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Autore: TheUnknownDevice    24/12/2013    2 recensioni
“La convinzione fotte la gente”, disse qualcuno.
Honey, dopo aver passato dieci dei suoi diciotto anni su una sedia a rotelle, è convinta di non avere nulla: non ha un paio di gambe funzionanti, non ha dei genitori, non possiede alcun amico né un qualche animale domestico.
Dylan, lo scapestrato e fin troppo attraente ragazzo che irrompe nella sua vita e le propone un patto a doppio senso, invece, sembra essere contento e fiero della propria vita.
Ma non è tutto come sembra, dipende solo dai punti di vista. E quando gli antipodi si scontrano, ogni cosa è davvero possibile, perché tutto passa, ma niente cambia davvero. Forse, solo se ne sei profondamente convinto.
È come in una guerra, come un accordo di mutuo soccorso tra Paesi alleati. Il primo a cadere perde, ma può contare sull’aiuto dell’altro.
Una solida alleanza, un tacito patto a doppio senso, un appiglio per salvarsi dalla fredda ed esigente realtà.
And nothing else matters - E non importa nient'altro.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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Prologo
 

25 novembre 2003
 

Tutto, lì dentro, gridava: “Scappa, scappa finché sei in tempo!”, eppure non riuscivo a muovere un solo muscolo. Ero paralizzata, immobilizzata da un’indefinita quantità di fili e tubicini d’ogni forma e colore. La stanza, intorno a me, era un’esplosione di bianco e candore: bianche le pareti, il pavimento, le sedie, il tendaggio, persino.
È proprio una stanza d’ospedale, non c’è che dire.
Nella solitudine più assoluta, cercai vanamente di stiracchiare le braccia, ricevendo in cambio un forte dolore alle ossa. Non capivo esattamente cosa stesse succedendo; sapevo solo d’essere bloccata in un letto fin troppo pulito con fin troppi aghi incastrati nella pelle.
Fortunatamente, la porta davanti a me si spalancò, mostrando una giovane donna di colore, probabilmente un’infermiera.
«Oh, ciao, cara. Come ti senti?» fu questo il saluto che ricevetti; nulla a che vedere con delle delucidazioni in merito al mio stato di invertebrato, dunque.
Iniziamo bene.
«Mi... sento bene, grazie. Ma, signorina... vorrei sapere alcune cose, se non le dispiace», risposi, in preda alla più totale confusione.
Di tutta risposta, l’infermiera mi rivolse un sorriso smagliante, asserendo, come se nulla fosse:«Dimmi pure, cara.»
«Perché mi trovo qui? Cosa ci faccio con tutti questi aghi infilati nelle vene? E perché non riesco nemmeno a muovere le gambe? E dove sono finiti i miei genitori?»
«Oh, ma quante domande! Non è bene che tu sforzi il cervello, cara; nelle tue condizioni dovresti cercare di rilassarti», rispose pragmatica la donna.
«Ma potrebbe spiegarmi, per favore...» in effetti, la testa iniziava a dolermi, per non parlare del senso di spossatezza che cominciava ad incombere.
«Va bene, se proprio lo desideri, cara...»  quell’appellativo iniziava a stancarmi. Proseguì:«Hai avuto un brutto incidente d’auto, circa due anni fa. L’autovettura si è praticamente ribaltata, a quanto ne so. Il tuo è stato un caso miracoloso: dopo quasi un anno e mezzo di coma, le speranze di un tuo risveglio sembravano scomparse. Ma poi hai iniziato a mostrare segni di miglioramento, così abbiamo continuato le cure ed oggi sei di nuovo qui con noi», terminò il suo monologo con un sospiro e un nuovo sorrisone, trafficando poi con delle siringhe.
«E... e i miei genitori? Erano con me quando è successo l’incidente?»
L’infermiera mi guardò compassionevole. «Sì, ma non ce l’hanno fatta, cara. Mi dispiace», proferì seria, tornando a sistemare quelle maledette siringhe come se mi avesse parlato del suo cane.
 «Come?! Che vuol dire che non ce l’hanno fatta? Mi vuole spiegare, cortesemente?» il mio tono di voce sfiorava quello di una cornacchia, talmente era stridulo.
Iniziai ad agitarmi nelle lenzuola candide, portandomi a fatica una mano tra i capelli sciolti e scompigliati.
«Come ti ho appena detto,» proseguì con un sorriso tirato, «i tuoi cari non ci sono più. Sono morti sul colpo, probabilmente schiacciati dal peso dell’auto. Tu sei rimbalzata fuori, invece, ma hai subito un trauma cranico così forte che sicuramente non ricordi nulla dell’accaduto, vero, cara?», concluse quella, con cipiglio altezzoso.
Non risposi; semplicemente, scoppiai in singhiozzi, coprendomi il viso con le mani doloranti.
I miei genitori non c’erano più. Da due anni. Erano morti. E quella buona a nulla dell’infermiera aveva usato parole degne di uno scaricatore di porto – quanto a delicatezza e tatto – per spiegarmi l’avvenimento oltremodo tragico che mi riguardava in prima persona.
I miei genitori erano morti ed io non avevo nemmeno avuto la possibilità di salutarli.
Ed io?
Io ero sola.
L’infermiera tentò di avvicinarsi, ma ringhiai qualcosa d’incomprensibile persino a me stessa, ché lei s’eclissò dietro la porta per non comparire più.
Piansi lacrime amare, lacrime di angoscia, di solitudine, di rassegnazione. Versai tutto ciò che avevo in corpo; non rimase nulla della mia anima lacerata.
Probabilmente, sia per il pianto che per l’assenza di nutrimento – anche la bottiglietta della flebo era ormai vuota -, sprofondai in un sonno pesante e senza sogni.
 

- - -
 

«Cara, cara... svegliati, su!» una voce profonda e ovviamente maschile mi stava chiamando, sussurrando in un mio orecchio.
Mi mossi leggermente, come a far capire di non essere caduta nuovamente in coma.
O forse si?
A quel pensiero, i ricordi ritornarono a galla prepotentemente, facendomi aggrovigliare lo stomaco.
Non che ricordassi l’incidente, quello no; ma il racconto alquanto dettagliato e fiscale dell’infermiera sorridente mi aveva fornito le informazioni necessarie per ricostruirne un modello nella mia mente.
E non era la cosa più bella del mondo, assolutamente.
«Bentornata tra noi, cara!», gridò una voce alla mia destra.
Ma che avevano in quel posto?! Dopo due anni andava di moda chiamare tutti con quel nomignolo assurdo? Mah.
Voltai di poco il capo, notando una testa e un sorriso abbastanza familiari.
Sì, decisamente, quella non era la dentiera biancheggiante della donna di colore, nient’affatto.
Era un sorriso sincero, genuino, di quelli che solamente uno come lo zio Cedric poteva offrirti!
Finalmente collegai il tutto, abbozzando un lieve sorriso in risposta a quei grandi occhi azzurri che mi guardavano commossi.
«Oh, piccola Honey, quanto sono felice!» non feci in tempo a formulare una risposta, ché lo zio Cedric mi stritolò in uno dei suoi abbracci mozzafiato.
Per la prima volta dopo quella lunga solitudine, mi sentii a casa.
«Anch’io zio, anch’io. Non immagini quanto», risposi io, con la voce attutita dalla sua camicia di cotone profumata, stringendo le mie braccia intorno alla sua vita.  
Riuscivo persino a ricordare il colore della boccetta dell’ammorbidente che tanto mi piaceva, addirittura. Era una tradizione, quella: fin da quando avevo mosso i primi passi, ad ogni bucato, il grande – e perennemente single – zio Cedric mi faceva aggiungere una quantità spropositata di ammorbidente nella lavatrice perché – dicevo – eliminava dai suoi indumenti il puzzo di fumo che lo caratterizzava – essendo, egli, un accanito fumatore – altrimenti non avrei potuto abbracciarlo a dovere, con quell’odore nauseabondo addosso.
Zio Cedric era il fratello di mio padre; nonostante ciò, pochi erano gli elementi che li accomunavano: gli inconfondibili occhi azzurri – che anch’io avevo ereditato – ed un’altezza possente e protettiva. Per il resto, i tratti somatici e comportamentali erano totalmente differenti, se non proprio opposti.
Ma allora... perché tutti quei minimi particolari riuscivo a ricordarli, mentre il momento precedente al fattaccio non ce la faceva ad arrivare nella mia mente?
Esplicai a parole questo mio pensiero, ricevendo un’occhiata dispiaciuta da quello che doveva essere il medico di base.
«Allora, Honey. Ti spiegherò tutto brevemente ed in modo che ti sia il più chiaro possibile», proferì il dottore, tornando a guardarmi con la solita aria clinica da esperto. «Hai subito uno dei traumi cranici più brutti e pericolosi che abbia mai dovuto operare, specialmente perché il cranio di una bambina non è per nulla simile a quello solido di un adulto. Fortunatamente, il piccolo intervento è andato bene, fatta eccezione per la tua... reazione al tutto. Sei entrata in coma, come ben sai, e ci sei rimasta per due anni. Ti dirò... le speranze che tu potessi risvegliarti erano minime, tant’è che abbiamo chiesto a tuo zio – l’unico ad essersi preoccupato per voi – se fosse il caso di, ecco... di...» il medico pareva in difficoltà, come se non trovasse le parole adatte per spiegarsi, poi sorrise amaro, rivolgendosi a zio Cedric: «È più difficile da esplicare, quando si tratta di una bambina di appena otto anni», affermò imbarazzato, tornando a guardarmi. «Ecco, Honey, volevamo sapere se fosse il caso di... farti rincontrare i tuoi genitori!», asserì soddisfatto, come se gli si fosse accesa la lampadina tutto d’un tratto.
Ma, nonostante la mia giovane età, avevo capito. Pensava di stare ancora nell’Ottocento? Ah, questi adulti.
Per mia fortuna, i miei genitori mi avevano sempre spiegato tutto, essendo degli appassionati di scienze naturali, entrambi laureati a pieni voti in chimica. Secondo il loro modesto parere, tenermi all’oscuro di tutto ciò che riguardasse la natura era una sorta di offesa contro la loro etica, perciò mi avevano sempre e comunque tolto ogni dubbio, su ogni curiosità mi si presentasse davanti.
Al loro pensiero mi rabbuiai di riflesso, non senza rispondere a tono al dottore.
«Vuole dire che volevate praticarmi l’eutanasia?», chiesi con nonchalance, notando lo sguardo sbigottito dei due estranei. Zio Cedric, invece, sorrideva trionfante, quasi ghignando in direzione del medico, come se si aspettasse una dichiarazione del genere da parte mia.
«Oh. Ehm, bè, sì...», borbottò ancora intontito l’uomo, grattandosi la nuca.
«Bene, dottore. Quindi per la nostra Honey è arrivato il momento di ritornare a casa?» Zio Cedric sapeva sempre come smorzare la tensione, non c’era dubbio.
«Certamente, sei stata fin troppo legata a questo letto!», esclamò il medico, scribacchiando sulla cartelletta che portava in mano.
«Dobbiamo ricontrollare solamente qualche valore leggermente alterato, nulla di che», continuò il dottore, sorridendo apertamente,
Una sedia a rotelle, confinata in un angolo della stanza, attirò la mia attenzione.
«Dottore, come mai c’è una sedia a rotelle? Non è per me, vero?», domandai, sentendo un nuovo capogiro farmi visita.
«Veramente...» E riecco che il grande medico non riusciva a parlare a dovere, «...Honey, hai perso l’uso delle gambe, dopo l’incidente. Solamente un intervento più lungo e specifico potrebbe farti ritornare in piedi. Ma, per questo, dovrai aspettare la maggiore età, ora sarebbe troppo rischioso operare su un corpo in crescita. Mi dispiace», sospirò, guardandomi bieco, quasi colpevole.
Un’altra notizia del genere e sarei serissimamente potuta schiattare sul colpo.
Non riuscivo a parlare, non per dare una risposta di senso compiuto, almeno. Era come se fossi avvolta in una bolla di sapone talmente impenetrabile che niente e nessuno poteva scalfirmi.
Dopo la notizia della scomparsa dei miei genitori, tutto il resto sembrava aver perso importanza, in primo luogo la mia infermità.
Zio Cedric, come a capire il mio sconforto, mi strinse a se  e mi carezzò lievemente la schiena.  
«Un’ultima domanda vorrei farvi, se me la concedete», disse serioso, scrutando lo zio, «La bambina con chi vivrà, ora che, bè...» Ovviamente, il dottorino non sapeva come esprimersi.
Bella professionalità.
Fu zio Cedric ad intervenire, risparmiandogli il fastidio di trovare le parole adatte: «Starà con me, ovviamente.»






UnknownVoice:
Saaalve a tutti! Ed eccomi qui con questa nuova storia, fresca fresca di scrittura dopo un'ispirazione prettamente natalizia (sì, le vacanze di Natale sono mooolto deleterie per me xD).
Diciamo che questa storia è più un esperimento, nato dalla voglia di scrivere qualcosa di diverso - e molto meno complicato, soprattutto - dall'altra mia storia, "Freckles", decisamente più impegnativa.
Il titolo, per chi non lo sapesse, è lo stesso della bellissima e fantastica e stupenda e grandiosa e chi più ne ha più ne metta canzone dei
Metallica - Nothing Else Matters, per l'appunto.^^
Quindi niente, ho pubblicato i primi due capitoli insieme cosicché possiate avere una visuale più libera e completa della storia, sperando di non annoiarvi. Spiacevolmente, i primi capitoli son sempre così; per presentare bene il tutto devo dilungarmi nelle descrizioni e soprattutto nelle digressioni temporali - anche perché qui sono molto importanti.
Che dire? Spero tanto che piaccia e che non sembri la solita storiella sdolcinata, tutto qui ;)
Attendo una vostra opinione sul mio lavoro :)
Potete trovare questa storia anche su wattpad,a questo indirizzo: http://w.tt/1TOpGxU
Intanto, vi auguro buone feste e buon anno nuovo!
A presto,
UnknownDevice

 
  
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