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Autore: DigitalGenius    22/12/2013    7 recensioni
Garfield arrossì lievemente. Non poté evitare che il cuore gli si fermasse, nel guardarla, anche se non era la vera Raven.
«Allora, cosa ti porta qui?» gli domandò lei sorridendo.
Garfield dischiuse le labbra per risponderle. All’improvviso tutti i suoi piani, tutti i discorsi a cui aveva pensato per riportare Raven tra i Titans, sembravano inutili. Chinò lo sguardo e strofinò per terra una suola della scarpa.
Sentiva quegli occhi addosso a sé e quello sguardo lo trafiggeva.
«Dov’è che sono le altre emozioni? Potrei parlare con alcune di voi?» esordì all’improvviso agitando le punte delle orecchie.
Coraggio scrollò le spalle. Il sorriso le si spense mentre si avvicinava al bordo del precipizio su cui si trovavano. «Loro non verranno» annunciò rassegnata. «Si vergognano»
«Perché dovrebbero?» le domandò il ragazzo seguendola. «Sono sempre il buon vecchio Beast Boy, credevo di piacere almeno alla metà di loro»
«Tu ci piaci» lo tranquillizzò lei nel vederlo quasi nel panico. Gli sorrise. «Diciamo che non sono pronte ad incontrarti. O almeno non lo sono la maggior parte di loro»
«Perché?» domandò Garfield mogio. «Perché loro no e tu sì?»
«Perché?» ripeté lei. «Perché io sono il Coraggio»
Genere: Azione, Romantico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beast Boy, Raven, Robin, Starfire
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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RICORDANDO IL GIORNO


L’odore dello studio del dottor Brennan era lo stesso del solito e risaltava alle narici come un concentrato di brutti ricordi. La situazione sembrava così crudelmente familiare che sembrava loro di essere tornati nel passato. A quando, due anni prima, la scomparsa di Raven aveva quasi portato la squadra allo scioglimento. I loro sguardi erano concentrati sui vari oggetti esposti nella stanza; il dipinto, il vaso antico, la scrivania in regno scuro, la vecchia libreria ricolma di grossi volumi. Nessuno di loro tre aveva voglia di incrociare lo sguardo degli altri, con la mente che vagava tra il pensiero di Garfield ancora in infermeria ed il ricordo di ciò che Raven aveva detto loro, prima di scomparire con quel ragazzino che aveva detto essere suo fratello. Raven ha un fratello, era la frase a cui tutti e tre ripensavano da quando erano tornati a casa il giorno prima. Si domandavano come l’avesse scoperto, cosa avesse provato in quel momento, perché non lo avesse detto, cosa le avesse impedito di restare comunque con loro.
Aveva davvero pensato che non lo avrebbero accettato? Si chiedeva Koriand’r pensando al modo in cui avrebbe voluto restarle vicina. Perché non si era fidata di loro? Davvero aveva pensato che le avrebbero voltato le spalle e li avrebbero cacciati perché lui non riusciva a controllare il suo potere?, era il pensiero fisso di Victor. La natura di quel ragazzino doveva certamente essere demoniaca, rifletteva Dick. Raven poteva aver scelto la famiglia agli amici, cedendo all’oscurità e smettendo di combattere per ciò in cui credeva per poter stare al fianco di qualcuno che avesse il suo stesso sangue e che, forse, comprendesse anche i suoi disagi e dilemmi interiori?
Ripensò allo sguardo del ragazzino, a come Garfield era riuscito a calmarlo, ad un certo punto.
Forse, si disse, una volta che il ragazzo avesse imparato a controllare i suoi poteri lo avrebbe portato a casa e sarebbe tornata. Una scintilla di speranza si accese nel suo petto, mentre convinceva sé stesso a concedere alla ragazza il beneficio del dubbio.
Innocente fino a prova contraria, dopotutto, era una frase da detective e se voleva ritenersi un buon detective avrebbe dovuto trovare una vera prova per affermare che Raven fosse una minaccia, anche perché il suo cuore non sarebbe riuscito ad accettarlo, altrimenti.
Ignorò le risposte che Koriand’r stava dando alle domande dello psicologo, restando in silenzio e ricordando con malinconia il giorno in cui avevano scoperto della fuga di Raven.

Richard aveva sempre catalogato con grande concentrazione e meticolosità ogni operazione, ogni criminale. La sua camera alla Torre era tappezzata da articoli di giornale e foto segnaletiche, la prima cosa che il ragazzo vedeva appena apriva gli occhi al mattino, l’ultima cosa che vedeva prima di addormentarsi, per ricordare quanta rabbia e che pericoli celasse il mondo, per non dimenticare contro chi stava lottando.
Quel giorno, però, non era riuscito a pensare a loro. Si era svegliato di soprassalto con la sensazione che qualcosa non andasse bene, con il presentimento di dover fare qualcosa che non era riuscito ad inquadrare bene.
All’inizio aveva pensato di aver dimenticato di sistemare qualcosa, di appuntarsi qualche schema oppure di aver perso qualche incontro. Si era alzato, tentando di ricordare quel qualunque cosa, frugando tra i fascicoli che aveva abbandonato sulla sua scrivania la notte prima quando, troppo stanco per proseguire le sue ricerche, li aveva abbandonati prima di stendersi a letto.
Aveva spalancato la serranda per fare entrare un po’ della luce dell’alba e si era fiondato ancora nel lavoro, in attesa della rivelazione e dell’ora di colazione.
Quando era entrato nella sala principale il sole era alto e Victor faceva colazione. Poco dopo Koriand’r li aveva raggiunti, prima che Garfield si fiondasse nella stanza con un biglietto stropicciato stretto tra le mani e desse la notizia.

Victor rigirò l’anello sul dito, come aveva preso l’abitudine di fare spesso quando era nervoso, e sbatté gli occhi quando sentì lo psicologo pronunciare il nome di Richard e puntare l’attenzione sul loro leader.
Si voltò a guardare Koriand’r, scambiando con lei un’occhiata di conforto e stringendole la mano con affetto.
«Tutto bene?» le domandò sottovoce. Lei annuì lievemente, mentre Richard borbottava sovrappensiero ciò che pensava.
«Dovremmo concederle il beneficio del dubbio». Il moro puntò gli occhi in quelli del dottor Brennan. «Sento che è la cosa giusta da fare. Lei c’è sempre stata, per noi, sarebbe ingiusto non darle una possibilità, almeno fino a quando non farà qualcosa che dimostri di averci traditi»
«È sempre stata dalla nostra parte. È sempre stata difficile, da capire, ma sa quello che fa» disse Victor, sperando che questo fosse vero. Rigirò per l’ennesima volta l’anello olografico al dito e ripensò a quanto avrebbe voluto che avesse scritto qualcosa di più, su quel foglio, oltre che quelle quattro parole in croce con cui aveva annunciato la sua partenza.

Non ci era voluto molto perché si rendesse conto di un calo nella sicurezza, quella stessa mattina, prima dell’alba.
Aveva controllato le eventuali intrusioni e, dopo essersi assicurato che non vi fossero problemi, era salito nella stanza principale per prepararsi una mega porzione di uova e bacon. Aveva spalancato il frigo, rotto le uova nella padella e sistemato il bacon al loro fianco. Aveva fischiettato tra sé la stupida canzoncina di una nuova pubblicità, mentre ripassava a mente le modifiche che avrebbe voluto fare alla sua auto nella tarda mattinata. Si era goduto in pace la sua colazione, gioendo di quella quiete che da sempre era possibile trovare alla torre solo la notte ed a quell’ora del mattino.
Aveva divorato la sua colazione, mandando giù il tutto con un bel bicchiere di succo d’arancia, ignorando l’orologio che ticchettava, il tempo che passava troppo in fretta e senza accorgersi dell’assenza dell’amica, almeno fino a quando Richard non lo raggiunse.
La porta scorrevole si era chiusa alle spalle del leader e, solo in quel momento, il mezzo robot aveva realizzato che Raven non era ancora salita farsi il suo tè mattutino.
Richard si era seduto al suo fianco e, come se nulla fosse, aveva iniziato a sfogliare il quotidiano.
Quando Koriand’r era arrivata dicendo che Raven non le rispondeva nessuno dei due si era preoccupato più di tanto.

Koriand'r non prestava attenzione a ciò che le succedeva attorno, non le importava cosa il dottor Brennan avesse da dire né cosa gli altri gli stessero dicendo. Non ricordava già più le domande che l’uomo le aveva fatto né le risposte che gli aveva dato. Si poneva di nuovo i quesiti che già mesi prima l’avevano tormentata; se avesse bussato prima alla porta della compagna di squadra?, se fosse stata un’amica migliore?, se fosse riuscita a comprendere meglio la personalità di Raven?

Aveva bussato ripetutamente e con entusiasmo alla porta dell’amica, quella mattina, con la rivista degli sconti del centro commerciale stretta nel pugno, entusiasta per la possibilità di poter passare la giornata con quella che, dolente o nolente, era la sua migliore amica.
L’aveva aspettata con impazienza continuando a chiamarla pensando che, prima o poi, Raven le avrebbe detto di smetterla o, ancora meglio, l’avrebbe raggiunta sul pianerottolo.
Ma la ragazza non era uscita e non le aveva risposto, così quando Kori aveva smesso di bussare il corridoio era scivolato nel silenzio. Almeno fino a quando i passi di Garfield non erano riecheggiati preannunciando il suo arrivo, rumorosi quasi quanto quelli di uno gnu.
Il ragazzo aveva salutato l’aliena e le aveva domandato cosa ci facesse lì. Non ci era voluto molto per capire che entrambi stavano cercando le attenzioni della stessa persona, ma un po’ più di tempo per capire che lei non era lì.
Garfield aveva affermato che, poiché non aveva sentito il suo odore davanti alla porta della sala principale ed era già passato in terrazza, lei doveva per forza essere in camera. Si era proposto di entrare a controllare che stesse bene e Koriand’r aveva preferito defilarsi per non vedere l’amica che gli faceva del male, infuriata per l’invasione della sua privacy. Si era recata con calma a fare colazione, pensando che avrebbe parlato con Raven in seguito, ma non aveva fatto in tempo a sedersi che Garfield aveva fatto irruzione sventolando agitato il biglietto d’addio.

Garfield era tornato in camera, furioso. Non aveva mai pensato di poter provare una simile rabbia, se non collegata alla Bestia. Aveva scaraventato la spilla contro una parete, mugugnando imprecazioni senza senso e parolacce che generalmente non usava.
Se Kori fosse stata lì l’avrebbe rimproverato per l’uso di un linguaggio tanto scurrile, ma non gli era importato, poiché in quel momento aveva avuto bisogno di sfogarsi e di ricoprirsi di insulti il più possibile, per ricordare a sé stesso quanto era stato stupido.
Buttare via tutti i suoi risparmi per far fare quella stupida incisione su quella stupida spilla non aveva portato a nulla, se non a farla fuggire a gambe levate. Si era chiesto perché ci avesse messo tanto a reagire al messaggio, perché non fosse bastato dirgli che non ricambiava i suoi sentimenti. L’avrebbe accettato. Aveva pensato di poter far finta di nulla e continuare con la sua vita, se lei non avesse deciso di stravolgerla così violentemente con la sua fuga.
Si era abbandonato per terra, con la schiena poggiata contro la fredda porta chiusa ed aveva chinato la testa, stendendo le gambe sul pavimento freddo.
Aveva pensato di voler sparire, quella sera. Si era rimproverato più volte, pensando che fosse colpa sua, che avrebbe potuto evitarla. Si era detto che avrebbe dovuto capirlo, dal momento che lei non gli aveva detto nulla. Aveva continuato a ripetersi che, se solo le avesse detto che non gli importava essere ricambiato, lei non se ne sarebbe andata.
Aveva odiato le ipotesi che Robin aveva fatto quel pomeriggio riguardo alle azioni di Raven. Era stato così stupido, da parte sua, pensare che Raven potesse essere andata via con quel bell’imbusto con cui l’avevano beccata a parlare alcuni giorni prima.
O meglio, Garfield pensò, avrebbe potuto dirglielo, se così fosse stato. Non avrebbe dovuto scappare in piena notte senza dire nulla a nessuno.
Aveva passato le settimane successive chiuso in camera, aprendo solo a Kori, quando lei insisteva a portargli da mangiare. Si era rifiutato di parlare con chiunque, anche quando lo avevano costretto ad uscire per vedere uno specialista. Aveva saltato allenamenti, lotte al crimine, svariati pasti. Aveva perso parecchie ore di sonno per pensare a cosa avesse sbagliato. Poi era successo, semplicemente. Aveva lasciato che gli amici andassero in missione da soli. L’attacco non era stato molto distante, era riuscito a vedere tutto dalla finestra della sua stanza. Varie esplosioni, molto fumo, cose che temeva potessero fare del male a quella che era la sua famiglia.
Non ci aveva messo molto a vestirsi ed accorrere in loro soccorso.
Da quel giorno aveva smesso di nascondersi, di tacere. Aveva iniziato a sfruttare al meglio le sue sedute con lo psicologo, aveva fatto in modo di essere partecipe delle attività degli altri, aveva finto che tutto andasse bene.
Si era tenuto tutto dentro per un po’, fino a che non fu facile fingere che quella bolla di tristezza in fondo al petto fosse qualcosa di estraneo a lui, che non lo riguardasse.
Si era abituato fin troppo in fretta all’assenza di Raven. Le giornate senza di lei erano diventate normali. Non c’era stato più bisogno di fare attenzione a non disturbare la meditazione della ragazza, non c’era più stata la teiera pronta per riscaldare l’acqua per lei, presto erano scomparse anche le varie buste di infusi nel mobiletto della cucina.
Alla fine anche le lettere dei fan indirizzate a lei avevano smesso di arrivare.
Il giorno in cui lui e Kori avevano deciso di salvarle dal cestino dell’immondizia a cui Richard già le aveva destinate gli era venuta l’idea. Era successo mentre lanciava con poca cura il sacco nel vecchio ripostiglio. Alcune delle lettere erano scivolate per terra e lui si era chinato seccato a raccoglierle. Alcune erano colorate ed altre avevano dei disegni infantili sulla parte posteriore.
Garfield aveva sorriso lievemente, nel vedere la Raven sbilenca dai contorni sbavati.
Quella sera aveva deciso di tornare a sognare ad occhi aperti, un po’ come faceva da bambino. Aveva tirato fuori una vecchia scatola di pastelli che credeva di aver buttato da secoli ed aveva iniziato a disegnare.
Aveva abbozzato una versione di sé priva di tutti i difetti che lo avevano tormentato negli ultimi tempi; niente orecchie a punta – chi voleva prendere in giro?, non servivano a nulla se non a farlo sembrare idiota –, un colorito normale, una dentatura priva di zanne e nessuna capacitò sovrumana, a parte forse una cospicua dose di ottimismo di cui sentiva un disperato bisogno.
Poi si era occupato di lei; una versione di Raven che le lasciasse scampo dalla sua natura, che potesse permetterle di essere libera alla fine della storia, anche da sola.
Poi, come se fosse già stato deciso in precedenza, vennero fuori conflitti e complicazioni per la sua storia. Così era nato Black Wing.

Lilith sfogliava le pagine con cautela, osservando attentamente le immagini e perdendosi in quell’insieme di segni - che ancora non riusciva a distinguere bene - che erano le parole.
Aveva provato a leggere, a seguire la storia, all’inizio. Poi aveva lasciato perdere e si era dedicata ad osservare le espressioni dei protagonisti. La principessa, ammantata di nero in un groviglio di piume scure dai riflessi argentei ed azzurri, aveva lo sguardo di una che non poteva permettersi di essere libera, il ragazzo, stretto nella sua armatura argentea, nascondeva un’espressione da cucciolo smarrito dietro un sorriso aperto che spesso non contagiava lo sguardo.
Lilith seguì con un dito il profilo della protagonista, domandandosi cosa le impedisse di fuggire, di trovare la felicità da un'altra parte se la vita che viveva era alla pari di quella di un canarino in gabbia.
Ne aveva visti parecchi, a Jump City, di uccelli in gabbia. Non riusciva a capire come si potesse fare una cosa simile ad un animale che era nato per stendere le ali contro il cielo e saltellare liberamente. Si era chiesta molte volte come la gente facesse ad ignorare il canto di disperazione dei piccoli volatili e lo sguardo buio nei loro occhi. Se avesse potuto li avrebbe liberati tutti, nessuno escluso. Avrebbe detto loro di nascondersi nei boschi, di non tornare. Avrebbe detto loro che potevano scegliere il loro futuro ed essere liberi.
Avrebbe voluto dirlo anche a Raven, si rese conto all’improvviso. Sapeva che teneva a loro, lo sentiva, ma sapeva anche che c’era qualcosa sul fondo del suo cuore che le impediva di essere felice, un groviglio di emozioni che teneva rinchiuse, soffocate.
Pensò che forse, un giorno, avrebbe potuto aiutarla a tirarle fuori; ad essere libera, in qualche modo. Sorrise inconsapevolmente, sollevando gli occhi al soffitto con sguardo trasognato. Poteva farlo, certo, bastava solo trovare ciò che le mancava e portarglielo.
I due tonfi, due pugni battuti forte contro la porta, la fecero sobbalzare, risvegliandola dai suoi pensieri.
«Avanti» esclamò veloce, nascondendo il fumetto sotto il cuscino, riemergendo in fretta dai suoi pensieri. Si era tanto abituata ai sentimenti dei suoi fratelli che erano diventati solo un lieve brusio sul fondo della sua mente e riusciva ad esternarsi quasi alla perfezione.
Raven dischiuse la porta con attenzione, entrando nella camera senza fretta. «Tutto bene?» domandò guardando la ragazzina attentamente.
Lilith sorrise, sventolando le gambe giù dal bordo del letto ed inclinando la testa. Lo sapeva bene che probabilmente Raven non aveva mai sentito tanta felicità e speranza provenire da lei tutte insieme. «Tutto bene» rispose. «Hai già pensato a cosa mangiare?»
Raven scosse la testa dal repentino cambio di discorso. «Tu hai qualche idea?» domandò. Non voleva smorzare in alcun modo quell’entusiasmo, quella leggerezza che lei emanava.
«Penso che magari potremmo prendere una pizza» propose ancora Lilith.
«Pizza» ripeté Raven. «Si, credo di conoscere un buon posto». Poi si voltò per lasciare la stanza, prima che i ricordi delle serate e dei pomeriggi passati in quella pizzeria la sommergessero, prima che qualcosa potesse rovinare il momento a Lilith. Qualunque cosa l’avesse resa così felice, pensò Raven, sperava restasse per molto, perché dopo quello che aveva passato quella ragazzina si meritava tutta la felicità del mondo.
Si chiuse la porta alle spalle, ripensando a quanto diversa Lilith fosse dalla prima volta che l’aveva incontrata.

La cenere era raggruppata in rune nere che scintillavano alla luce della luna, Lilith era ferma nel mezzo, circondata da erba bruciata. E piangeva, singhiozzava tanto forte che quasi non riusciva a respirare. Raven aveva provato molte volte a parlare, ma le lacrime non si erano fermate. Allora la ragazza le si era avvicinata, timorosa, ed aveva provato a calmarla, inginocchiandosi al suo fianco.
«Ti ho cercata tanto» le aveva detto alla fine la ragazzina, una volta trovate le parole, i capelli impolverati ed opachi, le guance arrossate dal pianto e gli occhi lucidi
Le aveva spiegato di essere figlia di Trigon e di una ninfa dei boschi, che un demone drago aveva ucciso sua madre da poco ed ora dava la caccia a lei. Le aveva chiesto aiuto piangendo. Poi tutto era andato a fuoco ed in breve il fumo le aveva avvolte.
Raven si era svegliata in un bagno di sudore, sconvolta. A quel sogno ne erano seguiti altri, più vividi, in cui Lilith era sempre più stremata e disperata. In breve la ragazza aveva imparato che le capacita empatiche della ragazzina le permettevano di influire sui sogni delle persone, per questo le era stato facile apparirle. Poi, quando Raven si era finalmente decisa ad andare a cercarla, i sogni si erano interrotti.
Un paio di giorni dopo Lilith le era apparsa ancora, dicendole che stava bene e che qualcun altro l’aveva salvata. Era stata quella notte che aveva sentito parlare per la prima volta di Belial.




********



Ok. È corto, è banale e non succede nulla di speciale.
Abbiamo avuto dei disguidi tecnici, poiché non avevamo idea di come sistemare i flashback, che erano divenuti problema di Digital poiché la prima metà del capitolo, appunto quella dei flashback, era affidata a lei. Poi le sono sorti problemi di vari impegni e, circa un mesetto fa, la povera Digital si è trovata tanto sommersa che ha deciso di non poter più proseguire con questa fic. Non abbiatecela con lei; proseguirò io e lei, se vorrà, potrà scrivere anche solo qualche scena qua e là (ad esempio qualcosa tipo un certo sogno di Starfire *fischietta e guarda in alto con faccia decisamente maligna, poiché era una scena che non voleva scrivere neanche prima – ed, ops, mi sono appena resa conto che ora tocca a me pure quella…*)
Dunque, spero che questo capitolo, scritto totalmente da me, non vi abbia delusi. Vi assicuro che dal prossimo torna l’azione e spero di postare almeno due capitoli entro febbraio.
Per farmi perdonare l’attesa posto anche un accenno del prossimo capitolo, sperando che non vi siate dimenticati di noi. Baci, Genius <3




Jeremy si avvicinò a Lilith. Ora erano fianco a fianco, di nuovo ignorati, ma il suo atteggiamento rigido non si sciolse. «Muoviamoci» disse seccato nascondendo ulteriormente il volto sotto al cappuccio. «Troviamolo e torniamo a casa».
Lilith annuì. Strofinò le mani una contro l’altra, perché non era abituata all’aria condizionata o a qualunque tipo di aria artificiale. A lei piaceva l’aria pura, frizzante e ricolma di odori selvatici.
Lanciò un’ultima occhiata alla pietra. «Mamma, io e le altre danzavamo sempre attorno a quella che c’era nella nostra foresta» disse tornando a riferirsi al discorso precedente. Era di nuovo tornata la solita Lilith, quella che fingeva di non sentire e si nascondeva dietro ad un sorriso. La vicinanza del ragazzo non la colpiva, poiché ormai ci era abituata, ma un lieve senso di malinconia personale la avvolse.

  
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