Nota dell’Autore
Eccomi qua^_^
Come poco tempo fa, ancora una
volta una nota dell’autore insolitamente posta all’inizio di un capitolo
anziché alla fine.
A quanto pare ci ho preso gusto
con questi missing moments,
queste storie brevi dedicate a personaggi che hanno avuto o hanno tuttora un
peso secondario all’interno della trama principale di Tales Of Celestis, ma le cui vite sono
importanti ciò non di meno ed aiutano a capire meglio quella società magico-tecnologica venutasi a creare su Celestis.
Il mondo che ho creato si presta
bene a questo tipo di storie brevi, nella fattispecie è perfetto per dare vita
a racconti che possono per i vari contest ai quali mi diletto a prendere parte.
Nello specifico questa storia
breve (che sarà divisa probabilmente in 4 parti) partecipa a due diversi
concorsi, ovvero Ritorno all’Infanzia,
indetto da Frantasy94, e Il Contest degli Ossimori, di Higurashishinko.
Come accaduto nel caso di I Love You,
Kyrador, questa storia è fondamentalmente distaccata dalle vicende che
appartengono alla trama principale, il che non rende necessario aver letto
l’originale Tales Of
Celestis per poterla leggere e comprendere.
Ecco, ho detto tutto.
Spero che vi piaccia.
A presto!^_^
Carlos Olivera
PARTE I
Sedeva da sola, in quella stanza di cui ormai conosceva ogni
angolo, ogni anfratto.
Anche se il titolo non era
ancora suo, l’avevano fatta accomodare nella stanza della quale, secondo molti,
si sarebbe rimpossessata prima di sera.
Non c’era stato bisogno di
sfrattare il suo avversario, visto che le zone assegnate a uomini e donne erano
comunque separate, ed ognuna delle due aveva la propria Stanza dei Campioni, ma
ovviamente a Warewolf la cosa non doveva fare molto
piacere.
Alla sua destra, l’armadietto,
dove per tanti anni aveva riposto i suoi oggetti prima di scendere in campo, e
subito accanto il rubinetto, per sciacquare via l’ansia alla partenza e lavare
il sudore al ritorno. A sinistra un simulatore, poco più di una lattina, in cui
provare le ultime combinazioni per accertarne l’efficacia. Alle sue spalle, la
Parete della Gloria, dove allineati l’una accanto all’altra capeggiavano le
gigantografie dei campioni degli ultimi
dieci anni, trofei al cielo e medaglie al collo.
C’era anche lei.
Il chandra era tutto questo.
Era sport sì, ma anche
spettacolo, esibizionismo e tanti, tanti soldi.
Non c’era sport in tutta
Celestis che avesse pari successo.
Chiunque entrava in una machina,
anche chi la magia non la possedeva di suo, per un istante poteva diventare
tutto ciò che aveva sempre sognato; poteva essere un prode guerriero, un abile
stregone, un promettente arciere, o un selvaggio lottatore.
Le fantasie che ognuno portava
nell’anima, il chandra le rendeva reali. E per chi vinceva, per chi arrivava
lassù in cima, c’erano fama, gloria e ricchezze.
Tutte cose che lei aveva
saggiato, dopo averle cercato più a lungo di quanto volesse ricordare, e che,
indipendentemente dall’esito di quell’incontro, sarebbero tornate a lei, se
solo lo avesse voluto.
Ma non sapeva se lo voleva.
Erano successe troppe cose.
Troppi eventi si erano accavallati negli ultimi mesi, troppe certezze erano
venute meno, troppe illusioni si erano sgretolate.
Non sapeva neppure per quale motivo
si trovasse lì. Perché avesse accettato la sfida che il campione, proprio lui,
le aveva lanciato.
Poteva scomparire, eclissarsi,
isolarsi dal mondo proprio nel cuore della più grande città del pianeta, ma lei
restava pur sempre Octavia.
Si chiamava Helena, ma per il
mondo era quello il suo nome.
Octavia. La Rosa di Kyrador.
La stampa aveva creato quel nome,
e la folla lo aveva fatto suo. Lo sentiva anche in quel momento, invocato senza
sosta dal piano di sopra, come un urlo di guerra di un esercito pronto alla
carica.
Una voce parve riecheggiare alle
sue spalle, misteriosa ma, al tempo stesso, famigliare, quasi amichevole.
«Li senti? Chiamano il tuo
nome.»
«Chiamano Octavia.»
«E non è forse la stessa cosa?»
«Octavia è solo una parte di
me.»
«Una parte della quale ormai non
ti puoi più liberare.»
«Una parte di cui farei
volentieri a meno.»
«Eppure, mi pare che un tempo
non desiderassi altro.»
«Già. Hai ragione. C’è stato un
tempo in cui non desideravo altro che questo.»
Helena Loyde era nata in un piccolo appartamento di un grande
complesso popolare nel settimo distretto.
Non
erano le stradacce dell’ottavo o del nono distretto, dove si poteva venire
assaliti per pochi kylis nel portafoglio, ma anche lì
la vita non era facile.
Suo
padre faceva il ferroviere, un mestiere abbastanza decoroso che garantiva alla
sua famiglia di che vivere, ma che lo costringeva a lunghi periodi lontano da
casa, sballottato da una corsa all’altra in giro per tutto il continente. Sua
madre lavorava occasionalmente in un centro per anziani, ma il più delle volte
se ne restava chiusa in casa, troppo persa dietro a sogni di gloria mai
realizzati per prestare attenzione a quanto accadeva attorno a lei.
I
primi anni, sotto il profilo dell’affetto, erano stati difficili, con un padre
gentile ma perennemente sempre assente e una madre che, già distratta di suo,
spesso la trascurava per il lavoro, e così capitava spesso che a prendersi cura
di lei fosse la famiglia Warner, dirimpettaia della famiglia Loyde.
Anche
i Warner avevano una figlia, Luna, della sua stessa età, e da che erano nate
erano più i giorni che avevano trascorso insieme di quelli spesi l’una lontana
dall’altra.
Si
consideravano in sorelle, e avevano nel chandra un interesse comune.
Come
molti altri bambini della loro età, fin da bambine avevano preso a seguire con
passione le sfide trasmesse alla televisione, rimanendo affascinate da ciò che
il chandra permetteva di fare a chiunque entrasse in una machina.
Combattere
sfide entusiasmanti, misurarsi in scontri all’ultimo sangue dai mirabolanti
effetti speciali, sprigionare poteri e abilità che persino il mago più
talentuoso nella realtà poteva solo sognarsi, erano tutte cose che accendevano
non solo la loro fantasia, ma più in generale quella di chiunque seguisse o praticasse
lo sport più popolare e seguito di Celestis.
Ma
con il passare degli anni, non fu più solo quello ad entusiasmarle.
Più
le due bambine crescevano, più agli occhi di entrambe, e di Helena in
particolare, diveniva chiaro come il chandra fosse ben più che un semplice
sport. Vedere tutti quegli atleti ricchi, famosi e perennemente al centro
dell’attenzione osannati dalle folle fece nascere in loro il comune il
desiderio di emergere, di ritagliarsi una fetta di quel mondo dorato che
potevano intravedere, in lontananza, tutti i giorni, dai balconi delle loro
semplici case.
Da
laggiù, i palazzi del centro sembravano un paradiso, un eremo di perfezione
dove era possibile conoscere la vera felicità, la stessa che aveva spinto i
loro antenati a giungere fin lì dalla Terra.
Tuttavia,
sia lei che Luna sapevano di avere un grande handicap; non sapevano usare la
magia.
In
un mondo come il loro, dove tutto ruotava in funzione della magia, appartenere
a quella ristretta minoranza di individui che sapevano servirsene senza
l’apporto di qualsivoglia strumento costituiva il primo e principale mezzo con
cui raggiungere il cuore di Kyrador, poiché solo a chi dimostrava di poter
contribuire alla grandezza e al benessere del mondo era concesso di entrare nel
giardino proibito.
La
magia era un dono con cui ci si nasceva, e per chi non la possedeva la strada
era tutta in salita.
Ma
non senza speranza.
Occorreva
impegnarsi, e molto, ma la storia gloriosa di Kyrador era piena di persone che,
pur non essendo maghi, avevano conquistato tutto quello che Helena e Luna
sognavano ogni giorno di riuscire un giorno ad ottenere.
Persino
molti chandristi tra i più amati conosciuti in tutto
il pianeta erano persone che come loro provenivano da realtà difficili,
estranee al mondo di cui un giorno erano riuscite a diventare parte. Era la
prova che non era impossibile, e che anche loro potevano avere la loro
occasione, se solo l’avessero cercata.
Helena,
ogni giorno, passava ore ad osservare quei palazzi, quei fili d’erba
bianchissimi che emergevano dalla parte più ricca e prospera di quel grande
giardino chiamato Kyrador, affacciata dal suo balcone. E spesso Luna era lì,
accanto a lei.
«Ce
la faremo, Helena.» disse un giorno Luna, quando avevano appena undici anni «Ce
ne andremo di qui, e avremo un futuro grandioso. Avremo fama e gloria.»
«Secondo
te è davvero possibile?» domandò Helena, che pur cercando di dimostrare il
contrario nel profondo del cuore non credeva sul serio che una cosa del genere
fosse alla loro portata
«Senza
dubbio. Questa non sarà la nostra vita. Diventeremo ricche e famose, e avremo
tutto quello che vogliamo.»
«Niente male per una ragazzina
delle scuole medie.»
«Allora ero fatta così. Se mi
dicevi che una cosa era impossibile da farsi, non mi fermavo fino a che non riuscivo
a dimostrare il contrario.
Del resto, quando vieni al mondo
in un luogo con così poche prospettive e senza nessuna certezza per il futuro, vuoi credere che là
fuori ci sia sempre qualcosa di meglio.»
«E lo hai trovato qualcosa di
meglio?»
«Immagino di sì.»
A causa delle
ristrettezze economiche della sua famiglia, Helena non aveva potuto permettersi
di ricevere regali di compleanno simili a quelli che venivano fatti alla
maggior parte delle ragazze della sua età, ma tenuto conto anche della buona
media scolastica suo padre, per i tredici anni, una volta tanto aveva voluto
regalarle qualcosa di speciale.
Così,
quello stesso giorno, lei e Luna erano salite in macchina per una destinazione
sconosciuta, e grande era stato il loro stupore quando si erano viste comparire
davanti l’ingresso della Magic Arena, il tempio
mondiale del chandra.
Sorvolando
sul fatto di averli ricevuti in regalo da un collega che era dovuto partire
all’improvviso per un lutto in famiglia, il signor Loyde
aveva messo le mani su tre biglietti per la finale del campionato mondiale
individuale professionistico, che si sarebbe svolto proprio quel giorno.
Per
le ragazze entrare nell’arena e sedere tra il pubblico fu un po’ come toccare
il loro sogno, anche se solo di sfuggita. Non importava che fossero posti
economici, talmente lontani dal ring da far fatica a vedere qualcosa;
l’importante era essere lì, nel cuore del giardino proibito, a vedere con i
loro stessi occhi quelle persone che, come loro, avevano alle spalle un passato
difficile, ma che in qualche modo erano riuscite ad emergere.
Luna
voleva trionfare nella vita proprio come loro, e se quello sport che tanto le
piaceva era uno dei mezzi per poterci riuscire sarebbe stato sicuramente tutto
più facile, oltre che appagante.
L’incontro
fu senza esclusione di colpi, assolutamente spettacolare, e vide prevalere Mida,
incoronando il primo campione del mondo non caldesiano
da tre anni a quella parte.
Ma
il meglio doveva ancora venire.
Per
poter aspirare sul serio al titolo di campione del mondo, il neovincitore
proveniente da Alepto doveva affrontare e sconfiggere l’attuale detentore del
titolo, il quasi imbattuto Bastion, chiamato a
difendere nuovamente la sua corona per la sesta volta in meno di un anno.
Helena
e Luna lo incontrarono mentre erano in coda alla caffetteria dell’arena,
circondato da giornalisti e fan in delirio, oltre che dal suo numeroso seguito
di agenti di scorta, manager e sponsor, e a forza di bracciate riuscirono a farsi
strada fino ad arrivargli davanti.
Anche
con lui non era stata particolarmente generosa. Era nato in una famiglia ricca,
ma il destino aveva voluto farlo venire al mondo affetto da una grave malattia,
tanto seria che ormai sia le sue braccia che le sue gambe erano artificiali.
Lui
più di chiunque altro incarnava ciò che il chandra e non solo poteva dare a chi
riusciva ad arrivare in alto a dispetto di tutto.
Così,
a bruciapelo, Helena sentì di dovergli fare una sola domanda.
«È
possibile per chiunque diventare un campione di chandra?»
«Certo
che sì.» rispose lui con un sorriso «Se hai forza di volontà, tanta dedizione,
e non ti spaventa la fatica, puoi diventare una grande campionessa».
Non
aveva bisogno di sentire altro.
Per
rabbonire i giornalisti, già propensi a considerarlo prossimo alla disfatta
viste le qualità dimostrate dal suo prossimo avversario, Bastion
si fece fare una foto assieme alla ragazzina, e da quel giorno quell’immagine,
custodita gelosamente tanto nel comunicatore virtuale quanto soprattutto nel
cuore, divenne per Helena uno dei suoi più grandi tesori.
Sarebbe
diventata una campionessa di chandra.
Senza
dubbio.
«La foga non ti ha mai fatto
difetto. E nemmeno l’intraprendenza. Questo bisogna riconoscertelo.»
«Due ore dopo, Bastion aveva perso il suo titolo. Ma non mi importava. Le
sue parole mi avevano toccato.
Potevo farcela.
Potevamo farcela.
Potevamo essere campionesse, e
andarcene da quel posto senza prospettive.»
«Tutto perfetto. Se non fosse
per un piccolo ma importante dettaglio. Per poter essere campionesse di
chandra, dovevate gareggiare. E per poter gareggiare, bisognava far parte di
una palestra.»
«E da quelle parti, per nostra
fortuna, ce n’era solo una.»
Da quel giorno,
Helena aveva preso il coraggio a quattro mani, e forte del suo proverbiale
spirito combattivo maturato in anni di zuffe per le strade si era decisa ad
iniziare la sua carriera di chandrista.
L’unica
palestra sufficientemente vicina era il Pugno d’Argento, proprio a metà strada
tra il liceo e la sua casa; poco più che uno sgabuzzino, con poche machina di
seconda mano per gli allenamenti e una sola arena virtuale, oltretutto con un
sistema operativo a dir poco preistorico, per i combattimenti.
La
gestiva Boniek, un butterato tutto muscoli con in testa una palla da bowling
costretto anni addietro a lasciare il chandra professionistico per un incidente
di percorso che ne aveva compromesso la carriera; per tirare al domani aveva
dato vita a quella specie di fucina di talenti, ma da che aveva aperto non era
mai riuscito a creare un solo campione.
Nel
vedere entrare nella sua tana due ragazzine poco più che quattordicenni, lui e
gli altri frequentatori della palestra, quasi tutti teppistelli
da strada o ragazzotti senza particolare talento, non riuscirono a trattenere
una risatina divertita.
Luna,
spaventata, corse quasi subito a nascondersi dietro la schiena dell’amica, che
di contro non esitò a camminare verso il proprietario in doppio petto e con le
mani appoggiate ai fianchi.
«Questo
non è un parco giochi, signorine.» disse il proprietario sovrastandole con la
sua figura spaventosa
«Vogliamo
iscriverci alla palestra».
L’affermazione
suscitò l’ilarità generale.
«Ma
avete idea di dove vi trovate? Ripeto, questo non è un parco giochi. Qui si fa
del chandra. Roba seria.»
«E
allora?» replicò Helena con aria di sfida
«E
allora!? E allora non è roba per signorine».
Helena
rise anche lei, ma in modo ironico.
«310.
Alice Mayer vince il campionato nazionale dilettanti. 316. Alice Mayer vince il
campionato nazionale professionisti. 318. Alice Mayer ottiene il titolo di
campionessa del mondo battendo il detentore del titolo. Sfida conclusa ai
punti, risultato finale 2500 a 2000. 320. Eleonore Winslow vince il titolo di campionessa di Fhirland. 323.
Judy March vince il titolo nazionale a Ebridan. 330. Ling Watchins vince la prima
edizione della categoria femminile ai giochi olimpici di Blazov.
Vuoi che continui?».
Boniek
la guardò stizzito, masticando nervosamente la gomma che aveva in bocca.
«Hai
fatto i compiti, ragazzina. Questo te lo concedo.
Ma
teoria e pratica sono due cose diverse. Con quel fisico minuto e senza un
briciolo di magia in corpo, non resisteresti neanche un minuto sull’arena. E
non ho alcuna intenzione di allenare chi parte già sconfitto, né di starti a guardare
mentre ti fai rompere le ossa da avversari grossi il doppio di te.» quindi fece
un cenno ad uno dei suoi «Mettile alla porta».
Quello,
con modi non proprio da gentiluomo, allungò un braccio verso Helena nel
tentativo di afferrarla, ma lei, con uno scatto felino, gli afferrò il polso,
glielo storse, quindi, malgrado fosse il doppio di lei, lo scaraventò a terra
con una perfetta torsione della schiena.
Nella
palestra calò il silenzio, e Boniek non riusciva a credere ai suoi occhi.
Quando
si vide nuovamente guardare da Helena, poi, sorrise divertito.
«Sai
picchiare. Dove l’hai imparato?»
«Non
hai bisogno di saperlo. Allora, ci prendi nella tua palestra o no?»
«Fai
la voce grossa, per essere solo una mocciosa. Credi che saper menare le mani
sia l’unica cosa di cui hai bisogno in questo sport? Nel chandra ti serve
ben’altro.»
«Possiamo
imparare. Siamo qui per questo dopotutto».
Di
nuovo Boniek sorrise, e fatto qualche passo avanti portò nuovamente la sua
imponente figura a troneggiare sopra le due ragazze.
«Trecentocinquanta
kylis al mese. A testa, ovviamente.»
«Ma
è più del doppio di quello che viene chiesto abitualmente.» riuscì a dire Luna
«Senti
tappetta, avete idea di quello che succederebbe se mi
venisse un controllo e vi beccassero qui? Come minimo mi farebbero chiudere
bottega. Dovrò pur compensare il rischio.»
«Dalle
condizioni in cui versa questo porcile» obiettò velenosa Helena «Ho idea che un
controllo tu non sappia neanche cosa sia.»
«Non
infastidirmi coi dettagli. Allora, ci state o no?».
Helena
si prese qualche istante di riflessione. Quanto a Luna, lei le idee le aveva
già piuttosto chiare; tralasciando il fatto che quel posto non la ispirava per
nulla, più di ogni altra cosa quella che Boniek esigeva era una cifra che per
loro era quasi impossibile potersi permettere.
«Helena,
andiamo via.»
«Due
e cinquanta.» replicò invece la ragazzina senza starla a sentire
«Cos’è,
stiamo mercanteggiando?» replicò beffardo Boniek «Non sperare di fare la dura
con me, perché non attacca».
Ma
Helena non aveva alcuna intenzione di tirarsi indietro, e seguitò a fissare
l’uomo con sguardo di sfida.
Alla
fine, tra lo stupore dei suoi allievi, fu lui il primo a desistere, almeno in
parte.
«Tre
e quaranta.»
«Due
e settanta.»
«Tre
e quindici.»
«Trecento.»
«Andata.
Ma saltate il pagamento anche solo di un’ora, e vi butto fuori a calci.»
«Ci
stiamo.»
«Aspetta
Helena.» obiettò Luna «Sono un sacco di soldi.»
«Ce
la faremo, Luna.» rispose la ragazzina guardandola negl’occhi ed accendendoli
con il suo spirito «Questa è l’occasione che abbiamo sempre cercato».
Alla
fine, Luna desistette, come al solito del resto.
Non
ce la faceva. Non riusciva proprio a non fidarsi della sua migliore amica.
Il
tutto si concluse con una stretta di mano.
«Vediamo
che sapete fare.»
«Come ho già detto, niente male
per una ragazzina.»
«Sapevamo che sarebbe stata
dura. Quello che non avevamo ancora capito, era quanto potesse davvero essere
dura.»
Boniek infilò
subito le due ragazze all’interno delle machina dell’arena virtuale.
Non
era la prima volta che Helena e Luna provavano materialmente l’esperienza del
chandra, ma quella sarebbe stata la prima volta in cui avrebbero avuto la
possibilità di dare vita al proprio vessel, il proprio alter ego virtuale che
da allora sarebbe diventato il loro inseparabile compagno di avventure.
Helena
sentì un moto come di orgoglio nel momento in cui, sedutasi, vide il portello
della capsula chiudersi sopra di lei, e gli schermi guida di assistenza per la
costruzione del vessel accendersi uno dopo l’altro tutto attorno ai suoi occhi.
Finalmente,
la sfida che lei e Luna si erano poste anni prima poteva essere intrapresa.
Una
machina degna di questo nome avrebbe avuto a disposizione una infinita
possibilità di scelta e scrittura, ma i rottami che Boniek e la sua palestra
potevano permettersi avevano una tavolozza creativa ridotta quasi all’osso, che
limitava di parecchio la libertà creativa.
Entrambe
fecero del loro meglio per creare qualcosa che si avvicinasse il più possibile
a quanto si erano sempre immaginate, e a lavoro finito i loro vessel comparvero
all’interno dell’arena, esposti al pubblico ludibrio.
Luna
aveva deciso, contrariamente alla maggior parte dell’uso comune, di dar vita ad
un avatar completamente diverso da lei; capelli bianchi lunghi, raccolti in una
fluente coda di cavallo e lasciati cadere dietro la nuca, un abito come da
chierica bianco e rosso, sandali ai piedi e, come arma, una lancia.
Helena
invece sembrava essersi fotocopiata, poiché, nei limiti imposti da
quell’obsoleto programma di creazione, aveva creato il proprio vessel ad
immagine e somiglianza di sé stessa. Come arma, aveva scelto una spada, una
sciabola non troppo lunga con una elaborata impugnatura destinata a proteggere
la mano, molto simile a quella che era diventata il marchio di fabbrica del
deposto campione Bastion.
Dal
momento che la machina era programmata per replicare fedelmente la stazza
fisica e la massa muscolare del chandrista facendone
l’ossatura del vessel, tanto Luna quanto Helena avevano dato vita a degli
avatar che ben testimoniavano tanto la giovane età quanto il fisico non
esattamente palestrato, cosa che inevitabilmente costituiva agli occhi degli
spettatori un ulteriore motivo di scherno.
«Aspettate
a ridere.» disse Boniek vedendo che nessuno dei suoi allievi riusciva a
trattenersi dal farlo «Il divertimento inizia ora».
Gli
fu sufficiente azionare un comando, e da un istante all’altro Helena e Luna
ebbero come l’impressione di venire letteralmente strattonate via dalle
poltrone cui erano assicurate, una sensazione alla quale avrebbero finito con
l’abituarsi molto presto.
Istintivamente
chiusero gli occhi, e quando li riaprirono erano all’interno del proprio vessel
al centro dell’arena.
Era
qualcosa di stranissimo, quasi inconcepibile.
Sapevano
bene che quello in cui si trovavano era un corpo fasullo, un ammasso di dati
digitali, eppure non sembrava avere nulla di diverso da uno fatto di carne e
muscoli; sentivano l’aria sul viso, la pelle carezzata dai vestiti, la terra
sotto i propri piedi.
Prodigi
di una tecnologia che era stata capace di fondere gli arcani segreti della
stregoneria con i più moderni ritrovati scientifici.
«Allora,
avete finito la passerella?» le richiamò Boniek azionando il cronometro «Non è
una sfilata di moda. Forza, dateci dentro. Avete dieci minuti per convincermi a
non sbattervi fuori».
Quella
prima prova di chandra propriamente detto fu, per usare un eufemismo, un
colossale disastro.
Helena
e Luna si resero conto quasi subito di essere come dei burattinai che
cercavano, senza riuscirci, di far muovere un pupazzo dall’interno. I loro
corpi erano legnosi, scoordinati, impossibili da controllare.
Tra
il momento in cui pensavano ad un’azione e quello in cui effettivamente la
compivano passavano anche diversi secondi, e il più delle volte questa non
riusciva neppure bene. Se cercavano di colpire ad un braccio finivano senza
volerlo per mirare alla spalla, se cercavano di camminare a destra si
spostavano invece a sinistra.
Era
come essere prigioniere di un corpo mosso da una volontà altrui.
«Ma
le conoscete le basi almeno?» domandò spazientito Boniek cercando di sovrastare
le risate dei presenti «Più sciolte! Non state a farvi le seghe mentali! Quello
che la mente pensa, il corpo esegue! Non è così difficile».
Invece,
era anche troppo difficile, almeno per chi un vessel non l’aveva neanche mai
comandato.
Il
principio infondo era lo stesso che regolava il movimento di un qualunque corpo
umano. Nel momento in cui un combattente formulava un pensiero questo veniva
interpretato dal computer, il quale lo convertiva nell’azione desiderata.
Tuttavia, per quanto la simulazione desse l’impressione che mente reale e corpo
digitale fossero virtualmente uniti all’interno dell’arena, si trattava pur
sempre di far muovere in sintonia due entità molto distinte, che comunicavano
tra loro solo tramite il computer.
A
meno di non possedere una mente reattiva, capace di reagire prontamente agli
stimoli provenienti dall’esterno, e con sufficiente esperienza da permettere
alla macchina di interpretare alla perfezione ogni singolo pensiero in modo
praticamente istantaneo, era un po’ come voler insegnare ad un neonato a
guidare.
Se
si perdeva troppo tempo a formulare un pensiero, o questo non era
sufficientemente nitido, il computer perdeva tempo ad analizzarlo, o altre
volte finiva per reinterpretarlo a modo suo, con risultati facilmente
prevedibili.
Tutto
ciò non toglieva che il dolore fosse molto reale.
Le
spade, le lance e qualunque altra arma passavano attraverso il corpo senza
provocare reali ferite, all’infuori di quelle ricreate dal computer per
esigenze sceniche, ma la sensazione di venire colpiti era incredibilmente
realistica, ed il suo effetto principale era di rendere il contatto tra la
mente e il vessel ancor più debole.
In
fin dei conti, era così che si vinceva. Spezzando il legame.
Boniek
era talmente deluso che non aspettò nemmeno lo scadere del cronometro, o che
una delle due prevalesse sull’altra; già dopo cinque minuti, sbuffando come un
getto di vapore scaraventò le due
ragazze fuori dalle machina con l’arresto di emergenza.
«Se
non fosse che ci rimetterei seicento kylis, vi darei
una caramella, un calcio nel didietro, e vi metterei fuori dalla porta.»
«Miglioreremo.»
si affrettò a dire ansimante Helena «Ci alleneremo con tutte le nostre forze. Noi
vogliamo diventare delle campionesse.»
«Se
i presupposti sono questi» replicò l’allenatore passandosi una mano sulla testa
pelata «Il massimo che potrete aspirare a vincere saranno le esibizioni
gratuite della domenica nei centri commerciali.»
«La
prego.» disse Helena quasi con le lacrime agli occhi, gettando via per la prima
volta quella sua aria spavalda e sicura di sé «Non la deluderemo più,
promesso».
Di
fronte a quell’espressione supplichevole, ma comunque ferma nelle proprie
posizioni, indipendentemente dalle difficoltà, Boniek intravide per la prima
volta quella determinazione propria di un vero chandrista,
restandone atterrito. Chissà, forse in quelle due ragazze, e nella irruente
castana dall’aria sbarazzina in particolare, aleggiava davvero lo spirito di
una coppia di potenziali campionesse.
Soffiando,
prese un fazzoletto dalla tasca, passandoselo sulla fronte sudata.
«Pare
proprio che qui dovremo cominciare dal principio».