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Autore: aturiel    21/12/2013    9 recensioni
Amio vorrebbe parlare, ma dalla morte prematura del fratello avvenuta quattro anni prima non proferisce parola. Dai pregiudizi dell'Inghilterra ottocentesca alla sincerità di un amore nato con il tempo scandito da un orologio rotto.
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Classificata sesta al "Character death contest! (slash)" di Dollarbaby con premio Personaggio (Jean)
Nomination miglior personaggio non protagonista (Jean) al "[Tuttifandom & originali SOLO EDITE] Oscar EFPiani 2014"
Partecipa al contest "Lacrime"
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: L'Ottocento
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Stridio di catene che si scontrano, violente. Urla di gente disperata e povera, felice di una pausa dalla sua vita monotona.
Il silenzio dei dolci e morbidi passi di un ragazzo che sembra un bambino.
La lunga galleria male illuminata che collegava le celle al centro della piazza, lunga, infinita, buia.
L’odore di muffa che impregnava, insieme a strepiti e speranze spezzate, ogni singola pietra di quel luogo.
Amio finalmente vide la luce e uscì dal cunicolo. Nel centro della piazza c’era il patibolo ad aspettarlo, come se fosse il diavolo in attesa di avere la sua anima, famelico. Solo quattro passi che lo separavano da questo.
Si dice che nei tuoi ultimi attimi affiorino tutti i ricordi delle esperienze che hai vissuto fino al quel momento, dai più malinconici e oscuri ai più luminosi e felici.
Amio allora iniziò a ricordare: al primo passo ricordò una tempesta che infuriava a Londra, nell’inverno del 1825. Aveva freddo ma continuava a correre, correre, correre. Era inciampato in un cumulo di neve e caduto rovinosamente al suolo, spargendo i suo lunghi capelli bianchi e spettinati sulla strada e che si confondevano con il manto candido che copriva la città ormai da settimane. Si era rialzato come aveva già fatto innumerevoli volte e aveva ripreso a correre. Per sbaglio aveva urtato un passante dal bel cappotto beige, guanti scuri e un cappello a cilindro simile a quello che Amio aveva indossato in passato. Prima che il gentiluomo si voltasse era già corso via, tentando di evitare una punizione che non sarebbe arrivata. Invece una di quelle mani guantate l’aveva preso per la collottola del suo maglione sudicio e consumato e un viso giovane e allegro gli aveva chiesto:
-Chi sei, ragazzino? Tutto bene? Non hai freddo a stare qui fuori con una tale tempesta? Dove sei diretto? Perché corri tanto? Vuoi che ti accompagni a casa mia per prendere una tazza di tè? Ehi, ma perché non mi rispondi?
Amio era rimasto sopraffatto da quel fiume di parole, tanto che si era limitato ad annuire timoroso. Quindi lo sconosciuto l’aveva preso per un braccio magro e l’aveva trascinato con sé.
Avevano camminato, o meglio, il gentiluomo aveva camminato e Amio gli aveva incespicato appresso, per circa mezz’ora finché non si erano trovati di fronte a un edificio altissimo in pietra, decorato con alti capitelli marmorei su cui erano rappresentati decori complicati e talmente dettagliati da far sembrare reali anche le belve impegnate in una danza mortale, immobile ed eterna senza nessun vincitore e nessun vinto.
Il signore allora era entrato nell’abitazione e si era sbottonato il cappotto, lasciando per un momento il braccio di Amio che era caduto a terra privo di sensi.

Fece il secondo passo e si ricordò il suo risveglio in una stanza color panna, con alti soffitti e un camino in pietra che diffondeva una dolce luce soffusa e calda in tutto il locale. Accanto a lui dormiva appoggiato a una scrivania in legno intarsiato il giovane gentiluomo e Amio ricordò che si era avvicinato per osservarlo meglio.
Aveva tratti fini ma un po’ banali, le labbra formavano una dolce curva anche nel sonno, i ricci capelli ribelli con quella particolare sfumatura ramata gli facevano apparire il capo come un cespuglio di ramoscelli e foglie secche stese morbidamente su un suolo autunnale.
Si era accucciato poi sotto la poltrona di velluto scuro sui cui fino a poco tempo prima era stato disteso e aveva afferrato un grosso orologio da taschino dorato su cui erano incise le iniziali J. B. All’improvviso il giovane si era svegliato, aveva spalancato i suoi grandi occhi verde foglia e li aveva puntati dolci e spaesati su Amio.
Poi aveva sussurrato con voce ancora un po’ assonnata:
-Ben svegliato, piccolino! Tutto bene? Bella giornata vero oggi? È uscito un bel sole caldo, così non ci sarà bisogno di un tè per farti riprendere!
Poi aveva spostato lo sguardo sull’orologio che Amio aveva ancora tra le mani e aveva aggiunto, allargando ancora di più il suo sorriso:
-Ti piace quell’orologio? Puoi tenerlo! Ne costruisco molti simili a quello.
Amio allora aveva osservato l’oggetto e poi era tornato a fissare il volto gioviale del suo interlocutore che non si era ancora rassegnato al mutismo del ragazzo, infatti aveva ripreso a chiedergli:
-Come ti chiami? Quanti anni hai? Da dove vieni?
Non aveva risposto poiché aveva deciso che non avrebbe più parlato dopo la morte del fratello Gilbert, avvenuta quattro anni prima. Forse aveva capito anche lui che Amio non sembrava intenzionato a proferire parola, quindi si era presentato con il solito sorriso cordiale:
-Io mi chiamo Jean William Cedric Blanwell. Chiamami pure Jean se vuoi! Sono un orologiaio ma odio il tempo che scorre, lo fa sempre troppo velocemente e porta via le persone. Io amo il sole, l’estate, i fiori e il beige!
Poi rise tra sé e sé:
-So che parlo troppo, scusami. Sembro uno sciocco! Ma non lo sono! Sono molto intelligente, invece. O almeno così mi diceva mia mamma prima di strozzarsi con le lenzuola!
Sorrise ancora di più e chiese:
-Cosa mi diceva la mia adorata madre prima di morire… Non ricordo… Ah sì! Diceva che devo chiedere sempre:” parlami un po’ di te, ora!”
Amio allora aveva sollevato l’orologio e l’aveva scagliato a terra, facendo rompere in mille pezzi il quadrante in vetro. Aveva poi indicato se stesso e subito dopo i resti dell’oggetto. Allora Jean aveva detto, colpito:
-Io sono… rotto!  
Aveva annuito e si era rannicchiato ancora di più nel suo nascondiglio, ma subito Jean si era accucciato a sua volta e aveva chiesto:
-Dai, esci piccolo! Io magari riuscirò ad aggiustarti. Almeno dimmi quanti anni hai, su!
Allora aveva preso le lancette e le aveva composte prima a formare una ‘x’, poi una ‘v’ e infine aveva spezzato in due quella delle ore e aveva appoggiato semplicemente quella rimanente sul tappeto morbido ai loro piedi. Capendo al volo il linguaggio improvvisato del ragazzo, Jean disse, sempre più sorpreso:
-Sedici! Hai sedici anni e un volto ancora così infantile! Sei così carino con quei capelli candidi e gli occhi neri come quelli di un cerbiatto. Vuoi restare un po’ qui? Potremmo diventare grandi amici!
Il ragazzo aveva esitato, ma dopo averlo guardato intensamente negli occhi era finalmente uscito dal suo nascondiglio e aveva allungato una mano sottile e diafana verso quella grande e forte di Jean, stringendogliela, e facendo aprire le labbra carnose del gentiluomo in un sorriso dolce che emanava anche più calore della stufa lussuosa.

Ancora un passo, gliene mancava solo più uno.
Era già di fronte al patibolo e le urla della folla lo raggiungevano più forti di prima. Decise quindi di viaggiare ancora tra i ricordi e uno in particolare gli riaffiorò, una delle memorie a lui più care.
Si ricordò un giorno in particolare, tra tutti quelli trascorsi a creare orologi senza mai riuscire a farne funzionare uno, tra tutti i giorni in cui Jean gli aveva parlato senza ottenere risposta e aveva, senza perdere né la pazienza né il sorriso, continuato a discutere con lui. In quel giorno speciale si ricordò che Jean gli aveva sussurrato:
-Penso che tu sia un ragazzo davvero speciale, Carlos. Non tutti mi sanno ascoltare senza dare di matto o chiedermi prima più gentilmente, poi in modo più rude, di stare in silenzio. So che parlo troppo e troppo velocemente, ma è più forte di me. Se non parlo mi sento solo in questa grande e silenziosa casa. Mi piace anche il fatto che tu sia muto, perché anche se non mi rispondi mai il tuo silenzio mi ascolta più di qualsiasi risposta, per questo ti voglio qui! Ho qualcuno di così carino qui accanto a me, così particolare… Potrei addirittura innamorarmi di te!
Aveva concluso come sempre con una gran risata e facendo una cosa che per Amio era stata quasi più imbarazzante di quando Jean aveva deciso di chiamarlo Carlos; aveva infatti allungato le grandi mani verso i capelli del ragazzo e aveva incominciato a intrecciarli, accompagnando i lenti e inesperti movimenti a una canzone senza senso. Aveva continuato questa operazione finché non aveva legato tutti i capelli candidi in una treccia disordinata e dalla quale sfuggivano una gran quantità di fili argentati. Finito questo lavoro aveva detto:
-Da adesso in poi ti acconcerò i capelli tutte le mattine in questo modo, così non si infileranno negli ingranaggi. Sei così elegante! Il mio Carlos… vero che sei solo mio? Dimmi di sì…
Amio invece di annuire aveva avvicinato le dita alle labbra di Jean e le aveva sfiorate, poi si era andato ad incastrare tra le sue lunghe gambe e l’aveva baciato. Jean non aveva risposto subito, ma quando aveva iniziato a farlo ci aveva messo tutta la sua gioia di vivere e il suo essere un ingenuo adulto-bambino dalla mente fragile ma intelligente.
Ma lui non vedeva questo in Jean, no.
Lui vedeva la prima persona gentile con lui dopo quattro anni d’inferno, vedeva l’arma contro il suo mutismo, vedeva un cespuglio di rami e foglie secche d’autunno, vedeva qualcuno che aveva tentato di insegnargli a costruire gli orologi, qualcuno che gli aveva detto che era carino, qualcuno che l’aveva accolto in casa, salvandogli, forse, la vita.
I due avevano iniziato una strana danza di mani, pelle, labbra, lingue sconosciuta ma allo stesso tempo che veniva loro naturale fare. Si erano trovati entrambi nudi e insieme, con Amio che non aveva proferito parola e con Jean che invece aveva riso e parlato tutto il tempo.

Il boia spinse il corpicino di Amio in avanti, interrompendo il filo dei suoi pensieri. Aveva ormai compiuto il suo ultimo passo e si era trovato solo davanti a mille sconosciuti, tutti che attendevano la sua morte. Prima che il boia gli infilasse il cappio al collo, però, ebbe il tempo di ricordare ancora una piccola cosa, triste e malinconica: era passato molto tempo da quando era stato accolto in casa Blanwell e gli unici due abitanti di quel grande edificio erano diventati migliori amici e amanti. Ma un giorno era entrato, spalancando la porta dello studio di Jean, un uomo alto, dai capelli ricci e grigi e dal volto atteggiato in una perenne faccia arcigna che aveva detto:
-Jean, mi erano giunte voci riguardanti il fatto che tu stessi ospitando un ragazzino di strada tra queste mura e speravo fossero solo calunnie senza fondamento, ma a quanto pare mi sono sbagliato. Comunque non sono qui per questo, ma perché devi venire con me in America. Io e tuo zio abbiamo finalmente trovato una cura alla tua malattia, così potrai finalmente vivere una vita normale. Seguimi, ragazzo.
-Ma padre! Sto costruendo un orologio con Carlos, non vedi? Adesso proprio non…
-Ti ordino di seguirmi, immediatamente. Non mi interessano né i tuoi orologi né di questo bambino perverso come te. Stai zitto e obbedisci, stupido! Tua madre ti ha rovinato e adesso sono io a doverne subire le conseguenze.
Detto questo l’uomo aveva strattonato Jean obbligandolo ad alzarsi, ma il ragazzo, senza mai perdere il suo sorriso, aveva detto a Amio, riponendogli tra le dita l’orologio che stavano costruendo:
-Te lo regalo, Carlos! Così il tempo è nostro e quello passato insieme resterà sempre nel tuo dolce e profondo cuore! E non romperlo, così sarai intero per sempre. Adesso devo partire per un’avventura in America, mio caro amico. Addio! Anzi no, non addio, arrivederci. Voglio rivederti un giorno.
Suo padre gli aveva stretto ancora di più il braccio e aveva urlato:
-Sì, lo rivedrai, disgraziato! Il 18 luglio ti riporto qui, puoi stare tranquillo. Non ti terrò con me per molto.
E dopo essersi divincolato dalla stretta di suo padre, gli aveva scoccato un veloce e morbido bacio sulle labbra sottili e se n’era andato.

Amio aveva il cappio al collo, quel 18 luglio. Gli avevano trovato, mentre girovagava per le strade, quell’orologio e l’avevano accusato di furto e, poiché non parlava, lo avevano giudicato colpevole e condannato all’impiccagione proprio nel giorno in cui la sua vita sarebbe dovuta ricominciare.
In quel momento, tra la folla, vide Jean, con i suoi soliti capelli ramati molto più corti dell’ultima volta in cui l’aveva incontrato e gli occhi foglia, per la prima volta bagnati dalle lacrime.
Avrebbe voluto consolarlo ma la consolazione non la trovava nemmeno lui che, finalmente, aveva imparato ad amare la sua vita. Stava urlando qualcosa che però si confondeva tra le grida della moltitudine di persone e che Amio non riuscì a cogliere con il solo udito. Acuì quindi la vista e riuscì a leggergli il labiale: gli poneva solo una domanda:
-Sei mio, Carlos?
Amio allora avrebbe voluto parlare, gridare. Ma non la sua innocenza, non per implorare, non per salvarsi la vita e nemmeno per invocare Dio. Avrebbe voluto solo dire tutto quello che era necessario per dare finalmente una risposta a colui a cui teneva di più al mondo.
Ma il fiato gli si mozzò troppo presto e, prima che il cappio gli impedisse di respirare, prima che l’osso del collo si rompesse con un suono agghiacciante, prima che Jean si accartocciasse a terra singhiozzando e invocando il suo amico perduto, prima che la folla urlasse cose senza senso, sputando sentenze sulla vita di quel ragazzo che non conosceva e che non avrebbe mai conosciuto, riuscì a sussurrare con voce rauca e strozzata: “Jean”. 

 



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