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Autore: Baby Giant    22/12/2013    1 recensioni
[Drake]
Racconto alquanto ambiguo, non si parla di nessuna Star a parte la comparsa di Drake. Si tratta di un flash-back moltooo interessante.
"Non era rimasto più nulla, se non le ceneri di un amore bombardato dalla società e dai pregiudizi."
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: OOC | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
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Spinse la porta piano. Non si aprì. Allora si aiutò con la spalla, era ancora troppo debole per svolgere alcuni sforzi. Il locale era deserto, c'era solo un ragazzo dai capelli radi dietro al bancone. Si sedette su uno sgabello, proprio davanti al quella specie di commesso ancora addormentato, voleva essere sicura di arrivare al punto e sbrigarsi. Intanto fuori New York si stava svegliando.

Non era mai stata brava a comunicare con le persone che non conosceva bene, balbettava, ingoiava alcune sillabe quando parlava, tentennava. “Scusa, vorrei un cappuccino. Vorrei anche la panna, grazie”, era stata sicura, non aveva divorato intere frasi. Era stata brava. Il ragazzo non alzò nemmeno il capo, si mise a trafficare con le tazze, i cucchiaini e la caraffa di latte. Lei si sporgeva dietro il bancone per captare meglio i suoi movimenti, lo scrutava. Le ricordò sua madre, in Italia, quando le preparava la colazione. Non era a New York per caso, la psichiatra le aveva consigliato di fare un viaggio. Lei aveva accettato subito, non solo perché la strizza cervelli era la sua migliore amica ma anche perché non aveva niente da perdere o forse aveva già perso troppo. Sei mesi prima l'avevano operata per cisti alle ovaie. Sapeva che sarebbe potuta divenire sterile ma l'idea non l'aveva nemmeno sfiorata. Immaginava una bella famiglia, due bambini, la casa al mare, il cane. Quegli esami le distrussero la vita. Il suo ex ragazzo non lo sapeva ancora, avevano entrambi venticinque anni. La loro storia era ormai agli sgoccioli. Erano stati insieme troppo tempo? Forse. Erano troppo diversi? Anche. Lui era di Sarajevo, aveva visto la guerra da piccolo, lei no. Era italiana, adorava l'America, il padre le aveva trasmesso questa passione oltre quella della musica. Lei aveva studiato da ragioniera, lui da meccanico. Incompatibili. All'inizio non presero in considerazione tutto ciò. Avevano solo diciotto anni. Si amavano e basta, era l'unica cosa che li univa. Quando iniziarono a scaturire i sogni per il futuro, ecco, lì iniziarono i problemi. In più le famiglie non si sopportavano. Ricordate le Foibe? Benissimo, il fratello della nonna, italiano, era morto lì, spinto da un bosniaco. Almeno così aveva raccontato un sopravvissuto. Bene, ora andate un po' avanti con gli anni. Millenovecentonovantadue, guerra in Bosnia, Sarajevo è assediata da circa un anno. Un amico di famiglia affermò che era stato un italiano a farlo fuori. Nonno Gojko era uscito per andare ad aiutare i volontari nella ricostruzione dell'università, era stato un professore. Fece tutto quello che gli era stato consigliato: camminare a testa bassa, non fare rumore, aumentare il passo in zone pericolose. Inutile, un soldato lo colpì. Sui verbali della polizia locale c'è scritto che era stato colpito perché era stato “Accidentalmente scambiato per un cecchino serbo, nemico”. La mente umana non crede a simili affermazioni, incolpa e basta. Tutti noi abbiamo bisogno di un capro espiatorio, sopratutto durante una guerra.

Il giorno della fatidica notizia Ivan, così si chiamava il suo ex ragazzo, era partito per Sarajevo. Era il compleanno di un suo parente e si ricordavano le sofferenze che avevano colpito il popolo bosniaco alcuni anni prima. Lei, appena seppe di essere sterile, si sentì cadere il mondo addosso. Oramai più niente era recuperabile. Anche l'ultima speranza era svanita. Ivan non sarebbe più ritornato dalla sua città natale. Si fece spedire le sue cose alcuni mesi dopo. La loro storia era terminata così, senza un saluto, senza un “Addio”, senza “Spero che sarai felice anche senza di me”. Non era rimasto più nulla, se non le ceneri di un amore bombardato dalla società e dai pregiudizi. Lei, poverina, trascorse i mesi successivi a piangersi addosso. Quando usciva, se usciva, indossava sempre gli occhiali da sole per nascondere le lacrime che le sgorgavano dagli occhi ogni singola volta che passava davanti alla vetrina di un negozio per neonati oppure quando vedeva passare una carrozzina. Non riuscire ad avere figli le dava molto più sui nervi rispetto all'aver perso Ivan per sempre. Non era in grado di sopportare tale pensiero, finché non si trasformò in fobie, fino a sfiorare la malattia mentale. Diventò bulimica. Mangiava per poi osservare la sua figura piegata sul lavandino a vomitare. Quasi ne traesse piacere. Iniziò a divenire scorbutica, non voleva vedere più nessuno. Si chiudeva in se stessa, soffriva, soffriva come pochi avevano realmente sofferto almeno finché tale tormento si placò. Le venne in mente qualcosa di più malvagio e autolesionistico: il suicidio. Programmò tutto; il giorno, il momento, scrisse persino una lettera d'addio. L'ultima frase diceva “Questo è il prezzo che ho pagato per un figlio mai nato”. Brividi, era diventata subdola quanto malvagia. L'unico problema? Lo era con se stessa.

Aveva fatto affilare tutti i coltelli, sperava davvero di riuscire a farsi fuori con le sue stesse mani. Evidentemente si era sopravvalutata. Proprio nell'attimo in cui si sarebbe dovuta recidere mortalmente, sua madre la fermò. Nemmeno lei si ricorda più come, avvenne e basta. Trascorse una settimana in una clinica psichiatrica. Nessuno aveva la certezza che si trattasse di una matta, ecco perché dovettero fare determinati accertamenti. Poté tornare a casa immediatamente dopo, non le diedero nessun farmaco a parte alcune gocce per il sonno. La cura era quella di “Ricostruire la sua intera vita, da capo, con l'aiuto dei famigliari, se possibile”. Adesso era a New York, inutile dire che, almeno in parte, era tornata se stessa. Per il resto, beh, era cambiata.

 

Il ragazzo le porse la tazza bianca ricolma di un bel cappuccino fumante. Lei si era immobilizzata ad osservare il vapore che scaturiva da esso mentre il giovanotto aveva già assunto la sua posizione “Da rimorchio”: i gomiti erano appoggiati al bancone, il schiena era rilassata all'indietro mentre il suo viso si tendeva verso quella giovane fanciulla mora che ben poco aveva d'americano ma che lo incuriosiva molto.

Lei fece finta di non vederlo mentre si preparava a deglutire quella delizia almeno fino a quando lui non si avvicinò troppo. Erano quasi labbra contro labbra, separati dal bordo della tazza fumante.

“Scusa, Drake, ti potresti allontanare un pochino da me, vorrei bere in santa pace!”

“Come ti chiami?”

“E a te che importa?”

“Se tu sai il mio nome, io vorrei sapere il tuo”

“Mi chiamo Ann”

“Io sono Drake”, allungò la mano per presentarsi.

“Piacere. Comunque bella la targhetta con il nome”, lo prese in giro.

Lui abbassò lo sguardo sul suo petto per osservare quel pezzettino di plastica dove era inciso il suo nominativo in maiuscolo.

Si misero a sorridere entrambi, abbassando lo sguardo.

“Complimenti, hai dell'umorismo” gli disse lui.

“Diciamo che quando voglio sono brava”, rispose lei.

Tornarono a sorridere entrambi. La targhetta era lì, se avesse gonfiato il petto gli si staccata, era posizionata male ma nonostante tutto rimaneva al suo posto, quasi immobile e su di essa campeggiava il nome di quello che fino a pochi minuti fa era per Ann, uno sconosciuto: Drake.

  
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