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Autore: endif    20/12/2013    3 recensioni
Quel sole le stava friggendo il cervello.
Registrava l’implacabile innalzamento termico, il pigro sfrigolio e il progressivo obnubilamento delle attività cerebrali con una sorta di curioso interesse accademico.
In quel momento, ad esempio, guardava le labbra della donna al suo fianco muoversi a venti centimetri dai suoi occhi, ma era stata catapultata in un luogo di totale deprivazione sensoriale quando la lancetta dell’orologio aveva conquistato le due del pomeriggio e, dunque, ritenne di essere già fortunata così. A poterla almeno vedere ancora.
D’altra parte quella arrancava stoicamente lungo un lastricato di sampietrini in lieve pendenza che in circostanze normali avrebbero potuto percorrere a braccetto, con dodici centimetri di tacco a spillo e il sorriso sulle labbra, ma in quel momento a lei parve solo di muovere un tronco di sequoia secolare davanti all’altro. Dubitava, quindi, che Francesca avesse da pronunciare qualcosa di senso compiuto, ma la profonda amicizia che nutriva per lei la indusse comunque a dire qualcosa, giusto per solidarietà.
«Sei proprio una stronza», ansimò mentre qualcosa di ruvido le si infilava nei sandali, tra le dita dei piedi.
Genere: Generale, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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C’è un posto nell’universo, senza tempo e senza spazio,
dove io sto per assaggiare la tua tacchinella al melograno
e tu per scartare il mio regalo.
Auguri, tesoro.


acciaroli

Sette notti, tutto incluso


1


Quel sole le stava friggendo il cervello.
Registrava l’implacabile innalzamento termico, il pigro sfrigolio e il progressivo obnubilamento delle attività cerebrali con una sorta di curioso interesse accademico.

In quel momento, ad esempio, guardava le labbra della donna al suo fianco muoversi a venti centimetri dai suoi occhi, ma era stata catapultata in un luogo di totale deprivazione sensoriale quando la lancetta dell’orologio aveva conquistato le due del pomeriggio e, dunque, ritenne di essere già fortunata così. A poterla almeno vedere ancora.
D’altra parte quella arrancava stoicamente lungo un lastricato di sampietrini in lieve pendenza che in circostanze normali avrebbero potuto percorrere a braccetto, con dodici centimetri di tacco a spillo e il sorriso sulle labbra, ma in quel momento a lei parve solo di muovere un tronco di sequoia secolare davanti all’altro. Dubitava, quindi, che Francesca avesse da pronunciare qualcosa di senso compiuto, ma la profonda amicizia che nutriva per lei la indusse comunque a dire qualcosa, giusto per solidarietà.
«Sei proprio una stronza», ansimò mentre qualcosa di ruvido le si infilava nei sandali, tra le dita dei piedi. Lo ignorò, senza pietà per la sua recente pedicure perché fermarsi sarebbe equivalso a rallentarsi, che sarebbe equivalso a prolungare la loro permanenza sotto quel sole feroce, che sarebbe equivalso ad un ricovero assicurato in Pronto Soccorso.
Che poi… ce l’avevano un Pronto Soccorso in quel posto sperduto del Cilento?
«Ti voglio bene anche io, tesoro», rispose l’altra con molto meno sforzo ma tradendo lo stesso una certa tensione nella voce. Carla esultò in silenzio, perché l’amica continuava ad essere molto più sportiva di lei e decisamente più in forma e, questo, era qualcosa che non le avrebbe mai perdonato davvero.
Ma avrebbe mantenuto il passo. Forse sarebbe morta nel farlo, ma era decisa a proseguire.
«Cristo, fermiamoci Fra. Sta per partirmi un polmone»
«Se stai zitta e cammini, risparmi il fiato. Vedrai che ne varrà la pena».
Ci provò sul serio. Provò a convincersi che la piccola tettoia con tre centimetri di ombra che aveva intravisto con la coda dell’occhio alla sua destra non fosse tanto invitante, la sua unica salvezza dal collasso certo, la sola promessa di refrigerio nella totale, riarsa immobilità che le circondava.
E il frinire delle cicale… le sembrava che quegli insetti fossero milioni, in agonia più di lei e avessero deciso di stabilirsi nel suo cranio a tempo indeterminato a dimostrazione che c’era sempre il modo di peggiorare una situazione già difficile di suo.
«Guarda che a me della torre Normanna non me ne frega un ca-»
«Shhh! Non.Pronunciare.La.Parola.Con.La.C!», la sgridò l’amica, sul volto un’espressione tetra.
Carla inspirò profondamente ed ebbe la sensazione che il petto le si liquefacesse. La sua amica aveva ragione, naturalmente.
Si erano meritate quella vacanza.
Ogni mail che s’erano scambiate in quell’anno, ogni messaggio sul cellulare, ogni brindisi a festeggiamento di una batosta erano stati una piccola pietra lanciata su uno specchio d’acqua apparentemente quieto: invece di sprofondare negli abissi, quelle pietre erano rimbalzate una, due, infinite volte.

E l’acqua aveva preso vita.
La loro amicizia aveva preso vita.
Era inquietante la sintonia che s’era instaurata tra loro: due amiche, complici come mai sarebbe accaduto tra due sorelle. Perché loro due avevano avuto il privilegio di potersi scegliere.
«Giusto. Niente parola con la C», confermò il loro mantra delle ultime settimane, quello che continuavano a ripetersi da quando l’uomo che doveva condurre Francesca all’altare aveva ritenuto opportuno fare prima una sosta a Caracalla. Anzi, più di una, così come avevano precisato gli agenti che avevano arrestato il promesso sposo per favoreggiamento della prostituzione. Un cliente abituale, l‘avevano definito.
Come se avesse fatto una qualche differenza se fosse stato occasionale.
La sua amica era andata in caserma quando il bastardo l’aveva chiamata. Carla si sarebbe fatta puntare una pistola alla tempia, ma non le avrebbe mai chiesto il motivo per cui Francesca, avvocato di successo della capitale, aveva garantito per quell’uomo e l’aveva fatto uscire. Non era affatto da Francesca, ma si sa: l’amore rende ciechi. Con la buona disposizione d’animo che contraddistingueva ultimamente lei, invece, avrebbe corrotto tutti i trans della Tiburtina e si sarebbe assicurata per quel porco un biglietto di sola andata per Regina Coeli.
Poi, nel cuore della notte, Francesca aveva bussato alla sua porta e a lei era bastato un solo sguardo a quegli occhi asciutti come il deserto per capire che era a pezzi. Dopo qualche giorno aveva fatto i bagagli per entrambe ed erano semplicemente sparite dalla circolazione per quella vacanza che programmavano da mesi, da quando Francesca l’aveva ingaggiata per arredare il suo studio legale, vacanza che non avrebbe dovuto prevedere una sincope nel Cilento ad agosto, ma esclusivamente Piña Colada a dicembre su una spiaggia delle Hawaii. Tuttavia il tempo a sua disposizione era stato quello che era stato e Carla, in last minute, era riuscita a trovare solo Acciaroli, perla del Cilento e luogo in cui, molto probabilmente, avrebbe lasciato la pelle.
«Fra, devo fermarmi. Tu continua, ma se io faccio un altro passo è altamente probabile che sia anche l’ultimo», l’implorò. Implorare a volte funzionava con la sua amica. Non molto spesso, in verità, e lei si chiese quanto il bastardo avesse dovuto implorarla per convincerla a tirarlo fuori di prigione. Sempre se l’aveva fatto. Carla non l’aveva mai vista cambiare idea se era convinta di qualcosa, anzi. Solitamente accadeva il contrario: più la pregavano, più Francesca s’impuntava.
L’amica la guardò in tralice. «Ti stai rammollendo», asserì senza scomporsi. «Il valore storico di questa torre è immenso. Lo sai che faceva parte di un sistema difensivo di cinquantotto torri su tutta la costa da Agropoli fino a Sapri, ideato dagli spagnoli nel XVI secolo?»
«Cerchi di impressionarmi con la tua memoria fotografica? Guarda che ti ho vista, stamattina, mentre sfogliavi la guida turistica. Quindi, lo so perfettamente che neanche a te frega un ca-», le narici di Francesca ebbero uno spasmo di rabbia, «-volo dei tesori archeologici della zona. Torniamo indietro, Fra. Stasera ci chiudiamo in camera, ci ubriachiamo fino a perdere i sensi e domani ci spostiamo da qualche parte con un po’ più di vita. Palinuro. O Marina di Camerota. O quello che ti pare»
«…quello che la guida non riporta, però, è che ci sono dei cunicoli sotterranei che collegano tutte le torri. Sono stati usati dai partigiani durante la seconda guerra mondiale», proseguì imperterrita l’altra.
Carla si azzittì perché nella voce di Francesca c’era quella determinazione contro cui, lo sapeva bene, non esisteva possibilità di vittoria. Appoggiò una mano sulla ringhiera rovente in ferro battuto di un’abitazione lì vicino per sostenersi e si fermò definitivamente.
«Cunicoli, dici?». L’idea era allettante. Tunnel sotterranei, ombra, fresco. E poi non era la cima di una torre da cui potersi lanciare nel vuoto, per un colpo di calore o per una delusione d’amore.
«Pare di sì. E ho intenzione di corrompere il custode per farci accedere. Sembra che conservino ancora gli effetti personali dei fuggiaschi».
Carla afferrò la ringhiera anche con l’altra mano, mentre si lasciava scivolare sui primi gradini che conducevano all’ingresso della casetta di tufo. «Quindi potrei semplicemente perire nel tentativo di scovare qualcosa che nemmeno le guide turistiche riportano. Prosegui pure, piccola esploratrice. Io sono arrivata». E con un sospiro si accasciò sullo scalino in pietra che le ustionò la porzione di gluteo lasciata scoperta dagli shorts che indossava.
L’amica le lanciò solo uno sguardo, senza tradire alcuna emozione. «Come vuoi». Si girò e riprese a scalare la pendenza della strada con rinnovato vigore.
Quando Francesca svoltò l’angolo ci vollero solo pochi secondi prima che il rumore dei sandali di cuoio contro l’acciottolato ardente si affievolisse del tutto e Carla piombasse nel silenzio di quell’afoso pomeriggio estivo. Non permise ai sensi di colpa di farsi strada dentro di lei: Francesca aveva il sostegno della sua rabbia a condurla, ma lei aveva la pressione massima a novanta nei suoi giorni buoni e quindi una giustificazione più che valida per parecchi picchi di pigrizia improvvisi a venire. Rimpianse solo di non essere stata previdente al punto da munirsi almeno di una bottiglia d’acqua prima di affrontare il deserto e sollevò una mano per schermarsi il viso dall’implacabilità del sole, mentre lanciava uno sguardo alla piccola piazza su cui si affacciavano diverse abitazioni come quella che aveva eletto a proprio rifugio.
Per essere bella, Acciaroli era più che bella. Era affascinante, suggestiva.
I muri in pietra delle case erosi dai secoli, la solidità del legno d’acero dei battenti, gli stretti percorsi di sampietrini su cui si affacciavano i balconi in ferro battuto e le occasionali torri di guardia angolari. L’aria. Con il profumo degli agrumi e di qualcosa di più nascosto, antico, perduto.
Si aveva l’impressione di essere stati proiettati di colpo nel piccolo borgo medioevale che, Carla lo percepiva chiaramente, ancora echeggiava vita e movimento.
Il movimento, per l’appunto.
L’essersi fermata non le aveva apportato alcun beneficio termico; il calore sembrava addirittura aver trovato un bersaglio migliore nella sua staticità e lei seppe con certezza che se non correva subito ai ripari non avrebbe mai potuto ascoltare la voce della sua amica che le raccontava entusiasta della piccola esplorazione che contava di effettuare in quegli improbabili cunicoli sotterranei.
D’istinto spostò lo sguardo in basso e seguì un breve tratto di lastricato polveroso immaginando che, forse, in quel preciso istante lì sotto si stava spostando anche Francesca.
Al fresco.
I suoi occhi indugiarono al limitare di una piccola viuzza registrando qualcosa di insolito nel panorama ripetitivo che si proponeva al suo sguardo. Un’insegna di legno consunta penzolava pigramente da uno spuntone di ferro dalla lavorazione essenziale. Attraverso il velo distorcente del calore, riuscì a distinguere la parola “Antichità”, ma la cosa che le fece aggrottare la fronte era l’altezza a cui l’insegna si trovava. Circa un metro dalla pavimentazione, ad occhio e croce.
A meno che quello non fosse un paese popolato da gnomi, lì c’era un sottoscala.
E c’era l’ombra.
Il meccanismo a molla presente nelle sue gambe - che non sapeva nemmeno di possedere - scattò e Carla si diresse rapida verso il punto designato dal suo spirito di conservazione.
Ed eccola. La porta d’ingresso di una bottega a cui era possibile accedere tramite cinque, forse sei scalini più in basso. Carla provò ad indovinare qualche movimento dietro il vetro opaco dell’anta di legno ma, quando capì che la porta era soltanto socchiusa, lasciò da parte ogni ulteriore indugio e scese giù.


*****


«Dio sia lodato», sospirò non appena riuscì a sgattaiolare all’interno del negozio. La variazione di temperatura non doveva essere eccezionale ma quel piccolo locale polveroso, stipato di chincaglierie e di ogni genere di oggetti di varia forma e grandezza, le parve il posto più bello in cui avesse mai avuto occasione di mettere piede. Brividi deliziosi iniziarono a percorrerle la pelle scoperta delle braccia e delle gambe, percepì tutto d’un tratto il sudore che le imperlava la fronte e la base del collo e capì che, dopotutto, la felicità era davvero fatta da piccole cose: tipo un riparo, al momento del bisogno.
Si guardò intorno.
Più che il negozio di un antiquario, sembrava quello di un restauratore.
Tre sedie, di cui una azzoppata, attendevano di essere rimpiallacciate intorno ad un paio di tavolini pieni di bozzi e graffi. Cornici d’ottone sbiadito ammassate le une sulle altre impreziosivano paesaggi marini o ritratti di anonimi sconosciuti. Su quasi ogni superficie piana a disposizione c’era lo scheletro di una lampada da comodino, un abat-jour sbilenco o il braccio di quello che, un tempo, doveva essere stato un pretenzioso lampadario a goccia o a cascata.
«Uhm… c’è nessuno?», domandò con scarse speranze di essere disattesa. Non aveva abbastanza fede nell’umanità per credere che esistesse ancora qualcuno che lasciava intenzionalmente le porte aperte in sua assenza e, dunque, si sentì sciocca per quella domanda retorica. Tuttavia non ricevette risposta e ritenne saggio mantenersi nei pressi dell’ingresso, mentre riprendeva la valutazione critica dell’oggettistica del negozio.
Non c’era alcun intento espositivo nella disposizione della merce, stabilì. Eppure lei, che di mestiere faceva l’arredatrice, vide il potenziale celato dietro quel cumulo di mobili e cianfrusaglie. I negozi d’antiquariato che talora visitava a Roma per conto di qualche cliente erano ben differenti: lucidi, organizzati, efficienti. E, sebbene non avesse una particolare predilezione per il disordine, dovette ammettere che la trascuratezza di quel posto aveva una sua attrattiva: la promessa dell’esplorazione e della scoperta.
Tra quegli orologi, ad esempio. A pendolo, a cucù, da parete, inseriti in orrende statue, intagliati nel legno o nel quarzo.
O dietro a quello specchio color oro annerito dai decenni, lì dove uno scaffale traboccava stoicamente volumi gonfi d’umidità, con le coste rovinate e le consunte copertine di cuoio rese lucide dall’uso.
Quel negozio poteva rivelarsi la sua Eldorado personale.
Capì di aver abbandonato ogni cautela quando prese a rigirarsi tra le mani un orologio da taschino decisamente antico, con il vetro di protezione tutto scheggiato e la catena spezzata. Doveva esserci di sicuro un meccanismo di apertura posteriore della cassa…
«È suo. Per cento euro».
Carla sussultò appena e s’impose di continuare a valutare l’oggetto con attenzione senza voltarsi, perché infilarsi in un negozio per sopravvivere alla calura non era tanto scortese quanto arrivare di soppiatto alle spalle di una persona.
«Per sistemarlo ce ne vorrebbero almeno ottanta. Credo che le farà compagnia ancora per un bel po’», rispose e lanciò un’occhiata alle sue spalle mentre riponeva l’orologio su una mensola, assieme ad altri in condizioni più o meno simili.
Quello che suppose fosse il proprietario del negozio era chino su un tavolino bacheca e nemmeno guardava nella sua direzione. «Restauratrice», sentenziò l’uomo sollevando e abbassando il vetro del tavolo, prima di spruzzare qualcosa nelle giunture e ripetere il movimento.
«Arredatrice», rettificò lei senza aggiungere che il restauro era una passione che non aveva mai approfondito adeguatamente.
«Ah, ma allora è nel posto giusto. Quel Trumeau del ‘700 alla sua destra la stava proprio aspettando. Glielo regalo per quattrocento euro. Un affare». Proseguì nella sua occupazione mentre lei lanciava un’occhiata al mobile indicatole.
«Per un Trumeau del ‘700 gliene davo anche mille, di euro. Ma quattrocento per un cassettone con alzata? Senza offesa, ma nel suo negozio fa un figurone». Carla incrociò le braccia e si voltò completamente verso quel piccolo imbroglione.
L’uomo, ancora piegato sul tavolino, sollevò il capo e lo sguardo su di lei per lanciarle la prima, vera occhiata da quando era sopraggiunto. E continuò a fissarla anche mentre si raddrizzava e prendeva uno strofinaccio lercio dalla tasca del suo pantalone di stoffa scuro per pulirsi le mani.
La ragazza ricambiò lo sguardo e registrò istintivamente i dettagli di quel volto. Non avrebbe potuto definirlo bello, come non poteva definire bello quel locale. Eppure possedeva qualcosa di accattivante. Forse il taglio degli occhi, forse quell’accenno di barba, o il rigore di quei capelli tagliati cortissimi che cozzava con l’immagine di trasandatezza suscitato dai suoi indumenti.
«Se non ha intenzione di acquistare nulla, che ci fa nel mio negozio? Vuole forse vendere qualcosa?». Il proprietario infilò lo strofinaccio logoro nella tasca del pantalone con un gesto secco e, prima di chinarsi a sollevare il tavolino bacheca, Carla notò come un angolo delle labbra dell’uomo fosse appena piegato verso l’alto.
«La porta era aperta», aggiunse in tono troppo orgoglioso per illudersi di non sentirsi obbligata a giustificare la propria presenza lì.
Lui la guardò ed inarcò un sopracciglio mentre si spostava con agilità reggendo il peso tra le braccia.
Carla osò un’occhiata rapida ad un bicipite che tendeva la stoffa della camicia che lui indossava. «La porta era aperta e io stavo morendo di caldo, lì fuori», aggiunse in tono molto più mite. «Sono entrata solo per ripararmi dal sole», confessò.
L’uomo annuì con fare assorto e sistemò il mobiletto in un angolo, dopo aver ricavato un po’ di spazio colpendo un paio di volte col piede una colonnina intarsiata che, evidentemente, non aveva più diritto ad una doppia – uso singola. «Dunque lei non è una fatalista», commentò acciuffando la pezza lurida nella tasca dei suoi pantaloni per ridistribuire lo sporco. Osservò la nuova disposizione e, quando si voltò nuovamente verso di lei, ne parve sufficientemente soddisfatto. «Eppure, camminando s’è fermata proprio vicino al mio negozio. Per sfuggire al sole ha scelto di scendere e di entrare, piuttosto che far ritorno al suo B&B».
La studiò pensieroso, prima di incrociare le braccia al torace.
«Non tutte le cose accadono per caso, Carla».





Minific di tre capitoli. Uno al giorno, a partire da oggi.
A domani!











   
 
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