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Autore: endif    21/12/2013    3 recensioni
Quel sole le stava friggendo il cervello.
Registrava l’implacabile innalzamento termico, il pigro sfrigolio e il progressivo obnubilamento delle attività cerebrali con una sorta di curioso interesse accademico.
In quel momento, ad esempio, guardava le labbra della donna al suo fianco muoversi a venti centimetri dai suoi occhi, ma era stata catapultata in un luogo di totale deprivazione sensoriale quando la lancetta dell’orologio aveva conquistato le due del pomeriggio e, dunque, ritenne di essere già fortunata così. A poterla almeno vedere ancora.
D’altra parte quella arrancava stoicamente lungo un lastricato di sampietrini in lieve pendenza che in circostanze normali avrebbero potuto percorrere a braccetto, con dodici centimetri di tacco a spillo e il sorriso sulle labbra, ma in quel momento a lei parve solo di muovere un tronco di sequoia secolare davanti all’altro. Dubitava, quindi, che Francesca avesse da pronunciare qualcosa di senso compiuto, ma la profonda amicizia che nutriva per lei la indusse comunque a dire qualcosa, giusto per solidarietà.
«Sei proprio una stronza», ansimò mentre qualcosa di ruvido le si infilava nei sandali, tra le dita dei piedi.
Genere: Generale, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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acciaroli

2



«Non abbia quell’espressione sconvolta. Acciaroli è un paese piccolissimo. Praticamente ci conosciamo tutti. Anzi», l’uomo strofinò con cura le dita sullo strofinaccio prima di riporlo in tasca e compiere qualche passo verso di lei. «Io mi chiamo Giambattista». E restò in attesa, la mano protesa, il sorriso cordiale.

Carla esitò. Se non fosse stata diffidente per natura, molto difficilmente sarebbe arrivata dov’era.
L’uomo che l’aveva generata aveva idee poco chiare sulle responsabilità che comportava una paternità ma non sull’impegno collegato alla passione per il gioco d’azzardo, attività alla quale si dedicava con rigore e costanza. Quasi una professione, a pensarci bene.
Carla aveva compreso molto in fretta che ”fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio”, più che un detto era un prezioso consiglio e ne aveva fatto la propria filosofia di vita. Non aveva praticamente mai vissuto in casa con i suoi, lì dove invece sua madre restava ancorata, perché “casa” era ristoro, conforto, rifugio. O, forse, era solo l’ultimo baluardo in un’esistenza tormentata.
Se non fosse stata diffidente per natura, sarebbe stato necessario molto più della semplice buona educazione per farle stringere quella mano sudicia e poco invitante come, invece, fece con vigore: perché una mano impolverata, piena di tagli e così ruvida al tatto, tanto differente dalle mani dell’uomo che si professava suo padre, non poteva che raccontare di una vita dedita alla fatica. D’altronde suo nonno glielo diceva sempre: un uomo onesto si riconosce dai calli che ha sulle mani. E Carla si fidava ciecamente di suo nonno.
«Carla. Devo dedurre che la proprietaria del B&B in cui alloggio sia… una cugina?», domandò ironicamente.
«Alla lontana», rispose lui.
Aveva una mano forte, la presa decisa che durò solo pochi istanti ma che bastò a rivelare un temperamento d’acciaio. Gli occhi, di una confortevole tonalità castano scuro, sostennero con pacatezza l’esame sfrontato che la ragazza non lesinò loro. Anche quella era una cosa che aveva imparato da suo nonno: non ci si può fidare di una persona che non ti guarda dritto negli occhi.
«Capisco. Il paese è piccolo, la gente mormora… che si dice di queste due turiste che affluiscono dalla capitale?». Nelle sue intenzioni non c’era quella di essere scortese, eppure Carla avrebbe volentieri strappato quella linguetta pettegola alla padrona della stanza che aveva preso in affitto insieme alla sua amica per la loro vacanza. Avevano persino approfittato della possibilità di estendere la formula da B&B a pensione completa, senza sospettare che “sette giorni, tutto incluso” avrebbe compreso anche il servizio di pubbliche relazioni.
L’uomo sorrise. «Che quella più carina si chiama Carla. Non potevo sbagliarmi».
Suo malgrado, la ragazza restituì il sorriso. «O la più rammollita. Francesca, la mia amica, in questo momento sta cercando non so quale passaggio segreto per convincersi di non avere il cuore a pezzi. Ed io, che tecnicamente sono la spalla su cui dovrebbe piangere, ho abbandonato il progetto a metà strada per intrufolarmi in un negozio alla ricerca di un po’ di refrigerio. Ah, e continuo a ripetere quella parola con la C che non si deve pronunciare, anche se non lo faccio di proposito. Sono pessima, non carina».
«La parola con la C?», domandò Giambattista inarcando un sopracciglio.
Carla ebbe la grazia di arrossire lievemente. «Una specie di codice. Cose di ragazze che ogni tanto hanno le traveggole». E le traveggole le parve di averle sul serio. Come le veniva in mente di rivelare certe confidenze ad uno sconosciuto?
«Sarà il caldo. Ogni tanto succede. Allora, pessima Carla», incalzò Giambattista, «cosa ti porta nell’assolata, solitaria, noiosa Acciaroli?» e le sorrise.
Era vestito come suo nonno. Con quei pantaloni pesanti e una camicia a quadretti come se tirasse una leggera frescura e avesse paura di prendere un colpo di freddo e non come un uomo che avrebbe dovuto gocciolare pure l’anima visti i 40°C di fuori. Ma quello continuava a guardarla e lei aveva abbastanza dignità da radiografare solo individui inconsapevoli.
«E’ stata una combinazione. Francesca ed io avevamo bisogno di riportare lo stress a livelli accettabili. Abbiamo fatto i bagagli e siamo partite», spiegò la ragazza distogliendo lo sguardo e lasciandolo vagare per il negozio.
«Le combinazioni sono quelle delle casseforti. Perché Acciaroli?», proseguì l’uomo e lei fu certa che gli occhi di lui avessero iniziato a puntare le sue gambe. Cominciava a sentirsi come se avesse oltraggiato una Chiesa con la propria nudità.
«Beh, mi sono collegata ad internet, ho aperto un sito di last minute e ho scelto la prima offerta che m’è capitata sotto gli occhi. Il nome mi sembrava familiare e quindi … eccoci qua. Quello lì è interessante…». Compì un paio di passi verso la seggiola sbilenca e si accovacciò.
C’era un piccolo dipinto che faceva capolino dietro ad un ritratto di una zingara con un abito rosso fuoco. Era un acquerello senza vetro di protezione, i colori sbiaditi dalla tecnica e dal tempo, eppure pieno di luce. «Posso?», chiese lanciando un’occhiata da sopra le proprie spalle all’uomo qualche passo più dietro.
«Certo, Carla».
Carla seppe in quel momento che quell’uomo era un pericolo. Sapeva pronunciare il suo nome come se lo stesse assaporando sulle labbra e questo le fece girare la testa per un secondo: lei aveva giurato a se stessa che non si sarebbe mai fatta infinocchiare da un uomo dalla lingua magica.
Okay, forse avrebbe evitato solo gli uomini dalla chiacchiera magica.
Tornò a prestare attenzione al dipinto e le parve di sapere già cosa avrebbe ritratto prima ancora di afferrarlo e liberarlo dagli ingombri che lo coprivano.
Era una scena di vita quotidiana: una donna portava sulla testa un cesto traboccante di frutta e saliva un pendio, trascinandosi dietro un bambino che le si reggeva al grembiule. Dall’altra parte due uomini fumavano placidamente appoggiati ad un muro.
Quella particolare tecnica pittorica l’affascinava da sempre. Era stata istruita a riguardo da suo nonno che aveva dipinto fino a quando la mano aveva conservato la forza di reggere un pennello. Poi un giorno, semplicemente aveva deciso di non provarci più e aveva smesso di farlo, staccando dalle pareti tutti i suoi quadri per dimenticare di averlo mai fatto. E poi era morto.

Ma quel quadro non era solo stato dipinto alla stessa maniera, ma proprio dalla stessa persona.
«Chi te lo ha dato questo?», sussurrò la ragazza raddrizzandosi immediatamente. Sentì che Giambattista si avvicinava alla sue spalle e si voltò.
«E’ sempre stato qui dacché ricordi», rispose lui senza degnare il quadro di un’occhiata e mantenendo lo sguardo fisso su di lei. «Conosci l’autore?».
Lei tornò a osservare la raffigurazione tra le sue mani per studiarla nel dettaglio, ma gli angoli erano troppo rovinati per poter ottenere qualche informazione sull’esecutore. «Non lo so. Forse».
Si voltò dandogli le spalle. Reggeva ancora il dipinto tra le mani, ma aveva bisogno di riprendere fiato per scacciare il groppo che le si era formato alla gola. Non aveva mai saputo di un solo quadro venduto da suo nonno. Ne aveva regalati a centinaia, ma a Carla parve lo stesso sconcertante che ne avesse trovato uno proprio in quel posto dimenticato da Dio.
«Vuoi sederti un po’? Mi sembri pallida, Carla». La voce che deviò il corso dei suoi pensieri non tradiva preoccupazione, ma sicurezza. Della diagnosi e della terapia.
E per quanto il primo istinto fosse stato quello di rifiutare con altrettanta fermezza, la ragazza si trovò a dover considerare la possibilità reale che la sua pressione avesse raggiunto un nuovo picco minimo e quindi accettò, sperando almeno che non le offrisse la sedia azzoppata.
Ma quello le offrì uno sgabello tondo in legno ancora più incerto e si allontanò per qualche istante tornando con un bicchiere d’acqua ghiacciata che fece quasi genuflettere Carla, senza riguardo per quarant’anni di onorato femminismo italiano. Tracannò l’acqua velocemente e fu quasi pronta a giurare su una Bibbia di aver appena raggiunto l’orgasmo principe della sua vita grazie ad un bicchiere. Poi rimase ferma, col quadro tra le mani, a fissare le linee tratteggiate dalla mano amorevole di suo nonno.
«E’ la piazza. Questa piazza qui sopra», sussurrò la ragazza indicando il dipinto e lui annuì. Carla studiò con attenzione lo sfondo realizzando che la raffigurazione era proprio fedele al luogo in cui aveva scelto di fermarsi, sfinita dalla passeggiata a prova di infarto che Francesca le aveva imposto – stessa angolazione, stesse abitazioni, stesso periodo estivo - e provò un palpito d’emozione a pensare che, forse, suo nonno un tempo aveva percorso quelle strade, visto gli stessi paesaggi, respirato la stessa aria come ora stava facendo lei. E non l’aveva nemmeno mai saputo.
«Quanto vuoi?», domandò sistemando il quadro sulle ginocchia per poi puntare lo sguardo negli occhi di Giambattista quando fu certa di aver ripreso al lazo tutti i suoi nervi.
Lui la fissò a lungo. «Mi dispiace, ma non è in vendita».
«Suvvia!», replicò lei in tono di scherno. «Stai cercando di vendermi una cianfrusaglia dietro l’altra da quando ho messo piede qui dentro. E’ un modo per alzare il prezzo? Per questo sono pronta a pagare», aggiunse con incrollabile determinazione. Non avrebbe lasciato quel negozio e quel paesino senza quel quadro.
Giambattista sollevò appena le spalle a mo’ di scusa. «Mi è stato detto che non dovevo venderlo, ma conservarlo. Che sarebbe passato qualcuno a ritirarlo, ma non è mai accaduto», rispose. «Facciamo così: ti vendo questi due per cinquanta euro. Sono di un artista lo-»
«Non li voglio quei due, voglio questo!». Carla saltò dallo sgabello valutando la distanza che la separava dall’uscita e la forza fisica del proprietario nel caso l’avesse riacciuffata prima che l’avesse guadagnata.
Non riusciva a spiegarsi il senso di panico che provava a reggere tra le mani qualcosa appartenuto alla persona che aveva più amato in vita sua senza potersene garantire il possesso, il conforto della prova di un’esistenza senza la quale Carla - in quel momento lo realizzava con chiarezza - aveva smarrito il senso e la direzione della propria.
Inspirò profondamente. «Okay, ascoltami. Questo quadro… credo l’abbia dipinto mio nonno. Ne sono quasi certa. La tecnica, il modo di sfumare i colori… vedi?», spinse il dipinto fra loro per mostrargli una zona con la punta di un dito. «Questo scoloramento non è casuale: lo otteneva dipingendo bagnato sul bagnato». E continuò ad esporgli le prove a sostegno della sua tesi indicandogli i dettagli della tecnica che le sembravano rivelatori, lanciando al suo interlocutore solo brevi occhiate, ma imprimendo alle sue parole tutta la fermezza di cui si sentiva capace.
Quando fu certa di essersi lasciata alle spalle quel sentimentalismo inconsapevole che si portava dietro e che rischiava di renderla eccessivamente emotiva, respirò. «Ecco. Sono disposta a pagarti più di quanto ci ricaveresti da un qualsiasi altro acquirente. Per me ha un valore e per te è solo un oggetto che toglie spazio ad un altro».
Giambattista l’aveva ascoltata tutto il tempo con pazienza, senza interromperla e con attenzione. Carla aveva un buon presentimento.
«Dunque dovrei darti questo quadro perché legalmente non c’è traccia di una sua vendita precedente e dalla tua soggettiva analisi strutturale hai dedotto che sia stato eseguito da tuo nonno e questo ti conferisce una sorta di diritto di prelazione. Ho capito bene?». Non c’era traccia di scherno nella voce dell’uomo, ma Carla ebbe la netta sensazione che volesse deriderla ugualmente.
«Pressappoco. Sì, diciamo che il riassunto è abbastanza corretto», rispose lei, caparbia.
Giambattista annuì lentamente col capo, le braccia sempre incrociate, mentre con la punta della vecchia scarpa dava dei colpetti ad una piccola pila di libri abbandonata sotto un comodino.

Dopo aver atteso all’operazione con cura esasperante, sciolse l’incrocio delle braccia e tese una mano nella sua direzione. Carla gli passò il quadro, senza mostrare visibile esultanza, ma pronta a versargli qualsiasi cifra quello le avesse chiesto. L’uomo studiò il dipinto per qualche istante, poi lo depose dietro di sé, nello spazio creato prima dall’incessante lavorio della sua scarpa su quei libri sgraziatamente disposti per terra.
«Torna domani, pessima Carla. Puoi fare di meglio».







A domani!


   
 
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