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Autore: _ M i r a i _    20/12/2013    1 recensioni
[Masaki e Kirino, NON RanMasa / più di mille parole (?) / basata su "Invictus" (ma dai! -.-) di William Ernest Henley]
"Solo allora si accorse di avere una figura ad intralciargli la vista dell’esterno. Alzò gli occhi e ne incontrò un altro paio azzurri, vispi, che potevano confondersi col cielo. Masaki pensò che fossero gli occhi di un angelo venuto a portarlo in paradiso e che la sua ora fosse ormai giunta. Strano, non faceva per niente male morire."
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kariya Masaki, Kirino Ranmaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Invictus





 
 
 
Beyond this place of wrath and tears
 Looms but the Horror of the shade,
 And yet the menace of the years
 Finds and shall find me unafraid.



Riaprì gli occhi, e vìde il buio.
L’ambra del suo sguardo non si abituò subito all’oscurità di quel luogo, ci volle qualche secondo, prima che capì dove si trovasse e quando.
Una cella, di notte; proprio quello che voleva evitare. Non che avesse scelta, sapeva che sarebbe successo prima o poi. Lasciato a morire in una segreta del castello solo perché non aveva una casa e una famiglia, invece di venire aiutato. Lo definì con una sola parola.
Ingiusto, totalmente ingiusto.
Masaki non ha mai conosciuto il padre, la madre è morta qualche mese prima e lui è stato costretto a vivere autonomamente a tredici anni, per strada, fino alla sua cattura. Era solo, solo in quella umida cella, ferito su gambe e braccia, ma ancora vivo. Questo era quello che importava, che sia vivo.
Tentò di alzarsi da terra; le sue gambe barcollarono e cadde sulle fredde pietre del pavimento. Tentò una seconda volta, appoggiandosi al muro, riuscendo nell’impresa. Non aveva voglia di morire assiderato sul pavimento, perciò si lasciò accasciare sulla sporca veranda di legno, appesa al muro tramite catene ormai arrugginite, che si chiedeva come riuscissero a reggere ancora. Non ci diede troppo peso: era stanco, le sue ferite stavano perdevano sangue a fiotti; per un attimo pensò che sarebbe morto lì, quella notte, al buio.
E solo.
No. Non poteva morire così, non dopo tutto quello che aveva passato fin dalla sua nascita. Non poteva lasciare che la morte lo conducesse nel suo regno. Non in quel momento, almeno.
Nonostante tutto, però, le sue palpebre si abbassarono lentamente, in un gesto disperato di arresa. Quando furono totalmente chiuse, sperò solo che più tardi si risvegliasse, o che almeno si trovasse in un posto migliore di quell’orribile cella del castello di un regno ingiusto.


 
*****


La cella di Masaki era un po’ al di sotto del terreno ed aveva una finestra sbarrata. Posta esattamente sulla sua veranda, vi era una finestra molto piccola, un metro per un metro circa, ma a lui bastava per vedere cosa ci fosse fuori. Non che ci fosse poi tanto da vedere: solamente una distesa di grano avanti, a destra e a sinistra, nient’altro. Passava ore, a volte tutto il giorno davanti a quella finestra, aspettando chissà chi o cosa o a volte solo immaginando di uscire. Gli mancava tanto l’esterno: sentire l’erba riscaldata dal sole sotto i piedi, il vento scompigliare i suoi capelli azzurri, l’odore dell’aria pura e fresca. Ma non poteva uscire dalla cella, era stato condannato a passarci la vita, quindi non avrebbe mai potuto risentire quelle sensazioni. Fino a quando non sarebbe morto, perlomeno. A quanto pareva, l’unico modo per uscire da lì era passar a miglior vita; ma lui non voleva. Sarebbe marcito per l’eternità in quello stupido buco piuttosto che morire solo perché il suo corpo avrebbe sentito un venticello che non sarebbe durato molto, visto che o ti buttavano in mare o restavi lì. E Masaki non credeva che le guardie si sarebbero scomodate tanto da portare il suo cadavere sulla spiaggia. Intanto rimaneva sulla veranda, con lo sguardo immerso nel color oro delle spighe estive di grano.
-ciao- sentì.
Solo allora si accorse di avere una figura ad intralciargli la vista dell’esterno. Alzò gli occhi e ne incontrò un altro paio azzurri, vispi, che potevano confondersi col cielo. Masaki pensò che fossero gli occhi di un angelo venuto a portarlo in paradiso e che la sua ora fosse ormai giunta. Strano, non faceva per niente male morire.
-ehi, mi senti?- ripeté la voce dell’”angelo” difronte a lui.
-sì che ti sento. Perché me lo chiedi? Pensavo che gli angeli non avessero bisogno di farsi sentire- rispose. La figura allora si sedette per terra, arrivando all’altezza della finestra.
-ma io non sono un angelo- disse divertito l’altro mentre i suoi lunghi codini rosa, che Masaki aveva notato solo in quel momento, ondeggiavano al vento. Si riprese dall’affermazione e domandò:
-allora chi sei?-
-mi chiamo Ranmaru, tu invece?- rispose sornione.
-Masaki. Cosa ci fai lì fuori?- chiese, stranito dal fatto che lui non era dentro una cella. A quanto sapeva, nessuno veniva risparmiato dall’essere sbattuto nelle segrete, quindi non si capacitava del fatto che lui fosse rinchiuso e quello là.
-perché io sono Ranmaru- spiegò, e ancora lui non capiva.
-io sono Ranmaru, il principe Ranmaru- chiarì e il turchese sbarrò gli occhi dalla sorpresa.
-oh, scusa… cioè, scusatemi, altezza- disse chinando il capo in segno di rispetto. Non voleva morire e soprattutto non dopo aver parlato in modo inadeguato al principe. Sentì Ranmaru sospirare, quindi alzò la testa, vedendo l’espressione seccata dell’altro.
-ti prego, dammi del tu, non ce la faccio a sentirmi dare del lei da tutti- sbuffò.
-beh, va bene… Ranmaru- disse incerto, facendo incurvare le labbra dell’altro in un piccolo sorriso.
Parlarono molto a lungo, fino a sera, e Masaki scoprì alcune cose di Ranmaru. A quanto sembrava, lui non sopportava la vita reale: diceva di avere sempre un sacco di impegni e di dover seguire in ogni momento tantissime regole comportamentali. Inoltre tutti si prostravano a lui, sebbene la cosa lo infastidisse; infatti lui era un tipo molto umile, non gli piacevano tutte quelle attenzioni e devozioni. Gli ha pure accennato che fra pochi anni dovrà sposare la figlia di un regno vicino che nemmeno conosce, per mandare avanti il regno di suo padre, anche se lui non avrebbe voluto.
“Un giorno” ricordò le sue parole Masaki “vorrei tanto andarmene da qui, vivere una vita mia e andare dove mi porta il vento”.
 Si addormentò sulla veranda, ripensando a quel ragazzo e chiedendosi se l’avrebbe più rivisto.


*****

 
Passarono molti giorni dal loro primo incontro, forse due mesi, secondo Masaki. Ogni due giorni, di solito verso le sei del pomeriggio, Ranmaru andava a fare visita al turchese, raccontando le sue giornate e scherzando con lui. A volte ritornava anche al discorso del suo essere libero, anche se Masaki non ci faceva tanto caso. Era stranamente felice quando vedeva Ranmaru sedersi nel suo solito posto e salutarlo; non aveva mai provato tanta contentezza nel vedere un ragazzo. Iniziava a considerarlo qualcosa di più che una persona come tutti.
A considerarlo un amico.
Non aveva mai avuto un amico, non aveva mai saputo cosa si provava ad averne uno; a dirla tutta, lui non si era mai fidato di nessuno. Per questo non aveva amici.
Ora che considerava il rosa un amico, però, non si sentiva più solo. Aveva qualcuno con cui parlare, sfogarsi e ne era contento. Ma, cominciò a fare mente locale, come si comportava un amico? Non lo sapeva, non lo sapeva proprio. Ma sapeva comunque che Ranmaru non lo avrebbe abbandonato, visto che da quanto aveva capito, nemmeno lui aveva amici, oltre a lui. Quindi, che senso avrebbe avuto abbandonarlo?
Quel giorno Ranmaru sarebbe venuto a trovare Masaki. Il turchese era in fermento; era sempre così quando l’altro doveva venire. Chissà cosa gli era successo in quei due giorni in cui non si erano visti, pensava Masaki.
Si sedette sulla veranda di legno, aspettando che la calda voce dell’amico lo richiamasse. Un sorriso sincero sulle labbra, che forse non aveva mai nemmeno provato a fare.
Passò un quarto d’ora alle sei, a quanto aveva sentito dalle campane arrivanti dal centro della piazza principale, non molto lontana. Un altro rintocco, un altro e un altro ancora. Presto si fecero le sette, poi le otto e infine le nove. La bocca di Masaki a poco a poco aveva lentamente perso il leggero sorriso, che si afflosciò nel corso di quelle tre ore, fino a trasformarsi in una smorfia delusa. Non aveva mai mancato un appuntamento, perché farlo adesso?
 La luna era già alta nel firmamento blu della notte assieme alle stelle, che splendevano bianche, sfumate di giallo. Alzò lo sguardo sul cielo. Si sentiva raggirato e tradito da Ranmaru, ma, infondo, non era così che andava il mondo? Tutti erano disposti a deluderti da un momento all’altro, solo per guadagnarci e, a volte, per goderci nel farti soffrire. Alla fine realizzò.
Masaki non aveva amici, non ne aveva e non ne ha.
E non ne avrebbe mai avuti.
Si distese sulla tavola di legno che era la veranda. Una lacrima rigò il suo viso. No, era impossibile, lui non aveva mai pianto. Allora perché?
Perché ci sperava, ecco perché. Sperava che anche Ranmaru lo considerasse amico, che non lo avrebbe mai abbandonato, che sarebbe restato. Invece… è andato via da lui.
Chiuse gli occhi ambra, stavolta pensando seriamente di non volere svegliarsi. Che senso ha se non hai una persona a te cara a darti il buongiorno…?


 
*****

 
-Masaki…-
Stropicciò gli occhi ma non gli aprì.
-Masaki, svegliati!- sentì, come uno strillo soffocato.
Aprì gli occhi e si alzò in piedi, trovando Ranmaru accovacciato vicino alla finestra sbarrata. Sgranò gli occhi. Perché era tornato? Non lo aveva abbandonato da solo, senza nessuno?
-Ranmaru, che ci fai qui a quest’ora?! È ancora buio!- disse, ma il sorriso dell’altro non si spense. Masaki si chiese il perché di quel sorriso così idiota, che però adorava.
-scusami, sia per ora… che per oggi…- disse abbassando lo sguardo, seguito dall’altro, che ovviamente si sentiva in colpa. Non lo aveva abbandonato, che stupido a pensarlo.
-ma- continuò –ho una buona ragione! … Masaki… scappiamo, insieme!- disse poi, rendendo più seria la sua espressione.
-sul… sul serio? E come?!- chiese sbalordito dalla notizia. Allora Ranmaru tirò fuori uno zainetto, ci infilò la mano e ne estrasse due seghetti di metallo. Ne porse uno a Masaki.
-forza, facciamo in fretta prima che ci scoprano- esclamò, prima che i due iniziassero a segare e sbarre. Non ci volle molto data la loro vecchiaia. Le sbarre cedettero facilmente, Ranmaru tese la mano verso Masaki, che la afferrò, sentendo il suo calore. Dopo averlo aiutato ad uscire dalla cella, ancora con la mano stretta in quella del turchese, il rosa si bloccò a guardarlo. Poi, dopo qualche secondo di silenzio, abbracciò Masaki, che dopo un momento di stupore ricambiò. Sentiva il calore dell’amico pervadere il suo corpo, trasmettendogli una sensazione mai provata prima.
Si sentiva al sicuro tra quelle braccia.
Sciolto l’abbraccio, Ranmaru cominciò a correre verso i campi di grano, seguito da Masaki, che si chiedeva cosa stesse facendo. Poi capì, stavano davvero scappando.
-dove andiamo, Ranmaru?!- gli urlò, cercando di raggiungerlo. Era davvero veloce sebbene non fosse abituato a correre.
It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll,
Il rosa si fermò e si girò verso l’amico per rispondergli. Alzò gli occhi al cielo ed osservò le stelle. Per qualche ragione, secondo lui splendevano di più quella sera, come ad incitarli a fuggire ancora più lontano.
In quel momento si alzò una lieve brezza fresca, che fece scuotere i capelli dei due. Ranmaru, allora, allargò il suo dolce sorriso e disse:
I am the master of my fate:
-dove ci porta il vento Masaki, dove ci porta il vento!-.
I am the captain of my soul.



~~

Angolino dell’Autrice se così si può definire





Sal- *laimbavaglianoelagettanoinunfiume*
Già, probabilmente siete arrabbiati, come biasimarvi. Ho cancellato una fic perché non riesco a stare dietro agli aggiornamenti, ma non solo per questo. Alla fine quella fic di sicuro non avrebbe avuto molti colpi di scena, ecco perché. Fine. Ora parliamo di questa.
Allora, ci sono degli accenni RanMasa (che praticamente costituiscono circa il 78% della fic), ma non lo è purtroppo.
È una poesiafic, nome inventato da me u.u, ovvero è basata sulla poesia di William Ernest Henley, appunto “Invictus”. In teoria dovrebbe essere ambientata intorno al Medioevo, non so, ditemi voi quando è ambientata aw.
Le parti scritte in inglese sono la poesia (lingua originale, please u.u).
Spero non ci siano errori. Byeeee!
Lula che ha cambiato nick XD
 
  
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