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Autore: Codivilla    23/12/2013    2 recensioni
Chicago, Dicembre del 1988. Non è il solito inverno, e lo si percepisce nella strana temperatura mite che permea l'aria. Non è il solito Natale, nonostante le luci, gli addobbi e l'odore speziato del pudding per le strade. Questo Scott lo sente, per la prima volta nella vita, lo avverte nel gelido vuoto che gli opprime l'anima. Elizabeth, invece, lo sa per certo: lei che al Natale scialbo e privo di calore ci ha fatto l'abitudine, fin da quando era piccola. Ma non s'arrende. Perché quando provi una scintilla di vero amore, alla fine, non riesci più a farne a meno.
• Dal primo capitolo:
«Ogni suo desiderio doveva giacere silenzioso sotto una coltre di neve. Avrebbe congelato il suo cuore al momento del battito più intenso, quel battito così impetuoso da far male nel petto, e così l’avrebbe reso insensibile a nuovi ardori, immobile e votato per sempre a quell’unico tesoro che si era volontariamente strappato via dalle mani».
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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(Track One)
Let it Snow, let it snow, let it snow



 

December 23rd, 1988
The day before Christmas Eve
5.30 p.m.

 
Era strano sentirsi addosso un inverno così tiepido.
La vecchia Chicago, abituata ad assopirsi col gelo e a risvegliarsi spolverata di una coltre di finissima neve bianca, se ne stava come sempre acquattata sulle rive del Michigan, inaspettatamente spoglia di quel suo ornamento bianco tanto atteso, in quel periodo, specialmente dai bambini. Non si percepiva, nell’aria, il sentore freddo e secco che preannunciava le bufere, come succedeva ogni anno fin dai primi giorni di Dicembre. Perfino le onde del lago che si increspavano ribelli sembravano strane, per chi riuscisse a vederle al primo albeggiare, libere dal ghiaccio sottile e scintillante che nel periodo natalizio le intrappolava fino a quando i timidi raggi del sole non riuscivano a scalfirlo, sciogliendolo sul fare di mezzogiorno. Non c’erano neanche i soliti ghiaccioli attaccati alle grondaie arrugginite e ai cornicioni delle finestre, come piccole stalattiti, dispettose quando cadevano in testa agli ignari passanti. Tuttavia, di tanto in tanto, folate di vento gelido spazzavano la città, trasportate dalle correnti che provenivano dal nord del lago stesso. Erano quelle sferzate che facevano ricordare quanto vicino fosse il Natale, più di quanto facessero le lucine in bella vista sui tetti delle ville dei quartieri benestanti, le ghirlande di agrifoglio e bacche che ne ornavano i portoni e le miriadi di statuine di Santa Claus – di gusto indubbiamente kitsch – che facevano la guardia ai cancelletti, tintinnanti di carillon che ripetevano incessantemente le stesse stereotipate canzoncine natalizie.
Fu proprio una di queste folate che costrinse Scott a stringersi addosso il giaccone scamosciato, foderato di lana. Aveva un’aria malandata, quell’indumento, con il color marrone chiaro della pelle che adesso somigliava più che altro ad uno stinto giallastro. La zip non si chiudeva bene da anni, ormai, ci aveva fatto l’abitudine. Si limitava ad accucciarvisi dentro affondando fino al naso nella lana del colletto per riparare il viso dal vento tagliente.
Accelerò il passo lungo la strada semi-deserta di un sobborgo decadente, a sud di Hyde Park. Aveva parcheggiato poco lontano la sua Mustang mezza scassata – di un colore che forse una volta era stato rosso vivo – senza neanche preoccuparsi di chiuderla a chiave. Chi si sarebbe mai scomodato a fregare un rottame del genere?
Sorpassò il solito mendicante che fingeva di esser cieco, accanto al portone della chiesa, e un’auto della polizia ferma, con gli agenti che rovistavano nelle tasche di due ragazzi dall’aria poco raccomandabile. Si infilò dritto in un bar poco distante, senza guardarsi indietro, rilassando le spalle ed allentando la stretta sul giaccone una volta acclimatatosi alla temperatura mite dell’interno. Era un locale di quelli modesti, poco pretenziosi, in cui di solito si ritrovavano sempre gli stessi, affezionati clienti, per farsi una birra in compagnia. La voce flautata di Frank Sinatra cantava “Let it snow”, accarezzando l’aria pregna di fumo di sigaretta. Il bancone era ornato con luci colorate di fortuna, recuperate da chissà dove, mentre un alberello di Natale striminzito era in un angolo accanto al vecchio juke-box. Scott poté notare – con un certo sollievo – che si erano risparmiati di appendere in giro festoni e figurine con folletti e Santa Claus di sorta.
«Ce l’hai fatta! È un’ora che ti aspettiamo! Si può sapere dove cazzo eri finito?!»
«Problemi con la macchina».
Un ragazzo biondino dai tratti affilati gli fece posto accanto a sé sul divanetto consumato, attorno a un tavolino tondo su cui troneggiavano un paio di bottiglie di birra aperte. Scott non fece complimenti nel portarne una alla bocca, sorseggiandola.
«Pensavamo di doverci cercare un altro bassista», disse il biondo, dandogli uno scossone.
«Tanto con la miseria che ci danno farei prima a fare l’elemosina, Dom».
«Ma almeno bevi birra gratis».
«Sì, come no».
Dom, il diminutivo di Domenico, era un giovane chitarrista italiano, emigrato in America per cercare fortuna e fama. Non aveva trovato né l’una, né l’altra, ma era quello che Scott considerava un buon amico. Suonavano dove capitava, per pochi soldi e vitto gratuito, insieme ad altri due scapestrati che rispondevano ai nomi di Riley e Bret, e che erano impegnatissimi, in quel momento, a macinare quanti più punti possibili al flipper per battere il record del locale.
Scott rigirò meccanicamente la bottiglia sul tavolino, fissando l’impronta umida che il fondo aveva lasciato sul piano di legno opaco, martoriato da mille intagli, scritte di ogni genere ed adesivi. Socchiuse le palpebre, cercando di inquadrare meglio un graffito parecchio artistico di un bocciolo di rosa. A quel gesto, il taglio vagamente orientale dei suoi occhi scuri si accentuò ulteriormente. Era nato da un incrocio strano di razze, con sua madre che aveva nelle vene qualche goccia di sangue inglese e suo padre che per metà era Hawaiano. Era un bastardo, per dirla senza mezze misure, ché poi alla fine era così che quelli come lui venivano apostrofati da gente che si permetteva il lusso di giudicare. Come si dice? Uno guarda sempre la pagliuzza nell’occhio del prossimo e non si accorge della trave che è piantata nel proprio.
Sì accasciò, appoggiando la schiena al muro e distendendo una gamba sul divanetto. Fissò distrattamente il proprio ginocchio, dove troneggiava uno dei molteplici strappi dei suoi Levi Strauss, scoloriti e fin troppo vecchi, e poi alzò gli occhi alla finestra che dava sull’esterno: un’ora appena, forse un’ora e mezza, e sarebbe calata la sera. Il cielo sarebbe stato sereno, sgombro di nuvole, e per lui sarebbe stato ancor più difficile tentare di non guardare quelle stelle. Si sarebbe fatto tentare dal loro luccichio, per poi cadere nella triste dolcezza di quelli che ormai non erano che ricordi.
«Che Natale di merda. Quantomeno spero che si decida a nevicare», borbottò, passandosi una mano fra i capelli neri, lunghi e scompigliati, ribelli come lo erano sempre.
«Tecnicamente Natale è solo dopodomani», ribatté Dom, tirando da una sigaretta. «Comunque, se proprio ci tieni tanto, puoi sempre fare irruzione in casa, rapirla e scappare via. Un augurio di buone feste, se vogliamo».
«Credi che ne varrebbe la pena?»
«Cazzo, se lo varrebbe. Io lo farei eccome!»
«Già. E rovinarle completamente la vita. Meglio lasciar perdere».
Dom gli diede un calcio in uno stinco e gli passò la sigaretta. Scott l’accostò alle labbra. Quanto avrebbe voluto soffiar via con leggerezza i pensieri malinconici che gli offuscavano la mente, alla stregua di quel fumo denso e grigiastro. Un puff, e magari sarebbe ritornato a vivere. Magari sarebbe riuscito ad accettare il fatto che non poteva andare altrimenti.
Restituì la sigaretta al biondo dopo tre o quattro tiri, prendendo a giocherellare distrattamente con i braccialetti di corda, pelle nera e acciaio perennemente fissati al polso sinistro. Fece tintinnare un ciondolo che stonava decisamente con quell’accozzaglia di materiali. Un lupo d’argento invecchiato dagli anni. Sospirò, rigirandoselo fra le dita affusolate.
 
«Un lupo?»
«Sì, un lupo».
«Devo aspettarmi un cacciatore alle calcagna?»
«E smettila, scemo!»
 
Una sonora pacca su una coscia da parte di Dom lo fece tornare improvvisamente coi piedi per terra, in quel bar. Con “Jingle-bells” a palla che aveva sostituito il buon vecchio Frank e che in qualsiasi altro momento gli avrebbe messo pure allegria.
«Scottie, faccio levare questa musica del cazzo e facciamo un bel sound check».
Scott annuì, prendendo un grosso respiro. Tracannò quel che restava di una birra fiondandosi dietro Dom, che era già scattato verso il bancone.
Doveva smettere di pensarci. Non poteva – e non doveva – tornare indietro sulla decisione che aveva preso. Era l’unica soluzione che potesse esser giusta e che avrebbe smesso di creare guai. Ogni suo desiderio doveva giacere silenzioso sotto una coltre di neve. Avrebbe congelato il suo cuore al momento del battito più intenso, quel battito così impetuoso da far male nel petto, e così l’avrebbe reso insensibile a nuovi ardori, immobile e votato per sempre a quell’unico tesoro che si era volontariamente strappato via dalle mani.
Ma non era facile costringersi al silenzio dei sentimenti. Non era affatto semplice spegnere quella fiamma che gli ardeva nell’anima. E quell’inverno pareva il meno adatto, ad uno scopo del genere. Scott avrebbe pagato tutto l‘oro del mondo perché quella dannatissima neve cominciasse a scendere, copiosa, per non fermarsi più. Magari seppellendolo da qualche parte e mettendo fine alla sua tristezza. Ma niente, il cielo continuava a restarsene sereno e ridente, e tutto pareva essere contro di lui.
La rabbia l’avrebbe soffocata nella musica, l’unica cosa che gli restava.
Eppure, se solo si fosse trattenuto qualche secondo in più sotto quella finestra, forse sarebbe riuscito a vederlo cadere. Il primo, pallido fiocco di neve della stagione, che moriva languidamente, sciogliendosi sul vetro come il suo cuore faceva coi suoi ricordi.

 

 
ANGOLO AUTRICE:
L'avevo promesso ed eccolo qui: il mio regalo di Natale.
E' una minilong in tre capitoli ed un breve epilogo.
Come intuibile, la posterò giorno per giorno, fino a Santo Stefano
quando ogni vostra curiosità sarà esaudita.
Sì, so di essere in ritardo e che il 23 è quasi agli sgoccioli: ho avuto una giornata d'inferno! ç_ç
Dedico questa storiella alla mia famigliola virtuale di scrittrici e soprattutto amiche:
è anche grazie a loro se le mie sciocchezze sono qui su EFP, 
non mi fanno mai mancare il loro aiuto e il loro supporto.
Il meraviglioso banner è opera della mia mammina Amartema
che come sempre non so come ringraziare.
Così come dico grazie a Scarlett Johansson e Keanu Reeves,
che ho scelto come prestavolto dei protagonisti.
E così come dico grazie a voi, a ciascuno di voi che si sofferma a leggere questa storia.
Sì, proprio a te. Te la offro con il cuore, sperando che ti doni tutte le emozioni
che ho vissuto io mentre la scrivevo.

Vi lascio recapiti vari per contatti/insulti/complimenti (?)/rotture di scatole:
Pagina Facebook: Codivilla Vicariosessantanove Efp
Gruppo Facebook: La Canonica del Vicario
Ask: Chiedi e (forse) ti sarà detto

Alla prossima e grazie a chiunque passi di qui.


 

            


 
   
 
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