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Autore: Amens Ophelia    24/12/2013    9 recensioni
[SasuHina]
Hinata ha poche certezze, dietro quegli occhi chiarissimi: sa che il sole sorge e tramonta sempre, anche dietro le nuvole, e che il suo astro personale è un ragazzo biondo, in classe con lei. Purtroppo è anche a conoscenza del fatto che lui non lo saprà mai.
Troppe sono le cose che ignora pericolosamente, come il posto che occupa nei pensieri di Sasuke Uchiha.
(NB: accenno SasuKarin)
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hinata Hyuuga, Naruto Uzumaki, Neji Hyuuga, Sasuke Uchiha | Coppie: Hinata/Sasuke
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun contesto
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13. Ombre in cerca di luce

 




L’alcova di Karin Uzumaki era un’accozzaglia di oggetti e vestiti mischiati fra loro; era come se qualcuno avesse gettato tutta quella roba in un frullatore gigante, senza tappo, e acceso l’apparecchio a piena velocità: scarpe spaiate, pigiama e pantaloni sul pavimento, fazzoletti e cavi del caricabatteria del cellulare sul comodino, libri e fogli – in verità, sempre troppo trascurati – su una sedia e ai piedi di uno scaffale. Non conosceva ordine, quel luogo, proprio come la sua proprietaria, sempre soggetta a sbalzi d’umore.
            Due ragazzi giacevano sul letto, senza vestiti. Se non avessero respirato, sarebbero passati agli occhi di osservatori esterni come due manichini.
 
Dopo aver pranzato con un pasto frugale – una misera cotoletta e delle verdure miste che avevano l’aria di essere state tagliate e lasciate in frigorifero per almeno cinque giorni – la giovane aveva appoggiato i piatti nel lavello e sorriso maliziosamente al suo ospite. A niente erano serviti i tentativi di Neji di offrirsi per dare una mano a ripulire, perché lei aveva liquidato tutto dicendo che se ne sarebbe occupata sua zia, non appena fosse rientrata dalla spesa. Peccato che non sarebbe tornata prima delle nove, impegnata com’era a intrattenersi con delle amiche da mezzogiorno; le loro conversazioni da salottino si protraevano sempre per tempi inimmaginabili e non di rado Karin si era trovata a trascorrere interi pomeriggi e serate da sola, con un orecchio puntato alla porta, in attesa della sua tutrice. Poco male, perché la diciottenne trovava sempre un modo per occupare il tempo.
            Il ragazzo tirò fuori dalla borsa i libri scolastici e li posò sul tavolo; osservò la giovane sbuffare ed adeguarsi alla sua volontà, imitando il suo gesto. Il giorno dopo avevano lezione con il professor Hatake che, molto probabilmente, avrebbe interrogato qualcuno in Storia, perciò era il caso di leggere almeno gli ultimi argomenti trattati. Lo studio fu tanto lungo, quanto proficuo: per le sette e un quarto, avevano schematizzato dettagliatamente la bellezza di settanta pagine. Per Neji era la norma, mentre per la Uzumaki quella era stata una lenta tortura.
            Chiusi i libri, lei si alzò in piedi stiracchiandosi, e si offrì di cucinare qualcosa per cena. Il moro, ancora abbastanza disgustato dal pranzo, espresse la sua volontà di rientrare, afferrando la borsa e il cappotto, per poi dirigersi alla porta, quando lei lo trattenne per un braccio.
            La rossa sciolse sensualmente i capelli, ancora raccolti in una coda, e si avvicinò allo Hyuga, guardandolo dritto negli occhi. Era un bel ragazzo, ma, prima di tutto, una splendida vendetta.
            Gli accarezzò con un gesto rapido e fluido una guancia, facendo perdere le dita fra i suoi capelli d’ebano. Erano incredibilmente lisci, rispetto ai suoi, e ancora più morbidi di quelli di Sasuke. L’altra mano, intanto, lesta e furtiva, s’insinuò nello scollo della camicia, cominciando a sfiorargli i pettorali.
            Prima che potesse farsi sfuggire il controllo e lasciarsi andare all’istinto, cedendo alle lusinghe di quella tentatrice, il ragazzo le bloccò il polso.
            «Cosa stai facendo?», le chiese con durezza.
            Karin sbatté le ciglia, sorridendo nervosamente. «Come sei granitico! Dovresti scioglierti…», sussurrò, gettandogli le braccia al collo. Neji si sottrasse a quella morsa, fissandola con freddezza.
            «Me ne torno a casa», insisté.
            «Non è educato lasciare un discorso in sospeso», sorrise lei, per niente scoraggiata, riprendendo ad accarezzargli il torace. I muscoli del ragazzo cominciavano a farsi meno rigidi e lei capì che stava avendo la meglio. Si avvicinò alle sue labbra e le morse leggermente, guardandolo negli occhi.
            «D’accordo, ti ascolto», mormorò lui, appoggiando a terra la tracolla e il cappotto.
            «Io parlo meglio di là», e gli indicò il lungo corridoio che attraversava l’appartamento.
 
Neji non sapeva ancora come si fossero ritrovati sul letto, in mezzo a tutto quel disordine. Non era andata come si era prefissato, aveva smarrito il senno non appena lei lo aveva baciato con ardore, premendo le labbra sulle sue e invadendogli la bocca con la lingua. Aveva perso il controllo, quando velocemente l’aveva privato della camicia e l’aveva spinto sul materasso.
            Si era lentamente sfilata le mutandine, come solo lei sapeva fare, da sotto la gonna e si era stesa comodamente su di lui, facendo aderire le loro intimità.
            Per quanto fosse glaciale, Neji era pur sempre un uomo. Un ultimo barlume di razionalità era stato represso quando lei si era rapidamente liberata della camicetta, rivelando i suoi seni agli occhi del ragazzo.
            Lo baciò di nuovo con voracità, sbottonandogli i pantaloni e disfacendosi pure dei boxer; ormai l’aveva in suo potere.
 
Così, dopo una ventina di minuti di puro appagamento corporeo, Neji se ne stava con lo sguardo fisso nel vuoto, nudo come un verme e con il morale più basso e sudicio del fango.
            Era la sua prima volta, mentre aveva potuto constatare che per Karin quella era una sorta di abitudine. Lo squallore in cui era caduto gli metteva i brividi.
            Si sentiva sporco. Già, un ragazzo impassibile e tenace come lui, messo al tappeto da quella lurida sottospecie di ninfomane. Non pensava che sarebbe mai successo, ma aveva voglia di scappare e fare a pezzi qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non pensare; persino se stesso, se possibile.
            Possedeva una scala di valori, da buon Hyuga, e il sesso non occupava i gradini più alti, a differenza di ciò che esso rappresentava per i suoi coetanei. Lui non ne faceva una questione vitale e lo avrebbe volentieri sperimentato più in là nel tempo, in un ambiente slegato da quello scolastico, magari con una donna cui avrebbe volentieri donato il suo cognome e affetto. Non che le ragazze non facessero parte dei suoi pensieri… ma quella era Karin, e lui era rimasto succube di una sirena peccaminosa.
            Era cresciuto e maturato in fretta e si era imposto di non commettere stupidi errori, ma di sopraelevarsi sulla media degli altri, affermando se stesso come ammirazione e invidia del secolo. Voleva una vita esemplare, dignitosa, e la desiderava da quando era nato, ma ora era tutto andato in fumo, su quel letto. Aveva deluso se stesso e sentiva anche di aver causato un moto di dolore e fastidio nei suoi genitori e nello zio Hiashi. Aveva tradito pure le loro speranze. Il gemello di suo padre, poi, era sempre stato fonte d’ispirazione, per lui, e ora si sentiva ancora più colpevole di prima. Non pensava che fosse possibile, ma Hinata era cento volte più rispettabile di lui.
            Karin lo guardò con occhi sognanti, leccandosi le labbra. «Sei stato…».
            «Taci!», le ordinò, con la voce spezzata da un nodo in gola.
            Cominciava a capire troppe cose, sul suo conto. La Uzumaki era un’abbindolatrice, una marionettista, una “femmina balba”.  Si era presa gioco di lui, mostrandogli quegli scatti della cugina e Sasuke, e lui ci era cascato. Come aveva potuto mettere in dubbio l’innocenza della sua consanguinea?
            «Che cazzo vuoi, da Hinata?», mormorò affranto, continuando a fissare la parete di fronte al letto. Non si era preoccupato di rivestirsi, né di coprirsi con un lembo del lenzuolo. Si sentiva uno schifo e non riusciva nemmeno a provar vergogna. Come esigeva la rigida disciplina della sua casata, doveva scontare le proprie colpe mostrandole al mondo.
            Ancora ricordava quando aveva strappato il cerotto dal volto della cugina, facendola tremare: applicare i dettami degli Hyuga, profondamente severi e orgogliosi, gli era uscito facile anche in quell’occasione. Sorrise amaramente, maledicendosi. E come un autotreno, quell’immagine se ne trascinava dietro altre: il dialogo in auto, quando lei gli aveva preso le mani e, a modo suo, gli aveva detto di volergli bene; la chiacchierata con Itachi e la discussione con Hinata, quella stessa mattina. Che stupido!
            Lei si era sempre preoccupata per lui, anche quando avrebbe dovuto odiarlo con tutte le proprie forze. Solo allora capì che la cugina era molto più Hyuga del resto della famiglia, perché era pronta a rischiare tutto per le persone che amava. Hinata, senza accorgersene, era l’esatta reincarnazione dello spirito amorevole di sua madre, morta per salvarla.
            La giovane non aveva avuto un’infanzia felice, né una crescita lieta. L’adolescenza, poi, doveva esserle sembrata un vero e proprio buco nero, pronto a risucchiarla nel disprezzo verso se stessa. Neji capì che fu un miracolo a salvarla da qualche tentativo di suicidio o dal renderla un mostro. La belva era sicuramente lui, non v’era ombra di dubbio. Hinata era ciò di più confortevole che la vita gli avesse offerto, una sorella che aveva sempre ripudiato, accecato dalla smania di prevalere sugli altri e mettersi in bella mostra. Se solo quell’evidenza gli fosse balenata in mente prima, non si sarebbe, ora, trovato nudo su quel letto, con i brividi a percorrergli la pelle e un forte senso di disgusto piantato in gola, capace di strozzarlo. Se avesse capito tutto in tempo, non avrebbe assistito alla caduta dei suoi ideali, del sogno di una felicità futura che, per quanto piccola, coltivava anche lui nel cuore, in segreto.
            Era assurdo trovarsi su quel letto, a diciotto anni, dopo del sesso, a rimuginare sui propri principî, sulle aspirazioni seminate. Era un controsenso, dacché aveva ancora tutta la vita davanti per cancellare quel piccolo errore di percorso che era un nonnulla, in fondo, soprattutto se considerava il suo carattere duro e avvezzo a sostenere qualsiasi carico di rimorsi. Eppure, non riusciva ad andare oltre, c’era sempre una piccola macchia blu, sulla tela dell’anima, che lo costringeva a fare mente locale.
             Aveva sognato di donare tutto se stesso alla donna della sua vita, un giorno; sapeva bene che la sola gloria non sarebbe valsa molto, senza nessuno al suo fianco. Anche lui desiderava una famiglia, con una moglie capace di amarlo senza condizioni, accettando il suo caratteraccio… proprio come sua cugina, in fondo. Esistevano donne di quel genere, ne era certo, ma Karin non rientrava in tale categoria.
             Ecco, l’ideale di serenità da cui prendere spunto era sempre camminato al suo fianco, senza che lui se ne fosse mai accorto; proprio come lui era da sempre il modello di vita della ragazza dai capelli blu. Senza saperlo, erano il sostegno indispensabile che andavano cercando. Ora l’aveva inteso e si sarebbe messo in gioco per salvare il salvabile e ricominciare tutto da capo. Sarebbe stato difficile, soprattutto a causa della sua indole, ma decise che ci avrebbe provato: avrebbe tentato di comportarsi da cugino, perché glielo doveva.
             Lanciò un’occhiata di sottecchi alla Uzumaki, che si era bloccata a fissarlo, quasi impaurita. Com’era diverso quello sguardo, da quello di Hinata! Vi leggeva ogni sorta di sensazione, ma non quella fondamentale: l’affetto. Avevano appena fatto sesso, dannazione, e nei suoi occhi aleggiava il vuoto dell’angoscia. In quelli di Hinata, sempre costretta a subire ogni sorta di angheria, non erano invece mai mancati il rispetto e l’affezione, l’amore fraterno di chi si preoccupa.
             «Neji, lei e Sasuke…», tentò di tornare su quell’argomento, ora che vedeva albergare la verità e la consapevolezza, nelle iridi dello Hyuga.
             «Non azzardarti più a dire una parola su di lei». La voce solitamente calma e inespressiva si era macchiata di un ruggito furibondo.
             La rossa sgranò gli occhi, tentando di fermarlo, quando lui si rialzò e cominciò a raccogliere i propri indumenti.
             «Che coglione!», sussurrava a se stesso, infilandosi i pantaloni. Ed era un improperio riduttivo, rispetto all’improvvisa avversione che sentiva nei propri confronti.
             «Aspetta! Dove stai andando?», saltò su lei, coprendosi con il lenzuolo.
             «Da chi mi ama», rispose in automatico, sbattendo la porta della camera.
 
Karin rimase interdetta alcuni minuti, con l’eco delle parole di Neji nelle orecchie. Era stata di nuovo rifiutata, su quel letto, e stavolta l’amarezza sembrava essere ancora più intollerabile. Non era innamorata dello Hyuga, lui era solo un mezzo per raggiungere il suo scopo: abbattere Sasuke, ferirlo negli affetti e costringerlo a perdere tutto ciò cui teneva, proprio come era stata obbligata lei a rinunciarvi, dopo quella proposta che il moro aveva cestinato senza troppi pensieri.
            Perché non sono innamorato di te. Una motivazione semplice, legittima, forse, ma inaccettabile. Non le era andata giù, non dopo settimane di sesso sfrenato e notti spese a fantasticare sull’Uchiha. Ora tutta quell’ossessione si era rovesciata nel desiderio di vederlo annientato, disperato al suo pari, anzi, peggio.
            Non poteva più contare nemmeno sullo Hyuga, le rimaneva solo una carta da giocare – che già aveva preparato sul tavolo.
            Si alzò rapidamente dal letto, incurante della propria nudità; non si faceva mai troppi problemi a girare per casa in vesti succinte, nemmeno davanti a sua zia, perennemente presa dalla televisione.
            Prima di raggiungere la scrivania e afferrare il cellulare, un oggetto abbandonato sul pavimento catturò la sua attenzione: vicino alle scarpe che si era sfilata rapidamente, giaceva il telefonino di Neji.
            La mano le tremava per la rabbia, mentre un sorriso sinistro faceva lentamente capolino sul suo volto.
            Non ci pensò due volte e prese a curiosare nella messaggistica del ragazzo, alla ricerca disperata di un numero di telefono. Lo trovò quasi subito e si compiacque non poco nel leggere gli sms freddi del giovane, verso la cugina. Si appuntò il recapito sul primo pezzo di carta capitatole sott’occhio e proseguì nell’indagine. Come aveva sempre pensato, lo Hyuga non era uno di molte parole, nemmeno con i suoi amici: aveva risposto a tutti i messaggi di Rock Lee a monosillabi, oppure ignorato spavaldamente quelli di altri compagni di classe. Uno, però, la colpì come un fulmine; il suo ghigno malizioso si trasformò in una risatina sommessa, mentre leggeva quel nome: Itachi.
            Ti va una birra, alle 22? Pensavo di trovarci all’Akatsuki, se per te va bene.
            Il destinatario aveva risposto affermativamente.
            Karin si alzò in fretta, controllando la radiosveglia: erano le nove meno un quarto, non aveva ancora molto tempo a disposizione. Chiamò dal proprio telefonino la sua àncora di salvezza.
            «Cosa succede, Karin?», esordì ancora quella voce.
            «C’è stato un cambio di programma. Il piano deve essere attuato subito», tagliò corto lei, stringendo il pugno.
            «Esattamente, cosa vuoi che faccia?».
            La rossa prese un respiro profondo, alzando gli occhi al soffitto. «Dimentica Sasuke: l’obiettivo è Hinata Hyuga».
            «Una Hyuga?! Cosa cazzo ti salta in testa, Uzumaki? Hai idea di quanto prestigio goda quella famiglia? Già gli Uchiha sono una casata importante, ma gli Hyuga…».
            «Non vorrai dirmi che te la stai facendo sotto, Hidan? E io che ti credevo un osso duro! Forse dovrei chiamare Kakuzu…», lo prese in giro lei, con sottile cattiveria.
            Dall’altro capo del telefono si sentì un leggero rantolo soffocato. «Ma hai chiamato me! Me ne occuperò io, dimmi solo cosa vuoi che faccia». Odiava quando veniva nominato il suo compagno di scorribande e lui passava in secondo piano.
            La ragazza si accomodò sul letto, prendendo in mano il lenzuolo e cominciando a tirarlo con frenesia. Doveva sbrigarsi, o non avrebbe fatto in tempo ad attuare il piano.
            «Hinata è ingenua, una ragazzina… basta che tu le faccia prendere uno spavento. Che ne so, raccontale le tue storie da satanista».
            «Si chiama Jashin, Karin!», protestò il ragazzo.
            «Beh, sì. Vedi di impaurirla, tutto qui. Ci riuscirai senza nemmeno sforzarti troppo», sogghignò, gettando la testa sul cuscino. Gli spiegò per bene i dettagli del piano, dettandogli il numero di cellulare e istruendolo su come agire.
            «Lascia fare a me», la rassicurò il giovane, prima di riattaccare.
             Karin cominciò a ridere senza ritegno, stringendo in pugno il cellulare. Ora la cosa più insopportabile era dover aspettare.
 
***
 
Non aveva più preso l’autobus da anni, soprattutto la corsa serale dopo le otto e trenta, ma non gli era dispiaciuto, a dispetto delle aspettative. Il pullman era semideserto: solo una coppia di signore anziane accomodate ai primi seggiolini, prese a parlare con l’autista di qualche vicissitudine lontana, e il consueto gruppetto di ragazzini in coda al mezzo, intenti a giocare con i loro videogames.
            Neji abbandonò il capo contro il poggiatesta e sospirò. Aveva ceduto; la sua natura puramente umana, carnale, era venuta a galla, trascinandolo verso un paragone insostenibile. Ai suoi occhi, per la prima volta, Hinata gli parve come la più pura e degna erede Hyuga, l’incarnazione perfetta della dinastia, moralmente integra e in pace con se stessa. Sapeva che era solo una farsa, che la cugina soffriva da anni – soprattutto a causa sua – ma, messo a confronto con il disagio che ora lui provava, il dolore della ragazza sembrava più naturale e innocente. Ecco, lei era così, pura, per niente contaminata dai mali del mondo. Se ripensava a quante volte l’aveva deliberatamente accusata di comportarsi da sprovveduta, non per ultima, quella stessa mattina, lo stomaco gli si chiudeva in una morsa tremenda; l’aveva giudicata senza conoscerla davvero. A voler ben vedere, avrebbe potuto perdonarle qualsiasi cosa, in tutta quell’innocenza, anche una possibile relazione con qualcuno come Sasuke. Per fortuna lei non era tanto stupida da barcamenarsi in un tale guaio, pensò, sforzandosi di sorridere. Naruto era già un gradino superiore all’Uchiha, in fatto di umanità e sentimenti.
             Avrebbe tanto voluto tornare indietro nel tempo, a qualche ora prima; non si sarebbe fermato da Karin, non avrebbe ceduto alle sue lusinghe, non si sarebbe commiserato.
             Scese dal bus, espirando lentamente e osservando l’anidride carbonica dileguarsi dalle proprie labbra, alzandosi verso il cielo. Lo sguardo incontrò le finestre illuminate della villa, in lontananza, e sorrise, incamminandosi in quella direzione. Aveva capito, finalmente, quali fossero le persone cui lui stava a cuore e riuscì anche a comprendere che quel sentimento era reciproco, nonostante le apparenze da duro.
              Passo dopo passo, metro dopo metro, la consapevolezza di appartenere a una grande famiglia, tormentata, sanguigna, ma fortemente legata ai propri valori, si consolidava nel suo petto. Osservava le altre maestose dimore del viale, le luci accese, le ombre di persone sedute a tavola, e continuò a sorridere, sapendo che presto sarebbe potuto succedere lo stesso anche da loro. Doveva solo impegnarsi di più, aprire una parte di cuore agli altri e rilassarsi; non era difficile, forse, dal momento che persino suo zio aveva cominciato a farlo.
               Sì, ci avrebbe provato.
 
Varcò la soglia di casa con un sorriso appena accennato, incontrando il viso radioso di Hinata. Era stata lei ad aprirgli la porta, ad accoglierlo, e pensò che il fato operasse davvero in modi misteriosi, ma, nonostante le infinite vie, non sbagliasse mai bersaglio.
            La cugina era stato il suo pensiero ricorrente per mezza serata e trovarsela davanti, con un’aria più serena del solito, lo trafisse; da una parte, aveva voglia di imitarla, lasciarsi andare a una sensazione simile al buonumore, ma, dall’altra, avrebbe voluto non incrociare il suo sorriso limpido, che lo costringeva a pensare a quanto fosse stato stronzo e sporco.
            «Sono così sollevata! I tuoi genitori ti hanno cercato al cellulare, ma non hai risposto», lo abbracciò lei, senza curarsi se lui se la sarebbe scrollata di dosso in maniera brusca.
            Era in pena per lui, non aveva passato delle ore liete quanto avrebbe dovuto, dopo il primo bacio di quel pomeriggio.
            «Ho detto loro che ti sei fermato a studiare con dei compagni di classe», sussurrò allegra al suo orecchio, ricordandogli la promessa di quella mattina.
            Neji sgranò gli occhi e boccheggiò qualche istante, mentre sentiva le palpebre pizzicargli. Perché quel nodo in gola, quella voglia incontrollata di abbracciarla e percepire, per la prima volta dopo anni, un contatto umano? Perché quel desiderio di lasciarsi andare? Lui era Neji, Neji Hyuga!
            «L’importante è che tu sia tornato», sorrise Hinata, staccandosi.
            «Ho perso il telefono. Credo di averlo lasciato a scuola o…». O da Karin. Il disgusto si affollò nei suoi sensi, mentre abbassava la testa.
            Il moro andò in salotto e salutò i genitori, spiegando loro i motivi del suo ritardo: aveva scelto di non metterli al corrente della verità, anche se a malincuore, appoggiando la versione data dalla cugina; si sentiva incredibilmente meschino nel mentire, perché non aveva mai provato il bisogno di dare spiegazioni a nessuno, né di coprire la realtà. Ancora una volta, il divario tra lui e i nobili ideali della casata gli si palesò davanti.
            Scrollò la testa, nel tentativo di non pensarci. «Ho un impegno», affermò deciso, dando le spalle al padre e alla madre.
            «Neji!», lo chiamò invano Hizashi, alzandosi dalla poltrona. Ma il figlio aveva già agguantato le chiavi e si era diretto all’auto.
            Hinata lo raggiunse e gli afferrò la mano, poco prima che lui salisse nella vettura. Era fredda e rigida, chiaro indice della tensione che lo pervadeva.
            «Sei appena tornato…».
            «Non sono affari tuoi», mormorò lui, atono, nascondendole lo sguardo. Il solito meccanismo di difesa: ferirla e lasciarla da sola. Odiava farlo, ma non era facile, per lui, sostenere il peso delle preoccupazioni e dell’affetto altrui.
            «Hai ragione…», sorrise lei, mollandolo.
            «Scusami».
            La ragazza quasi cadde tramortita, quando sentì quella parola. Era sicura di non essersi immaginata tutto?
            Neji alzò la testa e la guardò, cercando di respirare con calma. «Vado a farmi una birra con Itachi», spiegò.
            A Hinata brillavano gli occhi, mentre osservava l’auto del cugino allontanarsi in strada. Era profondamente felice di aver ascoltato quelle parole; non solo le scuse, ma, soprattutto, il nome del fratello maggiore di Sasuke. Era davvero contenta che i due avessero in qualche modo ripreso i contatti, perché riteneva Itachi una persona profondamente buona, intelligente, ed era fiduciosa che la loro amicizia si fosse solo assopita, in quegli anni. Pensava che l’Uchiha potesse rendere Neji una persona più equilibrata, riuscendo dove lei, per tutto quel tempo, aveva fallito.
             Si sbagliava di grosso, perché il miracolo stava già lavorando, e solo per merito suo.
 
***
 
Itachi fece roteare l’anello del mazzo di chiavi lungo l’indice, osservando l’otouto che giaceva a letto da mezzo pomeriggio, con lo sguardo fisso al soffitto.
            «Non ti senti bene?», gli chiese per l’ennesima volta, dopo essere entrato e uscito dalla sua stanza almeno una decina di volte.
            «No», ripeté nuovamente Sasuke.
            L’aniki sospirò, cercando di mantenere saldi i nervi. Ancora non aveva capito se con quella negazione intendesse “No, sto bene”, oppure l’esatto contrario. Suo fratello era un enigma senza soluzioni, persino per lui.
Dall’alto del proprio acume, riusciva sempre a comprendere le persone con un’occhiata, a risolvere problemi matematici e quesiti universitari con la stessa rapidità con cui Naruto Uzumaki si spazzolava una portata di ramen dopo ore di digiuno prolungato, eppure, con Sasuke era diverso. Il legame che li teneva stretti era la più riuscita rappresentazione del termine “fratellanza”: fin da piccoli avevano condiviso tanto, dai pomeriggi di studio alle corse nel parco, ma, con il tempo, una leggera ombra era calata fra loro, a dividerli. Ora quell’alone nero si era addensato e solo poche volte lui riusciva ad abbatterlo, perché il diciottenne abbassava raramente le proprie difese.
            Ma Itachi aveva imparato ad osservarlo, a comprendere i suoi silenzi, i suoi sbalzi d’umore, i suoi atteggiamenti altalenanti, i suoi costumi che per alcuni risultavano depravati, ma che lui, pur biasimandoli, non condannava, proprio perché non sarebbe mai riuscito a dichiarare il fratello colpevole di qualcosa. Se agiva in maniera misteriosa e deplorevole, era anche colpa sua: questo era il suo pensiero ricorrente. Se gli fosse stato più vicino in quegli anni del liceo, quando lui era alle prese con l’università, forse le cose sarebbero andate diversamente, o meglio, nulla sarebbe mutato, e sarebbero rimasti gli stessi fratelli di prima, quelli che si capivano al volo e non nascondevano nulla.
            «Esco a bere una birra con Neji, vuoi unirti a noi?», gli propose, temendo già un rifiuto.
            «Nemmeno se mi offriste la degustazione di tutti gli alcolici del bar!», sbottò quello, trattenendo a stento una risata disgustata.
            Proprio come aveva sempre pensato, lo Hyuga non godeva della benché minima forma di amicizia da parte del suo compagno di classe. Non poteva incolpare del tutto il caratteraccio del fratello, dal momento che Neji non si sforzava di apparire simpatico agli occhi altrui. Chissà, forse Itachi era davvero l’unico ad andare oltre la freddezza di quel ragazzo e a considerarlo un amico, dopo tutti quegli anni passati ad allenarsi insieme.
            Prima di uscire dalla stanza, rassegnandosi alla luna storta del fratello, il ventitreenne l’osservò di nuovo con attenzione. Gli occhi neri, nella penombra della stanza rischiarata solo dalla luce del lampione stradale, erano ancora fissi verso il lampadario. Non aveva dubbi, stava sicuramente riflettendo, ed era quasi fin troppo facile intuire quale fosse il suo chiodo fisso.
            «Scommetto che se ci fosse stata un’altra Hyuga, al bar, saresti venuto», lo prese in giro.
            «Vaffanculo!», gridò debolmente l’altro, girando la testa in sua direzione.
            Itachi sorrise: aveva reagito, finalmente. Forse il loro legame non era poi tanto preda delle tenebre.
            Sì, forse Hinata era davvero la cura.
 
L’auto dell’aniki era appena sfrecciata via e lui si era rigirato nel letto ancora una decina di volte, prima di alzarsi. Niente da fare, non sarebbe riuscito a dormire nemmeno quella notte, lo sapeva. Non avrebbe recuperato il sonno perso neppure nelle ore seguenti, tormentandosi piacevolmente al ricordo del bacio in palestra.
            Ancora non riusciva a credere che fosse davvero successo! Non era certo il primo contatto di labbra che aveva sperimentato, ma quella leggera pressione di Hinata sulla bocca, quel calore che aveva provato mentre lei ricambiava timidamente, erano del tutto una novità. Aveva anche appoggiato la testa sul suo petto, ed era strano, perché nessuna l’aveva mai fatto. Non in verticale, almeno. Le ragazze con cui era andato a letto avevano ancora sovrapposto l’orecchio al suo cuore, ma nessuna si era mai davvero interessata all’auscultazione del ritmo cardiaco. Volevano solo il suo corpo, non erano interessate alla sua anima o, anche se mai lo fossero state, lui non era per niente intenzionato a rivelarla ai loro occhi.
            Hinata era diversa. Quando, in quegli anni, l’aveva vista osservarli da lontano, alla ricerca di un minimo cenno di saluto da parte di Naruto, aveva sempre pensato che fosse strana e irritante, paranoica e inconsistente, ma ora aveva imparato rapidamente a conoscerla. I suoi silenzi erano esplosioni di pensieri, i suoi sguardi puro scintillio di emozioni, la sua pelle il tessuto di cui si adornavano le divinità celesti… Non era strana, era solamente unica.
            Solo guardarla gli metteva i brividi, perché temeva che i suoi occhi neri potessero macchiarla e renderla spregevole quanto lui. Delle volte non trovava nemmeno il coraggio di pronunciare il suo nome, pensando che l’avrebbe condannata all’oscurità, al peccato e alla perdizione, consegnandola alla bestia che lo divorava dentro.
            Ma era stata lei a scegliere di affidarsi a lui, con quel bacio. Aveva accorciato lei la distanza fra i loro respiri. Lei aveva dato prova di volere che il contatto avvenisse, e lui non aveva potuto deluderla, dal momento che desiderava lo stesso.
             Non era per niente debole, era riuscita persino ad affrontare Naruto e, in qualche modo, a dargli l’addio, con un sorriso sulle labbra, dopo che lui l’aveva violentemente sollevata da terra con le piante dei piedi. Sasuke era certo che in quell’istante la ragazza dai capelli blu avesse fatto chiarezza nel proprio cuore, riuscendo finalmente a capire quell’incolmabile differenza che corre tra l’affetto e l’abitudine. O, almeno, lo sperava. Auspicava che lei avesse intuito che dietro al nome dell’Uzumaki si nascondeva solo una consuetudine, non il cuore. Certo, peccava di presunzione nel desiderare di riuscire a riempire il vuoto lasciato dal biondo, ma scrollò le spalle. Essere tracotante era un suo difetto, non poteva nasconderselo, ma sapeva che quell’arroganza non era del tutto ingiustificata, perché aveva colto un barlume di verità nelle iridi chiarissime della Hyuga. Sapeva che lui non era del tutto indifferente, per quegli occhi.
             Mentre osservava la pallida luna, al di là della finestra, non poté evitare di ripensare al lattiginoso incarnato dell’epidermide della ragazza. L’aveva sfiorata con le labbra, con i polpastrelli, ma non era andato oltre. Per la prima volta nella sua giovinezza, era fiero di sé, del rispetto che nutriva verso Hinata. Voleva mantenerla pura, anche a costo di dannare se stesso e i propri istinti animali. Non meritava un trattamento brusco, andava protetta, e lasciare inviolata dagli occhi del desiderio la sua pelle diafana era solo il primo passo. Con tutte le proprie ombre alle spalle, si sarebbe comunque proteso a raggiungere e tutelare la sua luce.
              Ancora non si spiegava come potesse essersi ridotto a pensare costantemente a lei, a metterla al primo posto, quasi obbligandosi a dimenticare se stesso. Non gli era mai successo e sapeva esattamente cosa ciò significasse, pur non trovando la forza di ammetterlo.
              Itachi gli aveva chiesto se stesse bene, e lui aveva risposto con un “no”. “No, non lo so”, ecco l’esito corretto di quella negazione. Si sentiva perfettamente, fisicamente parlando, ma la testa era altrove, a qualche chilometro di distanza da casa. Tutto ciò cui riusciva a pensare era lei, e non trovava pace. Eppure sorrise, scoprendo i suoi incisivi e canini bianchi, trasformando quell’espressione in una risata tanto armoniosa, quanto sconvolgente. L’eco della sua voce si schiantò contro le pareti della stanza, che a malapena ricordavano il suo timbro.
              Finalmente, dopo mille lotte contro se stesso e i propri sentimenti, aveva capito. Era così semplice: era innamorato.
 
***
           
A villa Hyuga, alle ventidue e dieci, regnava già il silenzio.
              Hiashi si era ritirato in camera sua, portandosi dietro un pesante tomo del Codice Civile di un paio di decenni prima: scovare le differenze tra la legislatura attuale e la passata era uno dei suoi pallini fin da quando, anni e anni prima, era un diligente studente di Giurisprudenza.
              Odiava ammetterlo, ma l’unico motivo per cui ancora sfiorava quei libri era che essi gli ricordavano la propria giovinezza. Quando le dita si appoggiavano su quelle pagine ingiallite e consunte, il suo cuore riprendeva a battere, o meglio, lui riusciva finalmente a sentirlo martellare. Era probabilmente stato uno dei momenti più felici della sua vita, quello universitario, e non perché all’epoca era uno studente modello o l’orgoglio della famiglia, ma perché c’era lei. Era là che l’aveva conosciuta e se n’era lentamente innamorato, passando da un’antipatia reciproca alla più cieca passione. Si erano laureati a distanza di pochi giorni e nel giro di un anno si erano sposati, diventando ben presto genitori.
              Haiko gli mancava terribilmente, per quanto cercasse di non pensarci mai. Di giorno era facile divagare con la mente, non cadere nei suoi sporchi giochi al massacro, ma con il calar del sole la malinconia lo assaliva, vuoi un po’ perché si chiudeva nell’ufficio, vuoi perché non aveva di fronte il sorriso di Hanabi o la rassicurante serenità di Hinata. Quei tomi, poi, per quanto lui vi si attaccasse ogni notte, non erano per niente un bene. Vagare fra quelle righe sottolineate a matita, ai lati delle quali leggeva, qualche volta, i messaggi della moglie, lo rabbuiava.
              Al prossimo esame, ti straccerò!
             Con te non si può proprio ragionare (ma è per questo che mi piaci).
             Ti amo, testone!
             Domani è il gran giorno… e poi toccherà a me, indossare il tocco! Smettila di leggere il Codice e vedi di comprarmi qualcosa di carino!
             Grazie.
            Sarò al tuo fianco, fino alla fine.
            Tu sei la ragione per cui io esisto.
            Una lacrima pesante, stillata nel corso di anni di pensieri dolorosi, baciò la carta, sciogliendo leggermente l’inchiostro secco.
             «Tu eri la mia, Haiko», mormorò asciugandosi la guancia e tamponando la pagina con un fazzoletto. «Ma ora lo saranno le nostre bambine, te lo prometto», sorrise, riponendo il libro sul comodino e spegnendo l’abat-jour.
 
Se c’era una cosa che Hinata aveva ereditato da suo padre, oltre al colore degli occhi, era la costanza nello studio, soprattutto negli orari meno consoni.
            Era comodamente seduta in poltrona, nel salotto, con la luce della lampada verticale puntata sul libro di Storia. Aveva rassicurato gli zii che avrebbe pensato lei ad aspettare Neji, che lo faceva volentieri, dal momento che loro si sarebbero dovuti recare al lavoro e necessitavano più riposo di una semplice studentessa. Inoltre, li aveva tranquillizzati sul fatto che loro figlio non avrebbe fatto tardi, essendo un liceale diligente e pronto a svegliarsi all’alba.
            Nella calma della villa, aveva cominciato a studiare qualche pagina del manuale, in vista di una possibile interrogazione dell’Hatake.
            Leggere anche gli argomenti più pesanti, a quell’ora, nel silenzio più totale, diventava quasi un piacere; riusciva a immergersi nella lettura dei testi scolastici con la stessa facilità con cui s’immedesimava nei protagonisti dei suoi romanzi preferiti, immaginando ora di essere Napoleone, ora un membro della dinastia Meiji.
            Quell’armonia fu spezzata solo dalla vibrazione del cellulare, sul bracciolo della poltrona. Hinata chiuse lentamente il libro, osservando il display: la chiamata in entrata proveniva da un numero privato.
            Il fatto di non poter sapere chi la stesse cercando la turbò alquanto, ma si ricordò che Neji le aveva detto che aveva dimenticato il cellulare a scuola; forse era lui e stava chiamando dal telefono di qualche suo amico, oscurando appositamente il numero, o da una cabina telefonica. Magari voleva avvertirla che avrebbe fatto tardi e di non preoccuparsi.
            Il pensiero che potesse trattarsi di suo cugino, la spinse ad accettare la chiamata.
            «P-pronto?», balbettò sottovoce.
            «Hinata Hyuga?», chiese un uomo, dall’altro capo dell’apparecchio.
            Le sembrò che il sangue cominciasse a fluire meno velocemente, in quel momento, mentre alle orecchie giungeva il battere impetuoso del suo cuore; quello non era Neji, né una voce familiare. Come se fosse guidata dal sesto senso, capì che qualcosa non andava.
            «S-sono io», mormorò impaurita, trattenendo il respiro.
            «Se vuoi rivedere tuo cugino, esci di casa e lasciati il quartiere alle spalle, imboccando la strada principale. Se ci tieni a rivederlo vivo, presentati senza nessuno, men che meno la polizia», le ordinò con freddezza, prima di attaccare.
            Le vene le si erano ghiacciate, mentre, incapace di muoversi, ascoltava il suono di fine chiamata. I suoi occhi elargivano copiose lacrime, e lei non riusciva a trovare la forza nemmeno per respirare.
            Per i primi dieci secondi, pensò che si potesse trattare di un incubo. Chissà, magari si era addormentata con il libro in grembo e, una volta svegliata, avrebbe trovato Neji a fissarla con aria seccata. Non importava, glielo avrebbe perdonato e lo avrebbe abbracciato ancora, senza curarsi del suo diniego.
            Si accorse solo allora che stava già stringendo il manuale chiuso, nella mano, e che l’altra era ancora ferma all’altezza del padiglione auricolare, con il telefonino fra le dita. Sentiva il peso di entrambi gli oggetti gravarle sui carpali, così come le lacrime solleticarle malvagiamente il bordo del viso.
            Agghiacciata, scoprì che quella era la realtà e che, probabilmente, tutto ciò che era avvenuto prima della telefonata, era stato solo un sogno.





Saaaalve a tutti! 
Prima di tutto, come sempre, mi sento in dovere di chiedere perdono per la lunga attesa: non è stato un periodo facile, fra impegni, corse, regali, università e chi più ne ha, più ne metta XD Tra l'altro, l'ispirazione è stata un po' ballerina, in questi giorni (ma ora sta facendo la brava) ;)
Mi è piaciuto cercare di descrivere la metamorfosi di Neji, così come quell'attimo di debolezza - ma forse sarebbe meglio chiamarla semplicemente "umanità" - di Hiashi (NB: ho appena cercato la frase "tu sei la ragione per cui io esisto" su Google e ho scoperto che è stata pronunciata anche in "A Beautiful Mind"... aww citazione felice, seppur inconsapevole! Adoro quel film).
Spero non vi sia dispiaciuto :) E' stato un capitolo più riflessivo, ma, nel prossimo - come preannunciato - ci sarà qualcosa di più dinamico e "forte". 
Oh, e Sasuke ha le idee terribilmente chiare, ora.
Abbiamo anche scoperto chi è il personaggio misterioso; magari Hidan non sarà originale, ma è il più sadico che mi è venuto in mente XD Ad ogni modo, vi ringrazio di cuore per i vostri consigli! E' stata una dura scelta!
Così come vi ringrazio per le recensioni, i click nelle seguite/preferite/ricordate e fra gli autori preferiti! *-* Grazie davvero!!
Novità: ho aperto una pagina personale su fb (
https://www.facebook.com/ophelia.uchiha) e chiunque avvertisse il malsano desiderio di scambiare due chiacchiere con la sottoscritta, è ben accetto ;D seriamente, per me sarebbe un piacere!
Natale è alle porte, siamo tutti più buoni... e siccome il simpatico barbuto di rosso vestito non passerà da queste parti, temo, vorreste trasformarvi in piccoli grandi benefattori e lasciarmi una minuscola recensioncina? *occhi dolci, nonostante le occhiaie* Graaazie :3
Dal mio pigiamone rosso e verde che mi fa sembrare un agrifoglio pompato da chissà quale prodotto chimico (naaa non è vero, è colpa della cioccolata... e del cenone di stasera che sto già pregustando con l'immaginazione), vi invio i miei più cari auguri di un sereno Natale! Auguri a voi, alle famiglie, a chi vi sta a cuore! :D
Spero di aggiornare prima del nuovo anno (anche se temo che prima farò un salto nelle altre due long... poverine, bisogna pensare anche a loro XD), buon 2014! :D
A presto, oh oh oh!
Baci 


Babbo Nat Ophelia

 
   
 
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