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Autore: mamie    27/12/2013    4 recensioni
[Mushishi]
Nel capitolo "L'abito che avvolgeva la montagna" il cacciatore di Mushi, Ginko, si imbatte in un pittore che se ne era andato dal proprio villaggio per fare fortuna. Al suo ritorno il pittore trova il villaggio distrutto da una frana e l'unica sopravvissuta della sua famiglia è una nipotina che sembra ritardata. Solo dopo aver ricostruito faticosamente una nuova vita il pittore ritrova la voglia di dipingere, ma non ha più colori...
Scritta originariamente per la Cioccolata Challenge di FW.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Fanfiction in cucina!'
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Nota: ha partecipato alla Cioccolata Challange di FW.

Partecipa alla challenge Diamo visibilità a chi non ne ha con la Citazione letteraria n.5 - Il tempo con il suo trascorrere insegna tutte le cose (Eschilo).

 
  IL PITTORE SENZA COLORI
(cioccolato in polvere)
 
Aveva fatto tutto il giro, come un cerchio che si chiude. Dalla sua montagna era partito bambino per diventare un grande pittore… e lo era diventato. Ma quando era tornato carico di gloria tutto quello che aveva trovato era stata una frana che aveva sepolto il suo villaggio e una bambina, la figlia di sua sorella. Di tutto il suo passato rimaneva solo lei e nient’altro. Non la sua vecchia casa, non la sua famiglia, niente.
Allora aveva ricominciato a lavorare nei pochi campi rimasti, al servizio di gente che non lo riconosceva più, per dar da mangiare alla bambina.
Si sentiva un estraneo e un egoista. Era stato via dieci anni e non si era mai preoccupato di quello che poteva accadere al villaggio. Ora la montagna, la sua montagna, non gli pareva più la stessa di quando era bambino. Le profondità della sua foresta non celavano più misteri, i suoi alberi e le sue piante mandavano solo grida di dolore. Persino il colore gli sembrava diverso. Alla ricca gamma di sfumature che ricordava si era ora sostituito un grigio uniforme, rotto da qualche verde smorto e senza vita.
Non riusciva più a dipingere. Gli erano rimasti, sì, un paio di pennelli, ma aveva sprecato tutti i pochi colori che si era portato dietro in opere inutili, andate subito distrutte per la rabbia di non saper più fare quello per cui se n’era andato, quello per cui aveva abbandonato la sua famiglia, il posto dove era nato, l’odore stesso della sua terra.
Era stato lavorando nei campi che aveva ricominciato lentamente a vivere, a riprendere contatto con la sua gente, con le piante e le radici della sua montagna, ma la pittura non tornava, era morta per lui. Guardandosi nelle pozze d’acqua dopo i temporali estivi vedeva solo un viso invecchiato, la faccia di chi sa di aver fallito, la sua terra gli rimandava come uno specchio la polvere delle sue illusioni.
Fu solo dopo aver incontrato quel buffo straniero che capì. L’aveva visto sollevarsi davanti a lui sputacchiando il fango in cui era rimasto invischiato e, con una meraviglia ancora più grande, portargli il suo vecchio haori, quello in cui da ragazzo aveva dipinto la sua prima opera carica di nostalgia, la sua montagna; quello stesso che aveva impegnato per comprarsi i primi colori, e che poi non era più tornato a riscattare.
Il ragazzo dai capelli bianchi era un mushishi. Gli aveva spiegato che gli ubusuna, gli spiriti della montagna, erano stati spazzati via dalla frana e si erano rifugiati nel suo haori, perché era l’unica cosa che avevano trovato fatta con la seta dei bachi del suo paese, tinto con le erbe della sua terra, lavorato dalle mani di sua sorella che ormai non c’era più da molti anni.
Siccome gli ubusuna non possono vivere in luoghi estranei e sconosciuti, si radunarono sul tuo haori.
Il pittore non era ben sicuro di aver capito tutta la spiegazione contorta, ma guardando la montagna l’aveva vista improvvisamente con occhi diversi, con gli stessi occhi di quando era bambino e guardava il fumo che si alzava fra gli alberi fantasticando sugli dei della montagna che cuocevano il riso. E gli era tornata, d’un tratto, la voglia, di dipingere. Una voglia urgente, assoluta, priva di logica e di sostegno.
Cercò freneticamente nella sua cassetta dei colori, ma non gli era rimasto più nulla. Non poteva aspettare di tornare di nuovo in quel villaggio lontano per comprarli, e in ogni caso non aveva soldi. Cominciò a frugare fra le cose della cucina. Ecco un po’ di curcuma che era rimasta in un vasetto, e lì da qualche parte doveva esserci anche del tè verde e della polvere di wasabi, del pepe di sichiuan  e anche un po’ di fiori di borragine. Poi, continuando a frugare, trovò un pacchettino ancora chiuso. Lo tenne per un attimo fra le mani con una smorfia di dolore. Era un regalo per sua sorella, se n’era dimenticato. Aveva avuto quella polvere scura da uno straniero. Era molto rara. Una cosa che veniva da un paese lontano. Com’è che si chiamava?
Ah, sì. Cioccolato.
Cominciò a mescolare le polveri con l’acqua, metodicamente, con i gesti pazienti che aveva imparato nella bottega del pittore e che le sue mani non avevano dimenticato.
La polvere di cioccolato diluita col tè verde aveva dato un colore bruno dai riflessi muschiosi. Proprio quello della sua montagna. Ecco, alzando lo sguardo vide di nuovo uscire il fumo dagli alberi, come quando era bambino. Gli dei erano tornati.
Felice, il pittore ricominciò a dipingere.
 
 
NOTA: la curcuma dà una tintura gialla, il tè verde in polvere è di un verde giada, il wasabi è verde chiaro, il pepe di sichiuan è rosa e i fiori di borragine danno una tintura azzurra.
 
  
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