riusciva a leggergli dentro. Sapeva l'opinione che il corvino aveva di lui, lo deduceva dalla maniera nella quale gli parlava, dagli occhi di ametista, algidi e severi che spesso gli rivolgeva, dal tono tagliente della sua voce.
"Lo fa con tutti", dicevano in molti giustificandolo, ma lui rifiutava quella verità. Non era di certo una risposta a quel comportamento. Tsukitachi voleva sapere di più, lo voleva per levarsi una soddisfazione propria e personale. Perché Hirato era tanto evasivo? Non importava quanti anni gli sarebbero occorsi per scoprirlo ma da quando era entrato in quella scuola sapeva che altro non avrebbe dovuto morire che per la giustizia, la pace ed la lotta contro i Varugas.
Vivere per morire non aveva tuttavia senso. Gli suonava alquanto ridicola come filosofia. Lui preferiva inseguire i segreti e custodirli dentro di sé e, tanto più una persona taceva tanto più grande era il suo segreto. Se anche lui avesse scoperto qualcosa di Hirato, avrebbe solo che trovato la punta dell'iceberg. Il pensiero gli sollecitò un ghigno. Era affascinante sapere che condivideva la stanza con una fonte inesauribile di misteri, una crisalide pura nella sua oscurità che un giorno sarebbe divenuta, attraverso una nera metamorfosi, un'illustre farfalla dalle ali di tenebra.
Ed anche mentre si gustava il suo biscotto, masticandolo lentamente, assaporando, ora sulla punta della lingua, ora sotto, il suo sapore, non poteva fare a meno di staccare gli occhi di dosso da quella figura così suadente, quel ragazzo prepubere che, senza pudore, si spogliava di ogni suo indumento ripiegandolo con una cura meticolosa, quasi al margine della maniacalità. E la sua pelle pareva più liscia vista da lontano, profumata anche se non ne aveva mai sentito l'odore. Hirato era desiderabile, non era un complimento ma un dato di fatto, e quando avrebbe spiccato il volo, le sue ali sarebbero state in grado perfino di accecare il Sole ed oscurarne la bellezza. La Luna, che quella notte splendeva alta nel cielo, avrebbe pianto lacrime di rugiada per lui e la donna che si sarebbe fatta rapire cuore e corpo da lui si sarebbe sciolta come cera tra le sue accorte ma illibate mani. E nel frattanto lentamente calava di nuovo il sipario su quella pallida carne, il tessuto di cotone del pigiama la ricopriva, aderiva perfettamente ricalcando la forma di quella schiena così perfetta e la farfalla si faceva pronta a tornare a risposare stanca al proprio giaciglio.
«Tsukitachi, puoi cortesemente smetterla di guardarmi in quella maniera?», la richiesta era diretta, non ci aveva girato troppo intorno, era davvero una bestia, una bestia cortese, un gentiluomo belluino. Resistere ad un tale intruglio era grave peccato.
La perfezione era persona ed Hirato ne era la schiacciante prova della sua esistenza.
Si scusò ostentando timidezza il rosso ma dentro di sé non poteva che essere più sereno di quella svolta inaspettata: «Va bene! Mi dispiace di averti imbarazzato».
«Non mi hai imbarazzato», restava sempre un galantuomo, anche quando si alterava, anche quando lo guardava con gli occhi di una tigre, «Mi metti i brividi, che è diverso».
Gli sorrise affascinato. Una maschera tanto fredda doveva davvero nascondere un bel tesoro.
Si sa, che chi ha la corazza più dura ha sempre qualcosa di prezioso da nascondere e chissà, che il tempo piano piano non glielo avesse deciso di svelare.


Avevano spento le luci da un po' nel dormitorio, doveva essere passata più di un’ora da quando si era messo a dormire. Gli piaceva lasciarsi conciliare dal tepore delle coperte, tutto gli ricordava vagamente la sua infanzia, quando accanto gli si metteva Tokitatsu, nei tempi in cui ancora gli si stringeva forte e cominciava a parlare del più e del meno come se, più che tenerlo sveglio tentasse più di conciliare il sonno a se stesso. Gli mancava un po' quella familiare morsa; il materasso era sempre troppo duro e troppo freddo quando lo si occupava da soli, la luce della Luna sempre troppo poco confortante, il proprio corpo sempre troppo solo. Condividere o meno una camera non c'entrava. Non era di Tsukitachi che aveva bisogno, anche allora che lo vedeva russare volgarmente nel letto a fianco al suo, con la bocca appena aperta ed un piccolo torrente di saliva che gli pendeva da un angolo riversandosi sulla federa di cotone del cuscino.
Quel ragazzo era un idiota, ma tuttavia astuto.
Guardò la Luna ed allungò una mano verso la finestra.
Voleva afferrarla e trascinarla a sé, vicina per non lasciarla mai più andare e gli parve una velleità il poter un giorno volare tanto in alto da poterla raggiungere, danzando libero nel cielo. Non si nasce liberi. In quel mondo non c'era maniera per esserlo. I civili erano soggiogati dalla loro debolezza, dal non poter vincere i Varugas, costretti a piegarsi ai loro ordini e voleri.
Ma entrare nel Circus non rendeva a sua volta liberi. Era una prigionia, non un semplice 'lavoro'. Era il loro sistema, prendere la vita delle proprie reclute, strapparle alle loro famiglie, alla loro città, sradicarle dalle tradizioni ed imbottire loro la testa di principi malsani. Rigiravano le parole ed in breve chiunque avrebbe dimenticato il motivo per il quale aveva inizialmente deciso di combattere, lo stesso per il quale si era gettato tutto quanto alle spalle; la vita, la felicità, i cari. Le educavano a combattere per il bene pubblico e per la libertà, in quella scuola. Insegnavano favole e storielle, vuoti saperi enciclopedici, fatti di parole senza significato, fatte per incastrarsi nella mente, nel cervello e non abbandonarlo più.
Era un’ideologia di battaglia, una sorta di musica martellante che aveva il solo compito di depositare negli animi dei più giovani studenti il ripudio verso i Varugas, il disgusto nei confronti del nemico. Stati d’animo che avrebbero prima o poi portato alla sete di scontro, di battaglia, di sangue, di morte.
Asini erano coloro che si bevevano a iosa tutte quelle stoltezze, nelle eccezioni non rientrava certo Tsukitachi, che pure senza aver aperto mai un libro di testo, aveva avuto modo di imparare a memoria in chissà quale maniera quei ridicoli principi, prendendoli come se fossero stati dogmi di fede di una qualche setta misterica se non addirittura una verità divina e suprema rivelatasi.
Ma la notte rendeva liberi, il firmamento faceva respirare, gli dava sollievo e conforto, gli ricordava che fuori da quel mondo putrido e contaminato c’era qualcosa che sfuggiva al ‘loro’ controllo, che esisteva un Universo ancora vergine e perfetto, ancora in evoluzione e tuttavia in pace ove non v’erano guerre né gente innocente veniva ingiustamente giudicata o ammazzata e non c'erano sistemi o leggi a governarli se non i principi della fisica stessa. Amava il cielo notturno, si sentiva a lui profondamente legato ed il solo provare quel profondo sentimento di totale devozione ed al contempo ammirazione nei suoi confronti lo faceva respirare, era come una boccata d’aria divina, proveniente da chissà quale ente supremo, un dono che la vita aveva deciso di fargli.
Amare rende liberi.
Trasalì non appena sentì lo stomaco venire stretto nella morsa della fame. Un risentito languore echeggiò nel suo stomaco, bastò quel minimo rumore per squarciare il pacifico silenzio della notte e far rigirare pigro e assopito Tsukitachi sul proprio materasso. Hirato si passò una mano tra i capelli e cacciò le coperte in fondo al materasso ammucchiandole in un tumulo. Sbuffò mentre lasciava scivolare le nude e fredde piante dei piedi nelle accoglienti pantofole, disposte perpendicolari al parure del letto. Tutto rispettava dei canoni di ordine che rasentavano la demenzialità, ma era la sua maniera per sfuggire al loro sistema, era il suo modo per ribellarsi in silenzio, senza che nessuno potesse dirgli qualcosa, replicare, rimproverargli che stava sbagliando o facendo male.
Sentì nuovamente lo stomaco brontolare, stavolta più forte e non gli ci volle molto ad assecondare i suoi bisogni ed indirizzarsi verso la porta della camera dopo aver indossato la sua nera mantella, tenendosela sopra le spalle a mo’ di vestaglia.
Al diavolo le regole.
Quando la fame chiama, l'uomo rivendica i suoi diritti.
Si affacciò dalla porta della stanza preoccupato prima di muovere qualche passo così da assicurarsi che il corridoio fosse effettivamente desolato e, fatto ciò, decise di compiere lesto la sua prima mossa. Si avventurava con passi cauti, il solito guardo stoico in volto, velato di un cinismo che trasudava indifferenza da ogni poro della pelle.
Camminava evitando i riflessi della gelida luce lunare che illuminava dalle finestre alcuni scorci di quell’interminabile corridoio. Era rimasto sporco dappertutto sul pavimento, ci avrebbe messo la mano sul fuoco che il giorno seguente i ragazzi delle classi superiori avrebbero costretto quelli del suo corso a ripulire tutto. C'erano stelle filanti e festoni distrutti dovunque, manifesti e volantini strappati tracciavano un percorso a parte sul pavimento sul quale erano rimaste appiccicate caramelle sciolte ed appiccicose e vi erano i segni dello zucchero di qualche bibita rovesciata e che nessuno si era curato di pulire. Le carte dei dolcetti erano sparse per terra, quel corridoio sembrava dipingere uno scenario post-apocalittico segnato dal passaggio di un qualche uragano. Briciole di biscotti erano seminate lungo la strada, per un attimo si domandò se la scuola non fosse stata tenuta sotto assedio da una banda di vandali durante quella festa tenutasi tre ore prima. Ed eccole, le persone per le quali lui avrebbe dovuto combattere: una mandria di selvaggi incivili, un branco di ignobili creature egoiste ed irrispettose e, non solo indomiti ma indomabili. Frenò ogni pensiero non appena percepì un fievole rumore. Gli parve di aver udito qualcosa al suo seguito ma convenne che sarebbe stato meglio non prestarvi attenzione, l’immaginazione gioca sempre brutti scherzi. Gli tremavano le gambe e lo stomaco dalla fame, ora il pensiero del bisogno di mangiare gli tartassava la mente, non gli dava pace. Aveva bisogno di mettere qualcosa sotto i denti e se ciò significava anche doverla rubare come un ladro dalla mensa della scuola allora l'avrebbe fatto perché, seppur compiva un'azione ignobile, convenne che se messa in una scala di valori era certo fatta per una giusta causa.
Posò la mano sulla maniglia della porta che dava alla mensa, gli si gelò improvvisamente il sangue nelle vene al sentire un palmo sudato ma gelido stringergli un nervo della spalla ed un’altra puntargli l'indice alla spina dorsale a mo’ di pistola.
«Fermo lì dove sei! Cosa pensavi di fare, ragazzino?!», gli urlò una voce autoritaria ma stranamente acuta e scordata. Hirato quasi temette a voltarsi dapprima, la paura di venire scoperto si era trasformata inaspettatamente in realtà ed ora si sarebbe dovuto prendere le proprie responsabilità e accettare la sua pena, qualunque essa fosse stata, dall'essere umiliato in pubblico davanti a tutti gli altri studenti a quella più grave dell’espulsione. Ma quando si voltò facendosi pronto alla resa, ogni timore scivolò via e restò solo l'ardente desiderio del portare le mani attorno al collo del farabutto dopo aver attivato il bracciale che gli era stato dato in dotazione dalla scuola al massimo livello imponibile.
«Allora avevo ragione, nee Hirato?», se ne burlò Tsukitachi, il pigiama sbottonato e di due taglie più grandi dava da vedere al suo nudo e scarno torace, «Avevo ragione a pensare che stavi crepando di fame!». Cedette e Tsukitachi lo vide. Non poteva sentirsi più fiero di sé, nel giro di sei mesi aveva perfino acquisito la parziale capacità di metterlo all'angolo. Non era una maschera incrollabile allora, quella di Hirato. Ma il corvino cercò di non curarsi di quella sua espressione soddisfatta ed ambiguamente boriosa ed alzò gli occhi verso la porta della sala mensa, come se le parole del compagno gli fossero entrate da un orecchio ed uscite dall’altro. Lo ignorò. Nella notte dei morti, Tsukitachi ai suoi occhi poteva anche essere comodamente paragonato ad una di quelle tante anime inutili e vaganti nel regno dei vivi, un fantasma senza un posto dove giacere, senza pace né dimora.
Cercò di forzare la serratura ignorando i ridicoli cinguettii del compagno e si accorse ben presto recalcitrante che era bloccata. Osservò il bracciale del Circus che portava al polso sinistro, lo scrutò intensamente dunque demorse. Pensare anche solo di usarlo per un tale proposito era folle. Quell’oggetto doveva fungere da arma e non da mezzo. Il momento nel quale l’avrebbe sfruttato per raggiungere i suoi scopi sarebbe stato quando si sarebbe ritrovato da solo con se stesso, sotto il cielo stellato. Allora avrebbe abusato di quel potere. Tsukitachi sorrise divertito ed afferrò la manica del pigiama del compagno facendo per tirarla, ignorando la sua fulminea e severa occhiata: «Dai, torniamocene in camera. Ho una manciata di biscotti se hai fame, sai? Se vuoi te ne do due o tre, non voglio mica che il miglior compagno di stanza che abbia mai avuto in tutta la mia esistenza mi spiri sotto gli occhi». Il giullare si era pronunciato ed Hirato non poté fare a meno di guardarlo bieco ritirando la mano, irritato da quel contatto, mostrando la più totale e profonda repulsione. Non era un discorso di umiltà. Detestava le maniere di Tsukitachi e ciò che meno desiderava era avere dei debiti nei suoi confronti destinati ad essere saldati chissà quando e chissà dove.
«Non ho fame», concluse miseramente, in parole spicce seppur il suo stomaco in quegli istanti gli stesse gridando il più completo contrario, pregandolo di saziarsi anche con una mera briciola di biscotto. Restò a fissare la porta della sala mensa e, quando si fece quasi deciso ad utilizzare il bracciale, fu costretto ad interrompersi avendo udito un brusco rumore provenire da non molto lontano. Si voltò, stavolta gli occhi sempre più taglienti verso il rosso che tuttavia indietreggiò spaventato, stavolta con l'animo pulito.
«Hai voglia di prendermi in giro, Tsukitachi?», gli domandò serafico ma prepotente, sembrava rimproverarlo solo con lo sguardo. Deglutì il giovane compagno, i suoi occhi dorati erano stati completamente inghiottiti dall'oscurità del corridoio ma i suoi chiari denti si potevano eppur notare bene, quasi li si poteva contare, pareva splendessero di luce propria: «Non mi guardare così, Hirato! Non sono mica stato io!». Gli lasciò allora andare il polso il ragazzo, volse il naso verso il fondo del corridoio a destra ed annuì dopo una lunga pausa di riflessione: «Hai ragione; per stavolta non c’entri tu. Sembrava provenisse dalla stanza là in fondo».
«Non è la stanza che solitamente utilizza Akari-chan per i suoi esperimenti o per stu-».
Si interruppe improvvisamente non appena vide il corvino scomparirgli sotto il naso in uno scatto diretto verso la stanza indicata, come un animale quando avverte il pericolo, divincolandosi sotto gli occhi basiti ed alquanto esterrefatti del coetaneo che, ora, lo guardava allontanarsi sempre più confuso. Rapido decise allora di inseguirlo restando sulle sue tracce. Cercò dapprima di tenergli il passo in silenzio, con il timore di svegliare qualcuno nel dormitorio poi, d'un tratto, rallentò. I nudi piedi gli bruciavano per il freddo delle mattonelle. Si piegò sulle proprie ginocchia, la figura del compagno era svanita nel buio del corridoio. Era ostinato e pervicace Hirato, non ne aveva mai avuto dubbi, ma non credeva la sua tenacia potesse rasentare un tale livello. Quale mistero si celava dietro a quell’azione improvvisata? Forse una primitiva paura?
Non ne aveva la più pallida idea, ma il solo immaginare che Hirato potesse avere anche una singola debolezza lo alluzzava, sarebbe anche potuto scoppiare a ridere dall’euforia della bella scoperta in quell’istante stesso ma fu costretto a tacersi. Poteva anche permettersi di rallentare, di rilassarsi.
Il lampo che aveva animato per un effimero istante in una scintilla gli occhi del compagno non era sfuggito al suo callido sguardo. Aveva un indizio.
Da poco lo aveva raggiunto con goffe falcate ed ora lo scrutava attento standogli alle spalle. Rimaneva in piedi davanti alla porta di quella stanza, le gambe che gli tremavano dalla fame ma una maschera di sicurezza nel volto, la stessa che gli aveva dato la forza e la velocità per piombare lì davanti senza grandi perdite di tempo.
Il bisogno l'aveva portato davanti alla sala della mensa, con calma, tranquillità, accortezza ma l'istinto l'aveva trascinato prepotentemente ed imprudentemente davanti a quello studio ed ora gli stava consumando le ultime energie, lo costringeva con il fiatone e, nonostante ciò, lo tratteneva perfino sotto lo sforzo di continuare ad indossare quella maschera, continuare a fingere che tutto andasse bene.
Ora non poteva dire di non essere interessato. Lo spettacolo era appena iniziato e lui aveva perfino avuto la fortuna di essersi ritrovato un posto prenotato direttamente in prima fila. Che fosse pure successo sempre così! Sarebbe stato disposto a fingersi deficiente fino alla fine dei suoi giorni se questo avesse significato trovarsi riservato un tale lusso.
Entrò con accortezza Hirato, spalancò la porta piano e Tsukitachi venne rapido e lesto al suo seguito. Akari alzò allora gli occhi da terra, li posò stupito sui due ragazzi che erano appena entrati nello studio, avvolto dalla penombra ed illuminato da un’alquanto gotico ma spento lume e non gli venne difficile immaginare a chi appartenessero quei neri riflessi oscuri.
«Cosa ci fate in piedi a quest'ora», borbottò con voce atona, come se, più che una domanda, stesse facendo una constatazione di fatto, «Dovreste esservi trovati sotto le coperte dei vostri letti da almeno due ore e mezzo». Sospirò Hirato, fu il primo ad avvicinarglisi lasciando scorrere gli occhi sul composto riversato sul pavimento. «L'hai rotto tu, Akari?», gli domandò freddo, per un istante la loro parve quasi una gara di stoicismo agli occhi di Tsukitachi, che ammirava il tutto a distanza, come se avesse davvero comperato il biglietto per assistere ad un'irripetibile spettacolo. Richiuse in silenzio la porta dietro di sé. Era una rara opportunità, quella del poter mettere piede nello studio di Akari. Quello era il suo posto, quella stanza era una parte di lui, era il suo territorio, come una bestia marca qualcosa di sua proprietà con un morso o con un odore, Akari lo faceva riempiendo ogni angolo possibile ed immaginabile di libri, appunti e documenti meticolosamente ordinati. Grugnì il ricercatore, il composto stava ancora ribollendo sul pavimento senza tuttavia corroderlo.
«Mi si è rotto accidentalmente», bofonchiò turbato, mentre con un fazzoletto asciugava la macchia, «Non è pericoloso. E' tutta scena il ribollire che vedi». Appallottolò allora il pezzo di carta e lo fece volare in un lancio nel cestino. Guardò poi attentamente i due ragazzi e li invitò a andarsene senza tanti convenevoli. Increspò la fronte Tsukitachi davanti a quella richiesta. Non è consono che un attore interrompa la propria perfomance in quella maniera. Lo spettacolo era stato appena annunciato e nessuno poteva permettersi di porgli una fine. "The show must go on", pensò.
«Akari-chan, non credevo tu amassi fare le ore piccole davanti a tutte queste fialette di roba e medicinali!», tergiversò, era l'unica maniera per irritarlo e distoglierlo dal problema principale. C'era una netta differenza tra l'essere cacciati via poiché infrangevano una regola del dormitorio e l'essere cacciati per esasperazione. Temporeggiando e portando alla follia il giovane ricercatore, forse sarebbe riuscito ad inventarsi una qualche sciocchezza e godersi qualcosa di quello show. Corrucciò le sopracciglia l'uomo dai capelli rosa e gli rispose a malo modo irritato: «Sono un ricercatore. E' il minimo che possa fare, studiare questi-».
«Oh~ E non sapevo ti piacesse anche leggere! Guarda quanti libri!»
«Giù le mani dai-»
«Shakespeare... Che titolo strano»
«Non è un titolo, è un autore, razza di-»
«Perché non ti prendi un animaletto, Akari-chan?, sarai solo, a stare sempre tutto il giorno rintanato dentro questo loculo».
«Non ti azzardare a chiamarlo loculo!», berciò Akari, più suscettibile e stizzito di quanto non lo fosse stato in precedenza, il volto aggrottato e contratto dalla rabbia, «Questo è il posto in cui studio e lavoro ed è sacro! Dovresti tacere tu, Tsukitachi, che gli unici libri che apri sono i giornaletti ero-».
Piombò il silenzio e le parole gli morirono in bocca. Hirato aveva piegato di poco la testa, dalla sua espressione ieratica si poteva notare trasparire a mano a mano un ambiguo stupore misto ad un intimo turbamento. Non sfuggì questa vista a Tsukitachi, che s'impietrì aguzzando le orecchie. «Come fai a saperlo?», chiese il moro, sghignazzò dentro di sé il rosso non appena notò la variazione nel tono di voce di Hirato, che improvvisamente s'era fatta di poco pungente.
Che spettacolo sublime. «Lo so e basta», rispose spiccio Akari, senza dare troppe spiegazioni, «Mi è capitato di beccarlo a leggerne uno un pomeriggio, mentre stavo nel prato di fuori».
«Che strano, eppure sopra la loro copertina mi assicuro sempre di metterci i libri di scuola quando li leggo...», mormorò pensieroso Tsukitachi, Akari lo incenerì con lo sguardo sentendosi grevemente pressato da quella situazione e, quasi come in una reazione a catena, Hirato gli rifilò un’occhiata simile. Tsukitachi aveva dei sospetti che gravavano sul suo animo a proposito della relazione tra il suo stoico compagno di stanza ed il ricercatore dal volto di marmo. Il loro era un odio reciproco, lo era stato sin dal primo istante –o per lo meno, così avevano sempre dato da vedere. Si ignoravano quasi per tigna, come se nemmeno loro lo volessero veramente, come se evitandosi potessero accorciare le loro distanze. Quando li si udiva conversare, era impossibile non percepire la profonda tensione. Non riusciva tuttavia a comprendere da dove essa provenisse, sapeva che c’era e basta. Nonostante ciò, come vedeva l’astio di Akari anche dal minimo dettaglio o particolare, quella sera così come altre volte aveva avvertito della preoccupazione da parte di Hirato per il ricercatore. E finalmente ogni tessera del puzzle cominciava a mano a mano ad andare al suo posto, il comportamento del compagno di stanza glielo aveva provato negli istanti precedenti.
Hirato non voleva la guerra.
Ma non si sarebbe nemmeno accontentato della pace.
Voleva di più.
Forse –pensò, se fosse riuscito ed entrare ufficialmente nel Circus ed a lavorare al suo fianco per il resto dei suoi giorni ci sarebbe stato da divertirsi. Si sarebbe potuto fare delle belle risate fino allo sfinimento alle loro spalle, instancabile, ed alla fine avrebbe potuto morire beato e sereno.
Spostò tutta la sua concentrazione dalla fantasia alla realtà, cercando di focalizzarsi sul presente e sulle necessità del momento. Aveva bisogno di uscire per un istante di scena. Ma al contempo doveva restare tra il pubblico per non perdersi nemmeno un istante. Difficile la faccenda. Si voltò e fece scorrere pigramente l'occhio tra alcuni medicinali, accostati l'uno accanto all'altro. Sorrise.
O forse no. Forse aveva trovato il metodo per restare in scena e godersi al contempo tranquillo e al sicuro quello spettacolo.
Avvicinò la mano al contenitore del valium, stinse due o tre pillole e le fece astutamente scivolare all'interno del taschino della maglietta del pigiama. Finse di masticarle ignorando le voci dei due, che avevano cominciato a discutere improvvisamente di scuola ignorando la sua presenza, ed esultò soddisfatto. Prese una delle pillole dal contenitore e la mostrò al ricercatore: «Ehi, Akari-chan!, -continuava a masticare mentre parlava, cosa sono queste caramelline rosa? Sono buonissime!».
Sbiancò in volto l'uomo e gliele sottrasse immediatamente dalle mani atterrito ed al contempo alterato: «Che diavolo fai?! Quante ne hai mangiate?!». «Non saprei, forse tre, forse quattro...», mentì Tsukitachi, cominciò a chiudere gli occhi ostentando sonno e raggiunse il divano gettandocisi poi a peso morto sotto gli occhi basiti del dottore e come al solito cinici di Hirato. “La tua maschera ha i minuti contati”, pensò di dirgli e, mentre si stendeva fingendo di dormire rintontito dal valium, Akari riversava una serie di improperi sul rosso e sulla sua stupidità, quanti più ne faceva ricadere su di lui, quanto più Tsukitachi cominciava a parlare a vanvera, come per avvalorare la sua tesi.
Pensassero, pensassero pure che fosse stato un idiota. Lo era, lui in confronto a loro era un idiota. Erano loro i geni, quelli che erano capaci di mettere sempre in scena spettacoli sublimi a qualunque ora, a qualunque loro incontro, in qualunque situazione.
Ora i suoi occhi erano chiusi ed aveva tutto il tempo che voleva per potersi concentrare sulle voci del due, che gli provenivano chiare e nitide. Le creazioni dei geni si prestano anche all’ascolto. Avrebbe tenuto gli occhi chiusi e si sarebbe goduto ogni istante di quella nottata.
Per attimi che gli parvero eterni i due restarono in silenzio, Akari in piedi con le braccia conserte ed i capelli davanti agli occhi, Hirato con i palmi delle mani appoggiati all scrivania. Si scambiarono una repentina occhiata, il tempo di immergersi l’uno negli occhi dell’altro poi distolsero reciprocamente lo sguardo, quasi impacciati.
«E' imprevedibile», commentò amaramente Hirato cercando di trovare uno spunto di conversazione con il ricercatore, Tsukitachi poteva percepire il suo sguardo gravare su di lui. «Sciocco ma imprevedibile», si corresse poi, il rosso restò intento nell'inscenare il suo sonno profondo, era il prezzo da pagare per uno spettacolo d’elite, quello di farsi dare direttamente ed indirettamente dell'idiota. Akari sciolse le braccia e fece per prendere nuovamente posto alla sedia della sua scrivania: «Tornatene in camera, Hirato, e portati dietro il tuo compagno. Vorrei evitare davvero che qualcuno vi trovi qui domani mattina. Non sarebbe conveniente raccontare dell'accaduto a qualcuno, sai?». «Lo so», mormorò freddamente il corvino e così dicendo si sganciò dal ripiano della scrivania alla quale si era precedentemente appoggiato. Si era fermato ad un passo dal divano quando la luce della lampadina era saltata. Tsukitachi aprì gli occhi e con stupore s’accorse che c’era buio dappertutto. Scacco matto. Quell’inaspettata svolta faceva proprio al caso suo. Voleva proprio vedere come si sarebbe mosso Hirato. Restò in ascolto prestando attenzione con tutto se stesso. Akari cacciò un improperio, quanto tipico.
«Hirato», lo richiamò il ricercatore cercando di trattenere la calma, «Hirato, vieni qui e dammi una mano a portare il tuo compagno in camera. Non possiamo lasciarlo-».
«Sono già qui», mormorò lasciando andare un respiro il più giovane, lo abbracciò da dietro le spalle avvolgendogli con gli avambracci il collo mentre nel buio cercava di raggiungere il suo orecchio per baciarlo. Arrossì Akari e ringraziò quell'improvviso blackout per celargli nella più totale oscurità il viso e con esso la sua espressione ed il suo rossore. Aggrottò la fronte e strinse il polso del ragazzo allontanandolo progressivamente da sé mentre, a tentoni, tentava di alzarsi dalla sedia. «Ti ho detto di darmi una mano, Hirato, non di perdere tempo», precisò spazientito, cercando gli occhi dello studente nel buio. Ignorò le sue parole ancora una volta il moro ed approfittò della notte, sua amica, per gettarglisi di nuovo addosso ed imporgli la propria vicinanza abbracciandogli il torace. Stringeva tra le mani il tessuto bianco del suo camice, stava ancora tremando, la sua forza fisica sembrava aver perso potenziale riducendosi a mera gracilità in quegli istanti. Come un bambino solo ed abbandonato, gli si aggrappava chiedendogli un abbraccio, un qualche cenno d'affetto. Akari sbuffò, la testa del giovane ragazzo, poco più basso di lui di almeno dieci centimetri, poggiava stanca sul suo petto, schiacciata contro lo sterno ed ora gli aveva risalito il torace fino ad adagiarsi nella sua clavicola. Sibilò il suo nome il ricercatore e, timido ma al contempo impacciato, ricambiò quel flebile abbraccio.
Hirato era esile, gli era parso di stringere contro di sé un foglio di carta più che una persona, tremava come una foglia tra le sue braccia. Avvicinò di poco il naso ai suoi capelli e li annusò riempiendosene le narici. Era la prima volta che sentiva il suo profumo tanto da vicino. Era un odore forte ma buono, sapeva di pulito, sapeva di balsamo, di fresco, di fiori, di gelsomino, lavanda e cardamomo. Sapeva di Hirato. Tutte fragranze buone che si scolpirono nella sua anima. Non avrebbe dimenticato quel profumo. Hirato gli si aggrappò e chiuse gli occhi. L'oscurità lo intontiva, gli conciliava il sonno tanto quanto il calore di quell’abbraccio, che desiderò fosse durato in eterno. Passarono lunghi attimi stretti l'uno contro l’altro, come se quella fosse stata l'ultima volta che venisse loro concesso un tanto sublime privilegio anche se, ironia della sorte, era al contempo la prima che si concedevano una tale vicinanza. Adagiavano congiunti, in piedi, titubanti. Il corvino trattenne la mano sulla schiena del ricercatore, continuava a stringergli tremolante il camice di cotone e temette per un istante che il silenzio piombato nella stanza, quell'imbarazzante e taciturno telo che era stato steso su di loro dal buio, potesse rivelare i battiti del suo cuore. Esitò e fece scorrere di poco i polpastrelli lungo la stoffa dell'indumento premendogli con delicatezza sopra le vertebre, risalì poi con melensi tocchi tutta la spina dorsale fino a giungere alla nuca. L'accarezzò, silenziosamente, cercò di percepire con il tatto in quali magnifici riccioli si intrecciassero i capelli del ricercatore, sempre così spettinati ma che, eppure, sembravano quasi invitarlo ad infilarci le mani, anche per il gusto di spettinarli più del dovuto. Sussultò a quel vezzo Akari e si tappò all'istante la bocca quando si accorse di quando ridicola si fosse rivelata la situazione e di quanto degno di pudore fosse stato il pesante ansito che si era lasciato sfuggire. Si stava eccitando per un ragazzino di almeno sei anni più giovane di lui. Poco importava se avesse avuto sedici anni, era un dannato moccioso.
Sedici anni: l'età degli scompensi ormonali, quando ancora si è un vulcano di iperattività sessuale e non si riesce ad opporre neppure volendolo una sana resistenza ai propri impulsi.
Ci era passato anche lui ed all’epoca aveva cercato di risolvere il problema a modo proprio, rintanandosi in quello che Tsukitachi aveva volgarmente definito il suo 'loculo' ma che ai suoi occhi era forse il luogo più sacro dell'Universo.
Percepì il respiro di Hirato farsi vicino ed affannato, anelato, quanto bastò per farlo quasi trafelare ed indietreggiare respingendolo.
«Fermiamoci qui», mormorò bloccandolo nel buio. Hirato si schiarì la voce ma non parlò. Restò inerme mentre si lasciava tenere le spalle ed ora gli veniva davvero difficile conciliare la fame fisica che sentiva con la sete di affetto che gli logorava il cuore.
Alzò di poco il mento, quanto bastò per sfiorargli con le labbra la mascella. Akari cercò invano di opporre resistenza serrando la bocca ma il cuore gli si era d’un tratto bloccato nella gola, incastrato nell’esofago, gli pareva di soffocare ma non riusciva proprio a regolare il suo respiro, tantomeno a mantenere la calma. Cominciò ad avvampare, la temperatura corporea era d’un tratto salita in picchiata mentre una gocciolina di sudore gli scivolava lungo la tempia delineando i margini del suo volto a mano a mano che scendeva. Poi, per un secondo, morì. Le labbra di Hirato si erano posate morbide sulle sue in un gesto carezzevole e pieno d’amore, un sapore dolciastro ma al contempo salato, di quello che ha la saliva quando si secca e lascia la bocca umida e disidratata. Non si spinse oltre lo studente, gli restò solamente legato dopo averlo trascinato in quel timido bacio; a malincuore lasciò le labbra con le quali si era appena sposato e fece ancora una volta passare la mano sulla testa, ripercorrendogli il cuoio capelluto ed arricciandosi i disfatti ciuffi tra le affusolate e lunghe dita. Akari mugugnò con un altro gemito, vergognato e ferito nel suo orgoglio. Non gli avrebbe mai permesso di giocare con lui, non sarebbe mai stato in grado di perdonarselo.
«Hirato, smettila», comandò stavolta dispotico, gli afferrò il polso di nuovo e lo allontanò più bruscamente da sé, tremante e nemmeno lui sapeva più se per l’imbarazzo o la rabbia, «E’ ridicolo».
«Non è ridicolo, Akari-san», lo rimproverò il ragazzo, si fiondò nuovamente sulle sue labbra senza pensarci due volte, afferrò la sua mascella nel buio e fece aderire l’esile corpo al suo spinto da un cieco e fuorviante desiderio che, presto o tardi, l’avrebbe anche potuto condurre verso una follia ancora più grande. Ma agli occhi di Akari quegli atteggiamenti risuonavano come gravi contumelie, oltraggi rivolti a sé, al suo corpo, alla sua liberà, alla sua persona. Distese un palmo e, prima che se ne potesse lui stesso rendere conto, aveva colpito Hirato nel volto con un ceffone nello stesso momento in cui aveva insediato desideroso le mani sotto la sua camicia. Pizzicava rosso il palmo di Akari dopo quella botta che gli aveva mollato, quel ceffone per il quale ora quasi provava rimorso e risentimento. Deglutì e si sentì tirare per la cravatta. Rapidamente si ritrovò a precipitare finendo disteso sopra il pavimento, caduto sul corpo del ragazzo, ora ansimante. Il suo respiro gravava sulla sua spalla sempre più pesante, premeva contro il proprio basso ventre la sua erezione. Lasciò andare un sospiro Hirato ora tramortito, in breve seguito da una serie di respiri irregolari che suscitarono la paranoia di Akari.
«Scusa», mormorò atterrito, i battiti arrancati del cuore dello studente lo spaventavano, «Non avrei dovuto colpirti così forte, non-». «Va tutto bene, Akari-san», rispose il moro in un sussurro, si portò stracco e fiacco il dorso della mano davanti agli occhi abbandonandosi a quegli incessanti respiri arrancati, «Sono solo un po’ stanco... Non mangio da oggi pomeriggio, niente di più».
Il ricercatore sgranò gli occhi, scosso e turbato nell’animo da quelle parole. Gli portò entrambe le mani al volto e lo strinse preoccupato, i muscoli facciali erano rilassati e la sua bocca semiaperta lasciava andare ed entrare quanta aria gli fosse stata necessaria per continuare a vivere. Lo guardò disperato e non poté non arrossire quando il suo viso gli apparve più nitido sotto la luce ritornata improvvisamente nello studio. Hirato era pallido, gli occhi stanchi e consunti da una triste malinconia.
«Sei un bastardo, Hirato», gli sussurrò, il volto imbronciato come di consuetudine e le mani scosse ancora dai brividi della paura. Non rispose lo studente, si limitò ad annuire piuttosto in silenzio e ricambiare il tutto con un sorriso, trattenendo gli occhi di ametista chiusi.
«Perché», insistette severo Akari. Osservava la piega angelica della bocca di Hirato ed ora quasi provava il desiderio e l’impulso di baciarla, bella e morbida quale gli era parsa nemmeno qualche istante prima. Era rimasto il segno del suo schiaffo in quel faccino di rosa tuttavia puerile e morente ed ora si dispiaceva davvero. Lo accarezzò su una gota scostandogli un ciuffo di corvini capelli con cura ed Hirato rispose lasciandosi sfiorare passivamente.
«Akari-san», le parole gli scivolarono dalle labbra, dunque tacque e sembrò quasi spegnersi. Sbiancò il ricercatore, s’era quasi tinto di grigio in faccia, sarebbe potuto anche morire d’infarto dalla paura, era divenuto una statua di gesso. Lo chiamò tante volte, dapprima sottovoce poi con toni più alti ed accorti, tante da non essere nemmeno più capace di enumerarle e con fretta gli tastò una vena sul polso. Sollevò gli occhi al soffitto rincuorato e, dopo aver tirato le classiche due o tre imprecazioni, si convinse che sarebbe stata cosa opportuna tentare per lo meno di rinvenirlo. Giacque seduto sul pavimento, gli occhi posati su di lui non osavano staccarsi, come se il solo perderlo di vista per anche un singolo secondo fosse stato capace di comportare catastrofiche conseguenze.
Corrucciò triste e dispiaciuto le sopracciglia ed avvicinò una mano alla chioma di Hirato accarezzandola. Erano morbidi i suoi capelli, proprio come aveva potuto constatare precedentemente poggiandoci le labbra, oltre ad essere lucenti e brillanti anche sotto la luce opaca della lampada da tavolo. Nella penombra il suo corpo invitava ad essere scoperto, non era più avvolto dalle tenebra ma non era nemmeno illuminato dalla cieca ed abbacinante luce del Sole. Scorse con i polpastrelli sulla sua fronte liscia e pulita, spaziosa e levigata, passò le unghie lungo le sopracciglia delineandole, ne seguiva la curva ad ali di gabbiano meravigliato da una tale bellezza.
Erano perfette. Non v’era nulla che fosse fuori posto, nemmeno in quelle ciglia lunghe che, era certo, sarebbero un giorno state capaci di sedurre centinaia se non migliaia di donne. Lui stesso tuttavia ammetteva con molta difficoltà a se stesso di essersene più volte lasciato ammaliare e, in parte, continuava a fremere nella sua anima anche al solo lasciarsi sfiorare la mente dal pensiero che quelle ciglia erano le stesse che proteggevano quelle stupende ametiste che brillavano nei suoi occhi, i quali, nemmeno qualche minuto prima, avevano cercato nel buio il suo sguardo, per instaurare un contatto ancora più profondo, cercando un filo che potesse unire le loro anime. E lasciava scivolare lento e delicato il dito lungo il suo naso, corto ma pronunciato. Nel fiore dei suoi sedici anni, Hirato era stupendo ed Akari non riusciva talvolta a liberarsi di quel pensiero, di quella figura che, come un’ossessione, gli rapiva interi minuti sottraendolo al suo lavoro, occupandogli la mente e rendendogli impossibile focalizzarsi su altro. Ed anche allora, che giaceva svenuto a terra, non poteva astenersi dal contemplarlo, colto in uno di quei pochi momenti di naturalezza. Con quell’espressione genuina in volto, era sicuro che fosse stata la prima volta in cui non lo vedeva freddo e distaccato.
Si chinò su di lui e gentilmente lo accarezzò portandogli poi le labbra sulla bocca di rosa semiaperta. Fu un impatto morbido e delicato, un contatto accorto che, nonostante ciò, rivelava sentimenti più profondi che forse avrebbero teso a manifestarsi e consolidarsi nel passare del tempo –erano ancora tempi troppo acerbi, un amore del genere non avrebbe trovato condizioni favorevoli per sbocciare, come una rosa d’inverno o una pianta grassa in una palude. Akari iniettava il suo respiro in Hirato e tentava di accelerare i suoi tempi di ripresa, sperando di restituirgli quanto prima coscienza. Era unito a lui ed ora non ripudiava più quel gesto.
Da una parte voleva quasi approfondirlo, il focolare dei desideri che aveva sempre represso durante la sua adolescenza e che invano aveva provato ad estinguere stava recuperando vigore, si stava riaccendendo in lui ed ora, seppur si fosse vergognato assai di quegli istinti, sentiva dentro di sé un richiamo primordiale che lo invitava a completarsi, ad approfondire quel contatto, ad amare. Negò atterrito, quasi ebbe paura dei propri pensieri, e si staccò prendendo una boccata d’aria così da ossigenarsi. Recuperò un poco di respiro Hirato, il torace gli si sollevò lentamente poi scese ancora. Akari lo osservava preoccupato, il calore delle labbra dello studente, sempre più secche e che quasi parevano essere state sciupate da quel bacio, gli era rimasto attaccato, ora gli bruciavano al ricordo tanto vivo di quell’esperienza. Nonostante ciò, il moro continuava a riposare, svenuto, e palpebre calate, il respiro ritmato e cadenzato. Doveva riportarlo in camera, non poteva permettersi di perdere altro tempo-
«Ugh... Come mi gira la testa...». Trasalì trafelato ed in un attimo gli rivolse lo sguardo algido, le membra raggelate dal suono di quella voce. Si era completamente dimenticato di Tsukitachi –neppure lui riusciva a capacitarsi di come fosse stato possibile, ed ora il pensiero che quell’idiota da strapazzo l’avesse potuto vedere o sentire lo tormentava nel profondo. Avvampato in volto e colto da un sentimento di vergogna mista a paura, percepiva la compostezza scivolargli lentamente dalle mani. Era stato un bello spettacolo, Tsukitachi non poteva giungere che ad altre conclusioni. Era rimasto in ascolto di ogni rumore, identificando ogni singolo movimento, anche il più futile, senza sapere se meravigliarsi più per la dolcezza di Akari o per l’anomala impetuosità di Hirato. Lo aveva ammaliato il soave suono che avevano prodotto le loro labbra quando si erano sfiorate, schioccando appena. Ma ora si sentiva amareggiato, il suo show era finito e chissà quando sarebbe stato il prossimo. Finse di stare male, lamentò di quanto ancora gli girasse la testa poi, rapido, questionò Akari su cosa fosse successo ad Hirato, notandolo giacere sul pavimento.
«Ha avuto un mancamento, non mangiava da oggi pomeriggio», ribatté severo il ricercatore omettendo buona parte della verità sull’accaduto, si piegò sul pavimento e cercò di sollevarlo da terra prendendogli le spalle, nell’intento di sollevarlo come una fragile principessa, «...Sembra che sia a digiuno dall’ora di pranzo».
«Ah, sì, sì, lo so», replicò spiccio Tsukitachi che, capite le intenzioni del ricercatore, gli sorrise e lo aiutò a sollevare Hirato prendendolo per i piedi, guidandolo poi verso la porta, «Non ha fatto in tempo oggi a fare il pranzo e durate la festa è stato sempre seduto, non ha toccato cibo».
«Hai qualche idea su quale possa essere il motivo-»
«Ha rifiutato perfino i biscotti che gli ho offerto»
«Ascolta la gente quando ti parla-»
«Pensa che al suono della campana si è rifugiato nella biblioteca ed è tornato a lezione mezz’ora dopo il termine della pausa senza nemmeno giustificare la sua assenza!».
Si illuminarono gli occhi di Akari all’udire di quelle parole e fu allora impossibile tenere celato quel rosso di cui si stava progressivamente dipingendo il suo viso.
«Era con me», confessò spudoratamente, mentre lo trascinava fuori dal suo studio, gli bruciavano i punti in cui toccava il suo corpo per sorreggerlo, «Viene spesso a trovarmi nella biblioteca. Tuttavia... non sapevo rinunciasse al pranzo per-».
«Hirato ti vuole un gran bene, Akari-chan», concluse Tsukitachi mentre osservava attentamente la faccia del coetaneo che stava in quel momento trattenendo per i piedi, rilassata e naturale, un ricordo di cui avrebbe fatto tesoro fino alla fine dei suoi giorni, si divertì al contempo a scrutare con quanta tenacia Akari stesse opponendo resistenza, con il suo sguardo basso ed apparentemente irritato, il rosso era il primo a scommettere che dentro di sé il ricercatore fosse stato sconvolto da una procella di sentimenti.
Raggiunsero la stanza e con accortezza lo posarono sul suo letto.
Avrebbe voluto vedere altro Tsukitachi, assistere ad altri spettacoli, ma Akari gli aveva già dato le spalle impedendogli la vista, posizionandosi davanti al letto di Hirato ed oscurandogli ogni dettaglio. La luce della Luna si stagliava su di lui irradiandolo e Tsukitachi allora capì, comprese che non tutti gli spettacoli erano a lui accessibili. Ma fu ugualmente felice.
Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dal sonno.
Akari aveva raccolto il tumolo di coperte che Hirato aveva ammassato sul fondo del letto quando ne era sceso e gliele rimboccò affettuosamente, come farebbe un padre con il proprio figlio. Si guardò le spalle e, assicuratosi che lo sciocco rosso fosse effettivamente appisolato, si chinò sul corvino baciandogli una guancia. Si accasciò per terra, con la testa poggiata sul materasso e contemplò la sua bellezza cadendo addormentato, in quella posizione scomoda ma che eppure lo riempiva di sollievo all’idea di stargli così vicino. E quando Hirato aprì gli occhi, Akari era già partito per il mondo dei sogni e lui non poteva che essergli più grato.
Mai quanto prima di allora, aveva avuto la piena consapevolezza di amarlo e di essere ricambiato.






Lo portava sulle spalle leggero, il calore del suo corpo appoggiato, pressato contro il proprio, lo rassicurava e gli riscaldava l’animo, colmandolo fino all’orlo di un’intima gioia, come quando si versa l’acqua in un bicchiere. Akari tratteneva il fiato pesante e respirava piano sul collo di Hirato lasciandosi trasportare, affidandosi a lui senza nemmeno curarsi di dove stesse in quel momento venendo portato –qualunque posto andava bene purché fosse stato con lui.
Sospirò il comandante e ricacciò ogni ricordo dalla sua mente concentrandosi sul presente, si liberò di quei frammenti di memoria che ancora abitavano i suoi pensieri fluttuando fastidiosamente da una parte all’altra della testa senza meta; in quegli istanti voleva concentrarsi sull’Akari del presente. Lo fece accasciare con leggiadra delicatezza sul materasso, lo aveva adagiato con cura come fosse stato una qualche rara o pregiata porcellana ed ora lo osservava ammaliato e curioso come quella lontana notte Akari aveva osservato indefessamente lui, senza staccargli gli occhi di dosso nemmeno per un secondo. Borbottò qualcosa lo scorbutico dottore sbuffando non appena percepì il suo sonno venire disturbato dalle carezze affettuose di Hirato ed al tentativo delle sue dita di insediarsi tra i suoi capelli, ancora meticolosamente pettinati e tirati all’indietro. Ricevette una sorta di grugnito come responso e non poté trattenersi dal sorridere divertito.
Anche quella sera si era ubriacato ad uno dei ‘soliti’ tea-parties indetti da Tsukitachi, rimaneva sempre meravigliato di quanto facilmente Akari si lasciasse stendere da uno o due bicchieri di sakè. Ma poi andava sempre a finire in quella maniera, Akari che si addormentava dopo un breve delirio di forse due o tre minuti, lui che si intratteneva in chiacchiere con uno Tsukitachi più brillo del solito ed ancora che si beccava le sue occhiatine ambiguamente divertite ed i suoi ridicoli sorrisi ogni qualvolta se ne andava caricando sulle proprie spalle un Akari ebbro e assopito, steso dal vino.
E d’un tratto, tutto diveniva bello e perfetto; la sua fragranza, il suo profumo. Un miscuglio piacevole da annusarsi che gli si appiccicava alla spalla assieme all’odore del suo respiro e del suo alito, che gli inumidivano la camicia e raggiungevano la pelle sotto il tessuto scaldandogliela. Tutto rasentava la follia, quell’amore era forse il più folle, folle perché giusto per loro ma al contempo sbagliato per tutto il resto del mondo –qualora esso stesso ne fosse mai venuto al corrente. E sogghignava compiaciuto quando posava le dita sulle labbra di Akari e vedeva un bacio depositarsi sulla loro punta. E si sentiva onorato, come se stesse ricevendo un’esplicita confessione d’amore.
Akari non lo odiava, non l’aveva mai fatto, amava invece ogni parte di lui, perfino quelle mani, sia quando lo accarezzavano gentili, sia quando lo sfioravano dolcemente, sia quando lo penetravano le sue dita, ora prepotenti ed arroganti, ora ancora accorte e piacevoli. E sapere di essere amato lo riempiva di gioia fino all’inverosimile. Mirò a lungo il volto di Akari, un volto che aveva conosciuto per più di undici anni e spogliandosi rapidamente dei propri vestiti gli si adagiò accanto cingendogli la vita.


 

Amare rende liberi.
E lui non si era mai sentito più libero.

   
 
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