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Autore: Gwen Chan    23/12/2013    2 recensioni
Tokyo, 2053.
In un futuro prossimo, dove i progressi tecnologici hanno permesso di raggiungere una semi-immortalità grazie alla possibilità di trapiantare la propria coscienza da un corpo all’altro e dove un potente computer dall'intelligenza umana, se non superiore, controlla una Tokyo semi-distrutta, conservare la propria identità e la propria autonomia diventa una lotta continua.
Nei bassifondi si attende l'arrivo di un Salvatore.
[AU][Partecipa al Cyberpunk contest indetto da ovest]
Genere: Drammatico, Generale, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cry, Sakuya Kira, Sara Mudo, Setsuna Mudo, un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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VIRUS
Prologo

Tokyo, 2042
Le lacrime offuscano la vista e la rabbia brucia nella pancia. Cry stringe i pugni, prende a calci una lattina nel vicolo e maledice suo padre.
Suo padre, che è il capo di una ricchissima multinazionale, e non ha mai tempo per giocare con lei. Non più, almeno. Da piccola la prendeva sotto le ascelle, la sollevava e la faceva volare.
Impreca, sfiorando i begli orecchini di pietra dura, con inserti di silicio, anche contro gli altri membri della sua numerosa famiglia. Sono tutti troppo occupati per prestare attenzione a lei.
“Vattene, stai disturbando!” dicono. Be’, che sparissero loro per una volta!
La lattina emette un sordo suono metallico, quasi malinconico, a ogni colpo contro l’asfalto. Tra le dita sudate un biglietto del treno si scolorisce. Vorrebbero mandarla dai nonni, in campagna, per qualche tempo. Certo, come se lei avesse intenzione di obbedire! Dannazione.
Strappa il pezzo di carta e ne getta i frammenti in un tombino. In lontananza spiccano i grattacieli della GC Incorporated, dove lavorano gli scienziati più celebri di tutto il Giappone. Di tutto il mondo.
Dove lavora suo padre.
Le pareti di vetro catturano i raggi del sole pomeridiano e li riflettono in un’aura di mistero. Il metallo degli ascensori ferisce gli occhi mentre questi salgono su e giù a una velocità allucinante. Spesso Cry vi s’intrufola, correndo tra le gambe degli scienziati, e si diverte a usarli come giostra.
Gli edifici brillano di una luce improvvisa. Violenta, spaventosa e magnifica.
La terra trema
 
Tokyo, 2045-2046
Il bianco pare l’unico colore ammesso nelle asettiche stanze dell’ospedale, tanto che Zafkiel, fissando il proprio distintivo, non può evitare di chiedersi perché l’ambiente per eccellenza adibito alle cure debba essere tanto ostile.
Quasi si volesse che i pazienti, stanchi del candore accecante, si sbrigassero a guarire. O a morire. Poco importa, basta che si levino dai piedi.
Oppure si cerca di riprodurre un Paradiso coltivato in secoli di fantasia e che ormai solo pochi si possono permettere.
Che brutto ambiente in cui essere accolti per la prima volta, in cui aprire gli occhi o chiuderli per sempre.
Seduto in mezzo a una fila di lettini identici e anonimi, se non fosse per i malati che ospitano e gonfiano le lenzuola inamidate, odorose di disinfettante, stringe le mani fragili di sua moglie. Vorrebbe impedirle di volare via.
Ha venticinque anni, una promozione a tenente fresca in tasca, una moglie bellissima ed è appena diventato padre. Ha una bella vita, non può lamentarsi. Non quando il mondo sta crollando in pezzi.
La sua Anael sta morendo.
Poco distante un’infermiera culla un neonato che urla, disperato.
“Non ha gli occhi rossi, vero?” sussurra Anael, le palpebre serrate e il fiato corto di chi si aggrappa a ogni secondo di vita.
“Blu! Sono blu!” la rassicura il marito. Poi si fa passare il piccino e lo mostra alla madre, per la prima volta. Per l’ultima volta.
“Vedi, blu!”
“Grazie.”
Sanno entrambi che il loro sollievo è temporaneo. Che qualcosa di storto può sempre succedere. Se solo i momenti di gioia non fossero tanto rari.
La presa sulle dita callose si fa più leggera, le labbra madide di sudore si rilassano in un debole sorriso di gratitudine, il petto cessa di sollevarsi.
Il bambino, ancora adagiato tra le braccia paterne, continua a singhiozzare. Ha fame. Vuole la sua mamma.
Non ha le iridi cremisi di chi è nato con una malformazione genetica, ma dopo anni di depliant e messaggi governativi, Zafkiel è ben conscio che fino al compimento del quarto anno, Rasiel non è fuori pericolo.
Zafkiel lo sa. Lo sa ogni volta che porta il suo piccolo al nido, una stanza spoglia della caserma di polizia attrezzata per ospitare i figli dei dipendenti. I bambini diminuiscono a vista d’occhio.
Lo sa quando il piccino gli tira i capelli corvini e gorgheggia cercando di trattenerlo.
Ne è visceralmente consapevole nella corsa affannosa a fine turno, pregando di trovare ancora suo figlio. Che non venga portato via dagli uomini della GC Incorporated. Che non diventi solo un bit nell’immensità del God Computer.
Se solo ci fosse un Dio ad ascoltare le sue notti insonni.
Il volto contrito della tirocinante che per arrotondare il misero stipendi si occupa dei bambini non fa che aumentare il dolore.
Rasiel non c’è. Non sta giocando con i cubi. Non si nasconde dietro le gambe della ragazza. Non appoggia le manine al vetro sporco fissando le macerie sottostanti.
“Dov’è?”
“Aveva gli occhi rossi. Ho dovuto avvertirli, mi dispiace.”
Tokyo, 2046
Il corpo della sorellina gettato sulla schiena è talmente leggero che Setsuna teme possa diventare un fantasma ed è grato quando la presa di lei sul collo gli impedisce di respirare. Dimostra che Sara è ancora viva. Abbastanza da aggrapparsi a lui.
Corre tra i resti di un quartiere distrutto e abbandonato, uno dei tanti che la luce ha inghiottito cinque anni prima. Quartieri fantasma popolati da ombre che rifuggono il sole.
Corre senza curarsi delle fitte lancinanti al fianco o delle proteste del suo cuore malato. Da quando ha cessato di battere per quasi un minuto pochi anni prima, quel muscolo potrebbe fermarsi di nuovo. Questa volta per sempre.
Eppure Setsuna continua a correre. Corre nell’intenzione di fuggire alla nuvola che alleggia sulla città, quella che ha fatto ammalare Sara, le ha distrutto le cellule epiteliali fino a farle cadere le membra a pezzi.
È ancora più leggera, Sara, cullata ora contro il suo petto. Il respiro freddo gli solletica la gola affannata.
“Salvatela!” grida al vuoto, nella vastità di una vecchia fabbrica. I passi segnano il tempo sul pavimento umido di condensa velenosa.
Sono loro a decidere se aiutarti o meno.
Sono loro a decidere il prezzo.
“In cambio?”
“Me.”
Il trapianto mentale è l’unico modo per salvare una persona il cui corpo sia destinato a morire, a patto che ci si possa permettere le costosissime operazioni delle cliniche governative. Per i comuni mortali c’è solo il mercato nero, le attrezzature di fortuna, i ricatti e le scelte senza via d’uscita.
Il rischio di perdere la propria identità, soffocata dai ricordi di un’altra vita: impulsi elettrici e pixel, di questo è composta la mente.
“Non potrai più vederla.”
Il prezzo della vita è alto.
 
Tokyo, 2052
Piccola, discreta, elegante.
La pillola adagiata sul suo palmo appare del tutto anonima.
“Ehi, non provare a fregarmi! Davvero questa roba qui è quella droga di cui parlano tutti?”
Come se valesse tutti i soldi che il pusher esige. Tanti. E già si parla di un prezzo di favore.
Il giovane, sospettoso, la porta alle labbra, ne annusa l’odore tipico della capsula in plastica, quell’odore che solo chi vive di pasticche sa riconoscere. È l’ultima moda, il trend in voga tra i politici corrotti e i ricchi adolescenti, figli di papà che il mondo vero lo hanno visto solo sugli schermi olografici. Quelli che vivono protetti dalle radiazioni nelle loro lussuosissime sale sotterranee, con la realtà virtuale in cui tuffarsi.
“Facciamo che questa volta è un omaggio” propone lo straniero. La sua voce è più suadente del miele artificiale.
“Solo per questa volta.”
Sotto la visiera abbassata di uno sgualcito cappellino da baseball, solo il ghigno è visibile. Una fila di perfetti denti bianchi scintilla, probabilmente frutto di costose operazioni dentistiche.
Kato ha inghiottito tante pastiglie che i gesti sono ormai automatici. La pillola diffonde il suo sapore amaro contro il palato, il gusto che ammorba la lingua dopo una notte di sonno agitato.
La vista si offusca, le tempie bruciano, la gola si chiude.
Il corpo agonizza, lacerato dall’interno da una sostanza che distrugge i tessuti e manipola le sinapsi cerebrali.
“Tu non sei umano” gorgoglia il diciassettenne, cortorcendosi sull’asfalto. No, quei capelli di vetro violaceo non sono normali. Né lo è la sua risata.
Lo spacciatore ride.
“Allora, com’è essere collegato alla Rete?”
Non muove un muscolo, ma la sua voce rimbomba contro la fronte. Invade la mente.
Kato artiglia il cemento fino a distruggersi le unghie, il corpo scosso dagli spasimi di un possibile rigetto. Voci insistenti e sconosciute lo assordano.
Grida e strisce di sangue segnano la morte del suo Io separato dagli altri.
Questa è la Rete.


Note dell’autore:
Quello che voleva essere un grandioso progetto degno del manga si è purtroppo trasformato in un qualcosa di poco coeso e di poco coerente.
Ho cercato di riprendere gli elementi dal manga, senza però non copiare pari passo da ogni singola scena, perciò molti degli aspetti originali sono o interpretati o rimescolati. Ci sono numerosi sottintesi che, ammetto, possono essere colti solo con una buona conoscenza dell’opera originale.
Passando alla parte tecnica, la sigla GC, spesso usata, sta per God Computer.
Se i demoni (Evils) sono i ribelli, gli angeli sono scienziati o legati all’ambiente dell’informatica.
Infine l’elemento portante dell’intera storia è la possibilità di trasferire la propria coscienza da un corpo all’altro o da un corpo a una macchina. Essa è stata la mia reinterpretazione in chiave fantascientifica del concetto di reincarnazione e di condivisione dei corpi, soprattutto per i binomi Alexiel/Setsuna e Sara/Jibril.
Il prologo e l’epilogo sono volutamente in presente per aumentare il senso di immediatezza. Per i capitoli “normali”, invece ho usato il passato remoto per la narrazione e il presente per i flashback.
 
 
   
 
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