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Autore: Emily Doe    22/05/2008    7 recensioni
“Tu non puoi smettere di guardarmi a quel modo?”
Tagliente, affilato, un antico dolore riportato alla luce con un gesto minimo, ma ben calibrato.
Lo guardò, portandosi una mano al viso, incerta.
“Quale modo?”
Lui fissava ancora le acque che, increspatesi in rare, piccole e calme onde, si infrangevano ai loro piedi, un fruscio tranquillizzante. La causa di quel lieve turbamento, la piovra gigante, si crogiolava pigra alla luce della luna.
“Come se avessi paura.”

Alla moglia ♥
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Draco Malfoy, Ginny Weasley, Harry Potter, Hermione Granger, Ron Weasley
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Disclaimer (e noticine varie atque inutili): Nell’assai improbabile caso qualcuno stesse sospettando il contrario, Harry Potter e tutti i personaggi qui citati non appartengono a me (a quest’ora sarei alle Bahamas con il mio stalker affezionato ed AnthonO bello al seguito, sempre pucciato nel cappuccino), bensì a colei che Word si ostina a correggere in Bowling, ma che è in realtà J.K. Rowling. Le canzoni citate sono rispettivamente opera di Fabrizio De André (“Ballata degli Impiccati” e “Il Testamento di Tito”), dei Depeche Mode (“Enjoy The Silence”) e dei Dream Theater (“Through Her Eyes”). Non scrivo questa storia a scopo di lucro (sarebbe impossibile lucrare con qualcosa di simile :lol: ), non si ritiene leso alcun copyright. (No comment sulla scelta delle canzoni, vi prego XD)
E no, non potete chiedermi danni morali :P
Ah, potrebbero esserci incongruenze con il settimo libro ^^ (con l’epilogo di sicuro XD)
Un grazie alle deliziose (?) vecchiette stile casa Vianello, che organizzano, con la complicità di Giordano, rave party e sabba che più rumorosi non potrebbero essere, fornendomi più di una volta una scusa per non studiare XD.




A mia moglia
perché chiamarla
Ilaria *sviene* è troppo strano,
perché ha tradotto
quella storia,
perché è la mia
unica stalker autorizzata,
perché mi maltratta, e, ma sì, anche perché maltratta solo me,
perché ha sempre voglia di cioccolato,
perché lei e Nick sono la mia controparte logica e matematica,
perché anche lei ha seri problemi con i termometri (e con gli accendini),
perché solo lei poteva essere la padrona di Luna,
perché attendiamo nuovi dodini (forza, mamma Doda!),
perché ‘era scritto nel sangue’,
perché le ho donato il bastone di Rafiki (o Silente? :lol:) ed è l’unica che se lo meriti davvero,
perché a volte mi fa un po’ paura,
perché riesce a farne solo a me (:lol:),
perché sa che
l’Umbèrto dovrebbe rimanere dove non lo derubano,
perché la sua enciclopedia riporta con estrema precisione il termine “Moglia”,
perché questa telepatia è preoccupante, ma :wubbuw:,
perché è
puccia inside,
perché in questa tanta gente sa che ci sono e si ricorda di nascondermi il Mantello,
perché, mi pare ovvio, i suoi occhiali non funzionano tanto bene,
perché sono gelosa e trancio a morsi le manine a chiunque le si avvicini troppo,
perché, stoica, mi sopporta da due anni e qualcosa - non so come - e spero riesca a farlo ancora molto a lungo,
perché morde, ma morde solo me dandomi dell’anomalia,
perché se non sono logorroica, non sono contenta (mi stai odiando, vero? :P)
e perché
sa cosa succede quando si starnutisce.
Perché non sa che persona importante e
speciale è, soprattutto per me.
Perché non so se tutte queste cose te le ho mai dette. In caso te le ripeto.
Tanti auguri, donna della mia vita.
E grazie ancora di tutto.
Questa
cosa poteva essere solamente per te, che sai.
Non è granché, tutt’altro, ma è tutto ciò che ho.
Ti tiro le guance.
E ti voglio troppo bene, razza di
scema. Ma davvero.







Soltanto un discorso sospeso


Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l’odore del sangue rappreso
ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso
sospeso

(Fabrizio De André, “Ballata degli Impiccati”)






“Non credo che sarò dei vostri.”
“Perché no?”
“Non…”
“Tu verrai. Perché? Perché lo dico io. Punto.”

L’espressione imbronciata di Ginny Weasley scomparve dal caminetto in un crepitio ed una fiammata più alta delle altre.
Soffocando una protesta morta ancor prima di nascere – conosceva fin troppo bene quale fosse la capacità di dialogo di Ginny in molte situazioni, sprofondò nella poltrona chiudendo gli occhi.
Perché no?
Per mille motivi più uno. Perché era molto impegnata con il lavoro, al momento, e di sicuro i rimanenti Mangiamorte ancora in circolazione – coloro che pensavo di poter costruire qualcosa simile al regime di terrore instaurato da Voldemort, conseguendo solamente scarsi risultati – non avrebbero colto l’occasione di una riunione ‘di classe’ a Hogwarts per correre da soli, esultanti, nelle celle che spettavano loro. Magari ricostruendo, nei momenti di pausa della loro folle e gioiosa corsa verso la reclusione a tempo indeterminato, ciò che avevano continuato a distruggere in quei tre anni. In secondo luogo la guerra aveva avvicinato molti di loro, ma una volta tornati alle rispettive vite di tutti i giorni c’era stata come una frattura; qualcosa con parecchi di loro si era incrinato fino a spezzarsi, forse perché ciò che volevano dimenticare, ciò sopra cui avrebbero voluto passare fingendo di non vederlo, era più forte di quel che avevano condiviso, in quei giorni. Più forte di qualsiasi principio, di qualsiasi dolore, di qualsiasi perdita.
Era squallido, eppure era così.
Tra i suoi ex compagni di scuola, aveva mantenuto contatti solo ed unicamente con Harry, Ron – e parenti –, Neville e Luna. Tra l’altro, non che con gli altri avesse avuto mai un rapporto così profondo da considerarli in un qualche modo amici nel vero senso della parola; più che altro, erano stati per anni semplici conoscenti, finché la guerra non li aveva legati con un cappio unico, stringendoli gli uni agli altri senza possibilità di scelta (non che ci fosse stato tempo per scelte simili), facendo patire loro le stesse ferite, gli stessi tagli, la stessa stretta logorante.
Quel ravvicinamento forzato era nato già incrinato, una crepa profonda, qualcosa di abissale, lo stesso dolore che avevano tutti condiviso, e poco alla volta – ma, da un altro punto di vista, con una rapidità notevole – la crepa si era allargata ed allungata, fino a comprometterne la stabilità, fino a farlo spezzare.
E nessuno di loro aveva avuto la voglia e la forza di raccoglierne i frammenti.
Nessuno, tranne Luna.
Luna Lovegood era stata l’unica a tentare di tener unito, almeno un minimo, il gruppetto che si era formato in quel periodo. All’inizio anche Neville aveva tentato di seguire le sue orme, per poi arrendersi all’evidenza dei fatti: un desiderio che non c’era non si sarebbe potuto recuperare in alcun modo. Eppure lei aveva insistito; Luna, nei suoi abiti spaiati e dai colori eccentrici, con la sua collana di tappi di bottiglia e l’evergreen dei suoi orecchini a forma di ravanello, aveva tentato con tutta se stessa di rimettere assieme le cose. Forse perché per un po’ si erano visti, tutti assieme, per svagarsi, distrarsi, passare un po’ di tempo in compagnia. Un gruppo un po’ strambo, decisamente poco omogeneo – la mente le corse spontanea a Lavanda Brown che, lamentandosi dello smalto scalfito, aveva preteso di partecipare ad una scampagnata con dei tacchi che avrebbero fatto impallidire qualsiasi equilibrista -, ma con semplicità. Forse perché aveva ritenuto che sopra certe cose non sarebbero mai potuti passare facendo finta di nulla, perché tra loro era rimasto, come invisibile, ma sempre presente, un legame forse meno forte, ma non per questo di minor valenza morale o emotiva. Forse perché era davvero strana e non aveva capito cosa li aveva bloccati e fatti retrocedere fino allo stadio di quasi completi estranei.
Forse perché non aveva voluto capirlo.
Forse per quell’affresco sul soffitto della sua cameretta di ragazza.

Hermione riaprì gli occhi e sollevò nuovamente il foglio di pergamena, accuratamente piegato in quattro, un po’ bruciacchiato e con assurde illustrazioni di altrettanto assurdi esseri, probabilmente esistenti solo nella fervida immaginazione di Luna – ché lei sui suoi libri non li aveva mai visti, decisamente. Con aria assente passò due dita sulla superficie liscia.
Forse l’aver chiuso i ponti con tutti non era stata poi una buona cosa, più per quella sensazione di rancore mai sopita che ognuno di loro si portava dietro, rovente fardello che nessuno avrebbe mai voluto rivedere portato in superficie e che, inevitabilmente, tornava a scottare come non mai quando ci si trovava con chi poteva comprenderlo davvero. Quasi una risposta ad una natura simile.
Forse prendere quel che c’era stato ed incanalarlo in quell’unica via, rifiutandosi di scorgerne altre, era stato semplicemente troppo facile.
E neppure tanto giusto nei confronti di loro stessi e di ciò che avevano condiviso.
Rimise a fuoco la vista, nel frattempo persa nella contemplazione di qualcosa che di fisico aveva solo uno stretto dolore al petto.
Un sorriso nostalgico le nacque sulle labbra alla vista della sinuosa, enorme e vezzosa – ogni puntino di ogni singola ‘i’ era sostituito da un ravanello stilizzato – scrittura di Luna.

Cara Hermione, prima di metterti all’erta nei confronti degli Spruzzolotti – immagino che avrai letto sul Cavillo il nuovo articolo, vero? -, temibili veicoli di contagio della Spruzzolosi, devo dirti che…
… sei invitata ad una riunione di vecchi compagni a Hogwarts!

(seguiva una serie infinita di punti esclamativi, corredati anch’essi del loro bravo ravanello)
Ho tentato di contattare anche Ron, tra gli altri, ma ogni volta mi tornava indietro il messaggio con frasi come “Non ti conosco, non conosco nessun Ronald” o “Hai sbagliato destinatario, ti prego di non contattarmi mai più”, anche quando a darmi il suo indirizzo era stata proprio Ginny (allora mi è giunta questa strana risposta: “Io ODIO i ravanelli!”)… anche soprassedendo sul suo ingiustificato ed alquanto particolare odio per i ravanelli, non capisco proprio… puoi contattarlo tu per me? Grazie, ci conto!
(qui seguiva, invece, la sua arringa contro gli Spruzzolotti)
Mi raccomando, vi aspetto tutti quanti!
Luna(tica)


Osservando il luogo, la data e l’ora, inspirò a fondo. Infine si alzò, impugnò la bacchetta e dopo aver trafficato brevemente con il fuoco nel camino, si Smaterializzò.

***

Vows are spoken
to be broken


Ron sonnecchiava beatamente sul divano, riviste sparse ovunque in terra, qualche bottiglia di Firewhisky e vestiti drappeggiati con originalità ed una discreta fantasia sui mobili circostanti. Decisamente non si aspettava una visita, soprattutto visto e considerato il sonoro russare che riempiva prepotentemente il piccolo stabile.
Quando improvvisamente apparve la testa di una ragazza tra le fiamme del camino, quindi, quasi non rischiò di soffocarsi in un singhiozzo scaturito dalla sorpresa e dal sonno interrotto senza alcun preavviso.
“Ron, sto arrivando.”
La testa scomparve, così com’era apparsa, proprio mentre Ron ruzzolava giù dal divano strabuzzando gli occhi, in un accesso di tosse.
“C-cosa?”
Panico. Panico totale.
Una ragazza non bene identificata stava per piombare a casa sua in una situazione decisamente poco adatta. Per quanto veloci fossero potuti essere i collegamenti tra le sue sinapsi – e non lo erano particolarmente, ad onor del vero -, non sarebbe mai riuscito a fare di più che balzare in piedi, darsi una veloce grattatina perplessa alla testa ed osservare con un’espressione a metà tra l’orrore ed un’aspettativa un po’ delusa la ragazza che gli apparve a fianco qualche istante dopo.
Hermione osservò la bocca ancora aperta del ragazzo, poi le riviste e le bottiglie che campeggiavano impudentemente qui e lì.
“Ciao, Ron.” Sospirò.
“Oh, sei tu.”
L’abitudine.
All’inarcarsi del sopracciglio della sua interlocutrice, Ron tentò repentinamente – e senza grandi risultati – di riparare al suo errore.
“Cioè, ecco, volevo dire…”
Hermione scosse il capo piano, con espressione rassegnata, ed agitò la bacchetta in un gesto esperto e misurato.
“Lascia stare, Ron,” Aggiunse guardandosi attorno mentre le bottiglie evanescevano e le riviste – non voleva assolutamente sapere di che genere – volavano a riporsi diligentemente, in due pile, su di un tavolo poco distante. “sappiamo entrambi di cosa si tratta e non credo tu voglia riparlarne.”
I vestiti, fino a poco prima originali oggetti d’arredamento, filarono dritti, senza alcuna indecisione, nel cesto dei panni da lavare.
Una parentesi di silenzio li incluse entrambi, un silenzio fatto di tante frasi, espressioni, emozioni. E di tante cose affrontate, ma non ancora superate del tutto. Senza più quel dolore acceso, vivo, quasi corrosivo, ma con una sensazione di disagio, una sensazione abbastanza simile ad un pizzico – niente di più, niente di meno – all’altezza del cuore. Un qualcosa lasciato in sospeso, quella parentesi mai chiusa seriamente.
Che la loro storia fosse finita male non era vero. Che fosse finita, però, sì.
Nessuna storia finisce bene o nel migliore dei modi e quando entrambi, dopo tre anni di alti e bassi, si erano ritrovati, stremati, sfibrati, a dover affrontare il nodo alla base del loro rapporto, era stato chiaro ad ambedue che non esisteva alcun nodo. Forse era stato proprio quello, il vero problema: non c’era mai stato un nodo effettivo tra loro – se non un qualcosa che andava oltre l’affetto di due amici, in età adolescenziale -, si conoscevano troppo bene, ormai.
Fu triste per entrambi, ammisero, scoprire che quel cambiamento non dipendeva da alcuno ostacolo, da alcuno schermo sorto tra loro, come capita a volte tra le parti di una coppia.
Fu ancor più triste constatare come questa scoperta non fosse accompagnata da alcuna sofferenza schiacciante – e dire che una volta sembrava che qualsiasi cosa li avesse divisi, avrebbe anche finito per ucciderli. La distanza, un distacco anche minimo, all’epoca era un dolore agrodolce, in grado di uccidere lentamente.
Ciò che rimaneva era soltanto il dispiacere per qualcosa di bello e di importante ormai giunto al termine.
Lei ricordava con esattezza l’improvvisa sensazione di vuoto, un colpo sordo al petto, a quella scoperta.
Osservò Ron abbassare lo sguardo, ancora confuso, ancora a disagio. Lo studiò grattarsi la punta del naso con una strana ma quasi confortante sensazione di tenerezza.
“Perché io non voglio. Non ero qui per questo, infatti.” Si sforzò di esibire un sorriso spontaneo, eppure qualcosa, in lei, ancora tirava. “Preparo un po’ di the mentre tu vai a rinfrescarti?”
Lui la osservò brevemente, le orecchie vagamente colorite, e sorrise appena.
Lo stesso sorriso di ragazzino che aveva osservato così a lungo, ai tempi della scuola, da poterlo ricordare meglio ad occhi chiusi che ritrovandoselo di fronte, vivo e concreto. Allungando una mano fino a lui, fino a sfiorarlo.

Feelings are intense
words are trivial


“Sì. Grazie, ‘Mione.”
Reprimendo la sensazione di vuoto che tornava a farsi sentire – inevitabile, aveva riversato su di lui ed in lui tutto ciò che mai nessun altro aveva potuto assaggiare, di lei -, si mise ad armeggiare con i fornelli ed un tegamino.
Osservare bollire l’acqua ed occupare i vuoti di pensiero – o i momenti che di pensieri erano fin troppo colmi – con una manualità spicciola, banale, Babbana, le era sempre stato d’aiuto, fin da quando, da piccola, aiutava la mamma a sistemare in tavola.
Il disagio stava assopendosi, pian piano sarebbe scomparso, le dicevano tutti, Hermione non poteva far altro che domandarsi ancora una volta Quando?.
Una parentesi mai chiusa per la tristezza di una fine definitiva, la fine di quello che li aveva accompagnati, sostenuti fisicamente e moralmente – le sue labbra sulle proprie, le sue mani, il suo abbraccio stretto, impetuoso, tipico di Ronald, quando si lasciava andare un minimo, il suo odore – per tutto quel tempo. In tutte quelle occasioni.
Soprappensiero, venne richiamata alla realtà effettiva dalla figura familiare della mano di Ron, grande, che andava a spegnere il gas e divideva l’acqua, ormai bollita più che a sufficienza, in due tazze dai colori pastello che le aveva regalato lei stessa, due anni prima, per inaugurare la cucina Babbana della sua nuova casa che tanto li aveva fatti ridere. L’immagine di lui che balzava indietro, ruggendo come un leone ferito, di fronte alla fiammella che era apparsa senza alcun preavviso, lì davanti a lui, ustionandogli un dito e senza ausilio di alcuna bacchetta, era viva in lei. E quella di Harry, che tentava di mostrarsi solidale con l’amico reprimendo la ridarella, e di Ginny, radiosa di una guerra finita da appena un anno e della felicità che aveva riconquistato con le unghie e con i denti, che scansava il fratello con uno schiaffetto affettuoso, mostrandogli come usare quello strano aggeggio infernale. Che poi, la prima volta che l’aveva usato, Ron avesse lasciato il gas acceso e si fosse placidamente addormentato finché una Hermione disperata non l’aveva svegliato in lacrime, nel pieno di una nevicata invernale, con tutte le finestre spalancate, beh… lui tendeva a considerarlo un dettaglio superfluo. (Tuttavia, da allora nessuno si era più fidato di lasciar Ron, da solo, alle prese con i fornelli).
Le stesse tazze che avevano stretto tra le mani fredde di una corsa improvvisata sotto la neve, tra le risate e la spensieratezza – forse solo apparente – di giovani che tentano con tutti se stessi di dimenticare, di fronte al fuoco confortante e rassicurante, loro due soli, tante di quelle sere che, anche volendo, non avrebbe potuto contarle.
Si voltò per vederlo sorridere chiaramente indeciso.
“Erano cinque minuti buoni che osservavi l’acqua bollire, ancora un po’ e sarebbe evaporata del tutto.” Addusse, quasi a scusarsi per l’intromissione nel corso dei suoi pensieri.
Hermione sorrise, questa volta senza pensare a nulla in particolare.
“Sì, hai ragione.” Immerse un filtro di Earl Grey Tea in ciascuna delle due tazze. “Pensavo ad altro.”
Puntellandosi con entrambe le mani sul ripiano in legno della cucina, osservò distrattamente fuori dalla finestra. Il tiepido sole estivo illuminava di sfumature tenui l’albero del giardino; sui rami più alti, come avevano constatato qualche settimana prima, un merlo aveva edificato con impegno e tenacia il suo piccolo rifugio, e sembrava che le uova dalla bizzarra pigmentazione – chi mai avrebbe pensato che le uova di merlo fossero turchine? – si fossero ormai schiuse, a giudicare dal viavai nervoso di quella che, evidentemente, era una merla, e dal suo atteggiamento più sospettoso e guardingo del solito.
Ron seguì la traiettoria del suo sguardo; annuì senza neppure rendersene conto.
“Sono nati da qualche giorno e no, non sono turchini come avevamo sospettato.” Il suo sguardo si addolcì vedendo Hermione soffocare una risatina con il dorso della mano. “Ogni mattina lei,” Indicò con un cenno del capo la neo mamma. “mi sveglia di buon’ora facendo un baccano incredibile.”
“Come mai?”
Ron rise brevemente, la voce profonda si irradiò con leggerezza dalla sua persona.
“Il mio vicino – Babbano, per altro, non saprei spiegarmi altrimenti per quale motivo qualcuno abbia voglia di fare una corsa tutte le mattine alle cinque… questi Babbani sono proprio strani – ha deciso che, per mantenersi giovane, ogni mattina deve assolutamente andare a fare jogging con il suo cane.” La voce si abbassò appena, ormai sciolta, come se tra loro non ci fosse mai stato alcun momento di disagio, mentre toglieva i due filtri dalle tazze. “Zucchero?” Hermione annuì e fece cenno di aggiungere un cucchiaino di zucchero alla sua tazza. “Peccato che lui abbia settant’anni suonati e che il suo cane sia… beh… un po’ strano. Ogni volta che passa sotto quell’albero, ulula senza sosta – credo abbia adocchiato gli uccellini appena nati. Tra l’altro, quando ho provato ad accarezzarla – sì, è femmina -, m’ha ringhiato ed ha fatto per mordermi il naso!” Aggiunse, divertito nella sua stessa indignazione. Porgendo la tazza alla ragazza, le loro dita si sfiorarono. Eppure non ci fu alcun momento di imbarazzo.
Come se le parole avessero riempito ogni fessura. Certo, il vento avrebbe ricominciato a soffiare in quelle piccole aperture, fastidioso, ma, un passo alla volta, forse…
“E la mamma fa tutto quel rumore per proteggere i piccoli?” Chiese lei, prendendo un sorso di the.
Ron sorrise, l’espressione addolcita.
“Sì. Fa quel che può per proteggere ciò che ama.”
Hermione sorrise a sua volta, la sensazione di quel vuoto attutita.
“Hermione”
“Sì”
Un’affermazione, non un’esortazione ad andare avanti a tutti i costi. Una pura constatazione.
“Non volevo che pensassi che non… che per me non… ” Una pausa sinceramente sentita, la voce bassa ed esitante. “… mi è dispiaciuto. Mi è dispiaciuto da morire. Tu sei stata tutto, per me.”
Un’incrinatura, in lui, si proiettava dolorosa nella sua voce.
“Sì.”
Gli occhi le si inumidirono un po’.
“Lo so, Ron.” Lo prese sottobraccio e si appoggiò a lui in un gesto d’affetto. “Lo so.”

Pleasures remain
so does the pain
words are meaningless
and forgettable

(Depeche Mode, “Enjoy The Silence”)

***

La felpa era in terra, la gonna anche. Le sue mani scorrevano rapide, roventi sulla pelle liscia, accarezzando la schiena e le spalle; sostavano appena alla base della colonna vertebrale per tornare su, bisognose, a liberarla di ciò che ancora li separava – inutili e maledetti millimetri di stoffa.
“Ehi,” Interruppe il bacio con un mezzo sorriso sulle labbra. “ehi, piano!”
Lui imprecò coloritamente contro quel maledetto aggeggio – non l’aveva mai sopportato, sbuffando frustrato quando lei soffocò una risatina.
“Lascia, faccio io…”
Liberatasi del maledetto aggeggio, sollevò lo sguardo verso di lui, che la sfiorò appena, lentamente.
Da sotto le ciglia scure, vellutate, quegli occhi che conosceva bene. Caldi, emozionanti, emozionati, vivi.
Il suo fu solo un sussurro spezzato.

Words like violence
break the silence
come crashing in
into my little world


“È passato così tanto tempo.”
Si bloccò, immobile rimase ad osservarla negli occhi, sul viso un’espressione rapita, sembrava quasi sperduto. Contemplando ogni centimetro, ogni millimetro, ogni ombra di lei; non voleva perdere neppure la minima particolarità, pur conoscendole tutte a memoria, non voleva più perdere niente, di lei ed in lei. Non il sapore della sua pelle, non il profumo dei suoi capelli, non le piccole, perfette imperfezioni, né il piacere nei suoi occhi, l’emozione profonda che vibrava in lei e che si trasmetteva, come sempre, a lui; una scossa avvolgente e la necessità, il bisogno di averla sua, completamente ed infinitamente sua. Come se senza lei non fosse del tutto vivo.
Come se lei e soltanto lei fosse l’unica cosa realmente vera al mondo.
Ciò che, probabilmente, era sempre stata.
Era tutto così reale, vivo, palpabile – un battito roco, profondo, una pulsazione che si irradia con dolce prepotenza, abbattendo qualsiasi ostacolo in lui, voluto o meno, inarrestabile - quando lei sollevò una mano, con dolcezza gli accarezzò il viso, percorrendo con tenerezza indicibile, in quel lunghissimo istante in cui tutto il mondo pareva essersi fermato, la gota, la mandibola, per posarsi piano, lieve, sul collo.
“Lo so.”
“No, tu non sai cosa voglia dire stare senza di te.” Percorse con l’indice la curva di un suo sopracciglio. “Tu non hai la minima idea di quello che significhi vivere senza te. È una vita non vita. Mi sembrava sempre di essere come sospeso in una dimensione differente, astratto dalla vita reale di tutti i giorni, come se una bolla trasparente mi avesse inglobato e non mi volesse più lasciar andare.” Il dito scivolò sulle labbra di lei, soffermandosi, sfiorando il suo respiro quasi impercettibile. “Non riuscivo più a sentirmi parte di qualcosa, neppure – e di questo mi maledico – completamente parte della mia missione. Senza te, non sapevo più raggiungere il mondo ed il mondo non sapeva raggiungere me. Forse non volevo neppure raggiungere o essere raggiunto.”
“Io…”
“Tu sei parte di me, da sempre. E non una parte qualsiasi, quella fondamentale. Io devo averti vicina fisicamente ed emotivamente, voglio vivere ogni secondo sapendo che potrò incrociare il tuo sguardo, sentire il tuo profumo e baciarti e fare l’amore con te. Perché tu…” La voce si abbassò improvvisamente, lui parve rimasto senza parole. Sul suo viso un amore così forte da costringere quasi a distogliere lo sguardo con il respiro morto all’altezza del petto, ogni battito più sordo e più assordante, il sangue che correva, quasi bruciante, per tutto il corpo, pulsando con violenza. “Tu sei il mio unico collegamento con la vita. Quella vera.”
Lei chiuse gli occhi umidi, lentamente, un sorriso di amore e sofferenza; quando li riaprì quell’emozione profonda era sempre lì e lui avvertì, ancora – ed ancora ed ancora, con lei -, quel brivido e la sensazione di completezza. Il doloroso piacere che lei e lei sola sapeva offrirgli.

Painful to me
pierce right through me


“Se tu credi che io non sappia di cosa stia parlando,” Una lacrima scivolava lentamente giù, verso il collo. “sei un idiota.” Lo baciò. “E se credi che per me resistere sia stato qualcosa di anche solo infinitamente inferiore, sei due, tre, infinite volte idiota.”
L’averlo a così ridicola distanza, dopo tutto il tempo passato lontani, era una sofferenza sottile e tagliente, permeata ad ogni modo di un esile strato di piacere. Un piacere acuto, già rodato, nel preludio di ciò che stava per accadere; un piacere greve, stordente, simile all’alone di dolore – un po’ vago, un po’ indefinito – di una ferita non del tutto rimarginata.
Una ferita che aveva molteplici aspetti, che aveva il ricordo troppo nitido di un fratello perduto per sempre e del sapore dolciastro del sangue, aveva il sapore dell’innocenza perduta e del ricordo di chi non potrà tornare, aveva l’odore del cielo di novembre e della neve ed il calore delle notti passate insieme, corpo contro corpo, pelle contro pelle, cuore contro cuore, a stringersi in un unico battito, serrando i denti e dicendosi che, sì, sarebbe tutto passato. Prima o poi.
Ferita odiata ed amata, amata ed odiata; semplicemente troppo parte di lei per essere odiata al punto da estirparla completamente; troppo parte di quella lei che avrebbe voluto dimenticare – la voce di Fred che si alzava gaia il mattino di Natale, facendo levitare le frittelle che la mamma stava cucinando; l’odore del suo maglione contro cui si appisolava da piccina; lo sguardo per sempre diverso di George, il suo sorriso spento; la sensazione di vita, vita assoluta che i gemelli le avevano sempre trasmesso e verso cui ora non riusciva più a voltarsi, ben conscia di poter trovare solo un qualcosa di troppo doloroso, troppo deturpato, troppo deteriorato da essere guardato e sentito senza riaprire in profondità quel taglio che era una voragine – per essere considerata qualcosa con cui avrebbe sempre potuto convivere.
In tutto quello, nel complesso miscuglio di dolore e piacere e doloroso piacere, c’era sempre stato lui. Punto fisso e perno di una vertigine troppo forte, troppo violenta perché lei potesse sostenerla – e sostenersi – unicamente con le proprie forze; troppo orgogliosa per chiedere aiuto a qualcuno, troppo spaventata per lasciarsi andare.
Senza alcuna parola, senza mai alcuna richiesta, lui le aveva sempre teso la mano. Ed era bastata la sua stretta a mantenerla sulle proprie gambe. Vacillante, sì, ma con la certezza che no, non sarebbe caduta. Non ora. Non in quel momento. Non con lui accanto.
“Quando ho creduto che sarei morta per il dolore,” Bisbigliò scostandogli una ciocca ribelle dalla fronte. “ho scoperto che il mio istinto di auto conservazione era ancora più forte. Assurdo. Trascinandomi giorno dopo giorno, ho creduto di essere finita dritta all’Inferno, scoprendo nuove soglie di dolore che non avrei ritenuto possibili. E quando ho creduto che tutto sarebbe andato peggiorando sempre più, tu sei tornato ancora una volta.”
La osservò sorridere tra le lacrime e strinse a sé quel corpo piccolo e caldo, scosso appena da qualche singhiozzo trattenuto.
“E se è stato quando ho ritrovato la tua mano, Harry, che ho creduto di poter risalire almeno un poco, non puoi dirmi che non posso sapere.”
Un respiro profondo, brusco; il suo odore.
“È passato troppo tempo… ”

All I ever wanted
all I ever needed
is here, in my arms


La sua mano che, sulla spalla, lo allontanava di uno spazio infinitesimale, lo costrinse a guardarla di nuovo. Gli occhi rossi, le guance umide, le labbra tremanti, un pallore un po’ troppo ostentato sul viso e delle ombre un po’ troppo scure sotto le ciglia.
“Questa volta resterai?”
“Resterò.”
“Sempre?”
Era semplicemente meravigliosa.
“Sempre.”
Lo attrasse a sé con tenera irruenza.

Enjoy the silence

(Depeche Mode, “Enjoy The Silence”)

***

Seduti l’uno accanto all’altra in un silenzio questa volta confortevole, forse ancora un po’ strano, ma che aveva la consistenza indistinta ed il sapore e l’odore indefinito di un qualcosa che va mano a mano prendendo forma; gli unici rumori udibili erano il ticchettio dell’orologio Babbano di Hermione – a cui non sapeva rinunciare, retaggio, probabilmente, della sua infanzia – ed il pigolare soffocato dei giovani merli in giardino, probabilmente in attesa del ritorno della mamma. Ron si guardò attorno, teso, si strofinò i palmi delle mani sui jeans, si voltò ad osservare Hermione che, implacabile, fissava il vuoto davanti a sé con un’aria apparentemente rilassata. Nonostante le gambe accavallate con noncuranza e le mani docilmente – con una comodità che solo l’assenza di tensione credeva avrebbe potuto dettare. Evidentemente sbagliava. – poggiate in grembo, la conosceva fin troppo bene e fin troppo in profondità per non notare le spalle appena un po’ innaturalmente tese, i muscoli del collo tirarsi quasi impercettibilmente ad ogni respiro. Respiro un po’ più profondo del necessario, un improvviso flash di una Hermione quindicenne in preda all’ansia ‘pre interrogazioni’, capace di mostrarsi perfettamente padrona di sé in ogni situazione. O quasi.
Distese inconsciamente le labbra in un sorriso nostalgico.
“Come fai a mostrarti così calma?”
Lei voltò di pochissimo il capo, guardandolo da sotto le lunghe ciglia scure con un’espressione divertita e pungente.
Incredibile come certe cose non cambino mai.
“Dubito che camminare per la stanza per venti minuti ed infine passare la successiva mezz’ora a cambiare posizione sul divano possa essere di grande aiuto, Ron.” Inarcò le sopracciglia. “O forse per te lo è stato?”
Ron si lasciò scivolare all’indietro, sprofondando nei cuscini.
“Sono in ritardo.”
“Si sono appena incontrati dopo un anno intero, lasciali chiarire con calma.”
Il suo tono di voce era calato di poco, permeandosi di un senso di orgogliosa dolcezza.
“Credi che…”
“Credo di sì.”
“Oh.”
Hermione diede una veloce occhiata all’orologio.
“Quell’aggeggio Babbano è snervante, lo sai?”
“Ron, sei per caso allergico ai ravanelli?”
La domanda gli scivolò addosso così inaspettata ed insensata che dovette prendere il tempo per battere una, due, anche tre volte le palpebre, prima di elargire una qualsiasi risposta.
“No… non che io sappia.”
Hermione, che aveva assunto un’espressione incuriosita ed un po’ vaga, sorrise.
“Buono a sapersi.”
Il ragazzo non fece in tempo a chiedere delucidazioni di alcun genere, che la stanza si illuminò di una fiammata dalla luce verdastra e nel camino apparvero due persone.
Era passato un intero anno dall’ultima volta in cui entrambi avevano visto fisicamente Harry Potter. Dodici mesi trascorsi nell’incertezza, nel chiedersi se l’avrebbero rivisto ancora tutto intero, nell’accontentarsi, o meglio, nel doversi accontentare della alquanto poco rassicurante visione della sua testa galleggiante in un caminetto – cosa che, forse, avrebbe saputo apprezzare maggiormente Nick-Quasi-Senza-Testa. Dodici mesi sembrati un’eternità, se si considera come Harry avesse preso, circa sei mesi prima, la notizia dell’ultimo sviluppo della storia dei suoi due migliori amici. Strano che fosse, Harry li adorava semplicemente con tutto il cuore. Che li adorasse come persone era ovvio e risaputo, che li avrebbe adorati così tanto assieme, beh, nessuno l’avrebbe mai sospettato. C’era stato, anzi, qualcuno che aveva malignamente ipotizzato una possibile gelosia del Ragazzo Sopravvissuto nei confronti di coloro che era abituato a considerare la sua famiglia. Invece no. Harry era stato non felice, non al settimo cielo, no, di più, ancora di più, quando, finita la guerra – o meglio, finita la prima parte della guerra, quella più aggressiva e prepotente; quella subdola e sfibrante sarebbe iniziata di lì a poco -, i due gli avevano comunicato, tra imbarazzi vari, che la loro situazione non era un qualcosa di passeggero, tutt’altro.
Come se lui avesse mai potuto sospettare qualcosa di simile, peraltro. Chiunque avesse frequentato Hogwarts nei loro stessi anni avrebbe saputo dire che Ron Weasley e Hermione Granger si stavano rincorrendo da tempo immemore, da sempre, come folli. Era tutto così ovvio, così scontato agli occhi di tutti e, di conseguenza, così inconcepibile per quelli dei diretti interessati, velati di mille ansie e paure, di angosce che nascevano da una situazione non ben definita e dalla snervante attesa che aveva sempre pesato su di loro. E tra loro.
Harry Potter aveva trovato una prima gioia nel vederli insieme e felici, il che non era poi così incomprensibile se si considera come, fin da piccolissimo, si fosse sempre incolpato delle sofferenze di chi gli era vicino, dei pericoli che li ‘costringeva’ a sopportare, di tutto quel complesso insieme di situazioni, fraintendimenti, nervosismi e rispostacce che derivavano dall’essere non amici, ma i Migliori Amici del Bambino Sopravvissuto. Il saperli felici, soprattutto assieme, era qualcosa che lo rassicurava profondamente; il conoscerli non bene, ma così bene lo faceva sentire un po’ più stabile. La gioia che aveva provato era rimasta e si era permeata di un senso di stabilità. Il vederli, il sentirli assieme, felici, innamorati e sempre lì, come una volta, insieme come (o quasi) ai tempi della scuola e delle gite a Hogsmeade, delle scorrerie sotto il Mantello dell’Invisibilità e dei compiti copiati allungando il collo in maniera inverosimile, lo faceva sentire a casa.
Erano stati il suo primo punto fermo, dopo la guerra come al suo ingresso nel mondo dei maghi, la sua prima vera stabilità nell’oscuro periodo che aveva seguito la sconfitta di Voldemort e che aveva causato ancora tanta, tanta sofferenza. Stabilità che in sé non era riuscito a trovare.
Il secondo e più personale punto fermo era sempre stato un qualcosa di estremamente tormentato. Aveva un paio d’occhi caldi e castani, i capelli di un rosso acceso ed una manciata di lentiggini sparse sul viso delicato e perfetto. E rispondeva al nome di Ginny Weasley.
Ginny era sempre stata il suo punto debole ed il suo punto di partenza. Il punto di ritorno. Da sempre, da quando aveva capito ed anche da quando ancora non credeva fosse possibile, Ginny Weasley era stata in lui una costante. E, come tale, sempre presente.
Una relazione con Harry Potter non è già di per sé facile, se ci si aggiungono i suoi mille timori di cacciare le persone amate nei guai, diviene quasi impossibile. Eppure lei era riuscita ad abbattere tutte le barriere e non lentamente, una ad una, ma tutte d’un colpo. Lui aveva tentato di riesumarne i corpi così come aveva potuto, tirando su non una barriera, ma una palizzata instabile e pericolante che, tuttavia, gli aveva permesso di allontanarla perlomeno nel periodo cruciale della guerra. Dopodiché, era semplicemente crollata a terra, producendo un unico rumore secco.
La potenza e la violenza che poteva Ginevra Weasley in lui, era semplicemente incontrastabile.
Erano stati insieme per due anni, e chiunque avesse conosciuto Harry Potter, avrebbe potuto dire che furono i due anni migliori della sua vita, fino ad allora. Poi però, tutto d’un tratto, si ebbe notizia del fiorire potente e preoccupante di una cerchia di ex Mangiamorte – ma che continuavano a chiamarsi ed a farsi chiamare come tali – in un paese così lontano che solo il nominarlo faceva paura. Harry, come era prevedibile, non si era mai perdonato – come se avesse dovuto perdonarlo a se stesso – il numero incalcolabile di morti che la prima fase della guerra si era lasciata dietro e, soprattutto, non si era mai perdonato le persone a lui care scomparse in quel periodo. Sirius, Silente, Remus, Tonks, Dobby, Moody… liste di nomi interminabili, in cui ne risaltava sempre uno: Fred Weasley.
La famiglia Weasley al completo l’aveva sempre accolto a braccia aperte, quand’era stato un ragazzino sperduto nei suoi vestiti troppo larghi, un frugoletto affamato più di un affetto mai conosciuto che di altro, loro c’erano sempre stati. Come una vera famiglia, come se lui fosse stato realmente uno di loro. “È come se fosse mio figlio” , l’aveva sentito dire più di una volta a Molly, sapeva che significava essere quasi soffocati dalla morsa del suo materno abbraccio, conosceva i piccoli vizi Babbani di Arthur così come le particolarità di ogni loro figlio. Su questa base di sicurezza, lui aveva trovato effettiva stabilità e felicità con ed in Ginny. Dopodiché aveva portato via per sempre uno dei loro amatissimi figli.
Inutile qualsiasi tentativo – e dire che di tentativi ne avevano fatti a dismisura – di fargli capire che no, lui non c’entrava nulla, che non doveva incolparsene, che Fred avrebbe comunque deciso di combattere, di unirsi all’Ordine nella battaglia finale, che…
Per lui la verità di fondo era sempre stata una sola.
È stata colpa mia.
Di conseguenza, alla notizia dell’improvviso accrescersi di quel manipolo di Mangiamorte, non aveva potuto esimersi dal recarsi lì di persona, nonostante le suppliche di tutti, nessuno escluso. Lì la situazione si era rivelata più complicata del previsto ed aveva richiesto una sua permanenza della durata di un intero anno, al termine del quale aveva, sì, sgominato la banda di recidivi spedendoli uno dopo l’altro in carceri di massima sicurezza, appoggiando alcuni valenti membri dell’Ordine, ma anche perso quella stabilità.
Prima Ginny. La sua Ginny. Lontana, lontana, il terrore di tornare indietro anche solo per abbracciarla, per ricordarle che l’amava o per dirle semplicemente ‘ciao’, la devastante paura che potessero seguirlo e prendersela ancora con le persone a lui care… Inutile negare che aveva sofferto. E non poco, specialmente visto il carattere testardo ed ostinato della ragazza, che solo dopo molte insistenze aveva convinto a rimanere in Inghilterra.
Fatto sta che la lontananza li aveva lentamente sfibrati, una forza che lavora nell’ombra: più tenti di ignorarla, più ti succhia via la vita, senza alcun rispetto per te e per i tuoi sentimenti.
Si era ridotto all’ombra di se stesso, non riuscendo più a trovare un reale scopo in nessuna cosa, ideale o persona che fosse. E non se la passava meglio sapendo che, per Ginny, le cose non stavano certamente andando in una direzione più facile.
In quel momento, precisa e puntuale come tutto ciò che di più scomodo può arrivare in una situazione già compromessa, incrinata, era arrivata la notizia di Ron e Hermione. E del disagio che si era insinuato, inevitabile, tra i due.
Quel suo unico altro punto fisso si era dissolto come fumo in una notte invernale, aveva perpetuato la propria esistenza giusto il tempo di essere osservato fugacemente, dopodiché era svanito nel nulla.
Tutti loro l’avevano chiaramente percepito, avevano sentito il sinistro cigolio di una porta che si chiude, l’avevano visto allontanarsi sempre più, spaventato e confuso, non riuscendo a scovare altro che potesse farlo sentire ancora Harry, ancora vivo. La rabbia infantile, conseguenza di una delusione e di un dolore che affondavano fin troppo a fondo in qualcosa per nulla dissimile dall’insicurezza, l’aveva fatto retrocedere. Uno, due, tre passi. Sapeva che si stava comportando come uno stupido ragazzino, ma la necessità di staccare e la paura di non trovare più il suo mondo, così com’era, aveva prevalso. Avevano cominciato a sentirsi meno ed ogni volta tra loro qualcosa di teso vibrava in maniera pericolosa, quasi provocando un sordo ronzio.
Hermione sollevò lo sguardo dal viso raggiante di Ginny – una morsa dolorosa all’altezza dello stomaco, la felicità e la gioia candida ed altruistica macchiata da una disgustosa sensazione di mancanza, una subdola ombra di invidia – a quello emaciato di Harry. Ron aprì la bocca per dire qualcosa, un saluto rimasto in sospeso.
Harry li guardò, prima l’una, poi l’altro. In modo differente, ma pur sempre loro.
Le parole non dette e le emozioni non capite, tutto ciò che tra loro non era stato esplicitato in passato, tutto quel che non era stato affrontato e da cui erano fuggiti pendeva come cristalli sottili, taglienti e fragili, nella ragnatela dei loro pensieri, nello spazio tra loro.

Words are very unnecessary
they can only do harm


Sospeso, in sordina, immobile da troppo tempo.
Espirò lievemente, buttando fuori tutto ciò che di indefinito c’era ancora tra loro; si passò una mano sulla nuca. E sorrise.
“Mi dispiace.” Le uniche parole nella sua testa.
Strinse tra le braccia Hermione, che gli era corsa incontro per nascondere le lacrime contro il suo torace, sorrise alla pacca forse un po’ troppo violenta di Ron.
“Sei un idiota, Harry.”
Il suo sorriso, finalmente. Riusciva a sentirlo fin dentro le ossa.

All I ever wanted
all I ever needed
is here, in my arms

(Depeche Mode, “Enjoy The Silence”)

***

Nessuno di loro sapeva esattamente cosa aspettarsi in quella tiepida sera di settembre, quando, dopo aver convinto un Ron testardamente recalcitrante a superare – almeno formalmente – la sua ingiustificata avversione per degli innocui ortaggi quali i ravanelli, si recarono a Hogwarts, senza parlarne direttamente. Non avevano più messo piede a Hogwarts né nei territori circostanti, i luoghi della loro infanzia e della loro adolescenza. Parlarne faceva uno strano effetto, faceva semplicemente ancora male.
Che si trattasse di codardia o di una alquanto brutale forma di auto difesa, erano ormai abituati ad evitare il discorso: la cosa veniva naturale, ormai, ma certo non risultava più così facile trovandosi lì, proprio lì, sull’erba verde che fiancheggiava le mura del castello, di fronte alle pietre secolari, respirando quell’aria particolare che ha il sottile aroma della fanciullezza e dei giochi di ragazzi. Nell’aria tersa sembravano dilatarsi i ricordi fino a poco prima sopiti, si espandevano morbidi fino ad occupare l’intero spazio attorno a loro, fino a far apparire tutto stranamente reale ed irreale al tempo stesso. Fino ad anestetizzare quella sensazione di rancore attutito, verso tutto e verso tutti, senza alcun motivo apparentemente razionale.
Ginny si appoggiò a Harry con un sorriso nostalgico.
“Beh, siamo qui. Di nuovo.”
L’osservazione di Ron, così ovvia, risultò quasi bizzarra nel silenzioso momento di ricordi inattesi.
Hermione si avvicinò piano alle mura del castello e ne sfiorò la pietra – fredda, solida, sicura – con la punta delle dita d’una mano. Una sottile amarezza si raccoglieva nel suo cuore: il luogo dei pomeriggi trascorsi sui libri, del primo bacio, del primo ballo. I primi amori ed i primi odi. L’aveva sempre pensata così; adesso, a distanza di anni, si trovava a chiedersi con una durezza inaspettata quali odi fossero veramente tali.
La pietra che ora appariva così sicura e stabile aveva mostrato la propria terrificante debolezza anni prima, quando decine di figure ammantate di nero avevano fatto irruzione nel castello seminando null’altro se non dolore. Quell’odio.
Il luogo che li aveva sempre protetti, custoditi quasi come un tesoro prezioso, era lo stesso luogo poco tempo dopo reso teatro dei loro peggiori incubi, dei loro peggiori rimorsi. E rimpianti.
Ron le passò un braccio attorno alle spalle ed insieme si incamminarono verso il lago, seguendo le ultime istruzioni che una eccitatissima Luna aveva fornito loro a malapena la sera prima.
L’ultimo spicchio di sole, di fronte a loro, si scioglieva languido, fondendosi con le acque, mentre cominciava a profilarsi da lontano la combriccola a cui, evidentemente, erano destinati ad unirsi. La tonalità aranciata del momento, destinata a tinteggiare le piccole e le grandi cose ancora per pochi attimi, allungava curiosamente le loro ombre.
Nessuno aveva saputo cosa aspettarsi da quella tiepida sera di settembre, nessuno aveva esattamente riflettuto – nessuno aveva voluto razionalmente farlo, forse per timore delle risposte – su cosa si sarebbero potuti aspettare da Luna Lovegood. Sicuramente, quindi, nessuno avrebbe potuto mostrarsi sorpreso o dire a se stesso che, sì, l’aveva sempre saputo, ma l’inevitabile e comune conseguenza fu una stretta al cuore.

***

Non desiderare la roba degli altri,
non desiderarne la sposa.
Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
che hanno una donna e qualcosa.
Nei letti degli altri già caldi d’amore
non ho provato dolore


Lo guardò osservare accigliato quel pezzetto di pergamena, chiedendosi sorpresa come ancora potesse non essere andato in fiamme sotto quello sguardo inceneritore. A dire il vero, tutto ciò su cui, ultimamente, lui posasse gli occhi sembrava destinato all’autocombustione spontanea, la conseguenza bruciante del suo sguardo di ghiaccio.
“Allora?” Osò, titubante.
Lui rimase seduto, accigliato, nel groviglio di lenzuola, il letto sfatto dalla sera prima, quando, con urgenza quasi feroce, l’aveva trascinata in quella stanza che conoscevano entrambi fin troppo bene, pur non dovendo.
A volte passato e presente, infanzia ed età adulta, non andrebbero mischiati, né tanto meno confusi, specialmente per le conseguenze che ne derivano. Forse era per quello che Daphne odiava quella stanza, provava quasi disgusto nel doverla rivedere, i ricordi di loro due bambini che si rifugiavano in quel locale per confabulare in apparente segreto si mescolavano ai ricordi delle più recenti notti e di quelle più lontane – in ogni caso troppe -, aumentando la sensazione di nausea che sentiva montare in lei, secondo dopo secondo.
Eppure, inevitabilmente, tutto quello era il suo rifugio, il suo piccolo mondo.
Osservò il ragazzo allontanare con un gesto stranamente misurato il foglietto – quanto tempo ancora avrebbe impiegato, prima di prendere fuoco?. L’avambraccio dalla linea decisa, la mano grande. Dettagli che conosceva inevitabilmente da anni e che, probabilmente, non avrebbe mai dovuto conoscere così a fondo.
Scosse la testa, sottili capelli biondi le scivolarono sul viso, li riportò indietro con nonchalance ed un gesto dettato dall’abitudine.
“Hai deciso se incendiarlo o meno?” Sbuffò. “Io lo ripeto, tu e quel piromane italiano dovete avere stretti legami di parentela non ancora scoperti.”
Lui sembrò destarsi momentaneamente da quello che doveva essere stato un momento di trance passeggera, saturo di pensieri.
“Daphne, Giordano Bruno non era un piromane. Quante volte dovrò ripetertelo?”
Lei lo guardò di sottecchi e scrollò le spalle scendendo dal letto.
“Il risultato è lo stesso.”
Quello era indubbio.
Si avvicinò alla sedia dove aveva ammucchiato – o meglio, gettato – i vestiti la sera prima, e cominciando a trafficare non mancò di osservare il ragazzo con la coda dell’occhio.
Lo vide gettare una rapida occhiata all’interno del suo avambraccio. Lì dove giaceva incancellabile il suo passato, mai troppo remoto. Indimenticabile e da non dimenticare, per capire chi si è, chi si è stati e chi si può diventare. Per comprenderlo davvero, fino in fondo, fino a fare male, finché il respiro non si armonizza, poco a poco, con le sue linee scure e buie e comincia a rendersi pesante e quasi secondario, al ricordo di tutti quei giorni vissuti non respirando, o respirando solo orrore.
“Hai deciso cosa fare?”
Il Marchio che non aveva più bruciato come quell’ultima volta, bruciava costantemente in ogni attimo della sua esistenza.
Un peccato da nascondere, una marchiatura a vita e non solo per il significato che aveva potuto avere in origine. Il segno di un passato che condizionerà il presente ed il futuro, la discriminazione, le parole taglienti a cui sei diventato quasi insensibile, quella fiducia che non potrai mai avere.
“Non ancora.”
Un dolore sordo e conosciuto in fondo al petto.
Chiuso nell’unico ambiente che può supportarti e comprenderti, le persone di una vita vissuta assieme, nel bene e nel male; persone che sanno cosa significhi non poter girare a testa alta e che hanno imparato, fin da piccoli, a mascherare questa eterna condizione di sporcizia sotto l’espressione altezzosa, le cattiverie dei bambini, il furore sottile e doloroso degli adulti.
Persone che portano quello stesso cupo dolore negli occhi freddi.
Si voltò a guardarla: Daphne Greengrass, l’amica di una vita, sposata da un paio d’anni e non con lui – con gran sorpresa di tutti. Amica ed amante, due ruoli strettamente connessi in un vincolo di dipendenza che nessuno dei due aveva mai desiderato.
Aggrappato con bramosia infantile all’unico affetto che potesse riconoscere come tale, differente dall’amore di una madre. Una madre ti ama comunque, pregi e difetti inclusi, una donna ha più libertà di scelta. E Daphne aveva scelto di accettare consapevolmente ogni suo più buio particolare.
Il fatto che la conoscesse così bene, a volte era quasi un sollievo. Sollievo dal non dover vedere dipinto negli occhi l’orrore di chi non sa e non capisce, sollievo nel silenzio privo di parole sottointese, di cui non c’era alcun bisogno.
Sollievo dell’avere ancora qualcosa – l’accettazione non vincolata – e qualcuno – tutti i giorni vissuti assieme – alla fine di quella Guerra.
“Non capiterà più.” Le assicurò.
Lei si infilò il maglioncino leggero, di quel colore che le stava così bene; il sorriso era un taglio sottile sul viso pallido.
“Lo dici tutte le volte.”
Un’infanzia vissuta assieme, l’aver condiviso il peso di certe pretese, il dolore e la rabbia di tante insinuazioni si trasformava nella necessità di avere qualcuno che potesse capire, di sentire qualcuno che, semplicemente, c’era. C’era davvero.
Il dolore fisico dell’unione di due consapevolezze, fin troppo simili, fin troppo uguali; eppure il bisogno detestato di quel genere di calore, altrove troppo lontano, troppo distante, troppo diverso.
Crollò piano il capo, cercò i suoi pantaloni.
“Astoria…”
“Ti prego, Daphne, no. Non ricominciare.”
Lei trattenne il fiato, distolse lo sguardo da lui.
Quella storia andava avanti da troppo tempo, da prima del matrimonio, dai tempi di Hogwarts. L’unica a conoscenza della cosa era sua sorella, Astoria, invaghita di lui da ben più della durata di quella loro strana relazione. Più e più volte aveva tentato, perfettamente conscia di non aver alcuna speranza di successo, di farlo avvicinare alla sorella, senza alcun risultato, com’era prevedibile.
Lo aveva voluto con tutta se stessa, con tutto il cuore, per la sorella, per lui e per sé. Ed un poco anche per un marito, troppo giovane per essere tale, che non riusciva a darle la dolorosa comprensione che aveva trovato altrove.
Perché nessuno di loro era esente da sofferenze più profonde di quanto apparissero, a causa di quello strano rapporto.
L’idea di allontanarlo da sé le faceva male, ingiustamente, si diceva, perché anche lui avrebbe avuto diritto ad una vita più normale, ad una relazione più stabile, ad un qualcosa che fosse amore nel vero senso della parola e non solamente un’amicizia portata oltre i suoi stessi limiti, fino alle estreme conseguenze.
Ci sono limiti che non andrebbero mai valicati, perché tornare sui propri passi, dopo, risulta molto più difficile di quanto chiunque voglia ammettere.
“Mi dispiace.” Lo sentì dire.
Lei emise una risata bassa, orribile a sentirsi per il disprezzo verso di sé che esprimeva; una risata aspra, stridente, come il rumore di vetro che va in frantumi.
Aggrappata da sempre a lui in un mondo che non riusciva a sentire interamente suo, sospesa su un fiume di incertezze e di paure che mai avrebbe espresso ad alta voce.
“Piantala di comportarti come se fosse solo colpa tua.”
Come se qualcosa le avesse comandato di farlo, tornò ad incrociare il suo sguardo, negli occhi un’espressione amaramente divertita.
“E di chi credi sia la colpa?”
Daphne socchiuse gli occhi a quella voce bassa e dolce, incapace, per un istante, di sostenerne la forza; la sua intrinseca violenza non diretta a lei.
“Di tutto.” Rispose, chinandosi a prendere la propria borsa. “Di tutti e di nessuno.”
Lui sorrise, un sorriso che arrivava a malapena agli occhi.
“Sei terribile.”
“Mi conosci.” Replicò Daphne, poggiando la mano sulla maniglia della porta. Si voltò di tre quarti, i lucidi capelli biondi che scivolavano in un’onda morbida giù sulle spalle, fino a metà schiena, un’espressione seria sul viso. “Secondo me dovresti andare, Draco.”
Sollevò un sopracciglio in quel modo che contraddistingueva i Malfoy: un classico.
Un brivido sottile, caldo ed affettuoso nel notare come certe cose così insignificanti abbiano, però, la forza e la violenza per rimanere tali dopo tutto, dopo tutto quello.
“Sei stata tu a dire a quella pazza della Lovegood dove abito, vero?”
Con un vago gesto della mano accompagnò le sue parole.
“E chi altri?”
Ancora quel mezzo sorriso, il viso nascosto nella penombra della camera, il letto sfatto e l’odore amato ed odiato, ormai parte di entrambi.
“Sei terribile.”
L’espressione di Daphne si addolcì.
“L’hai già detto.” Replicò semplicemente prima di richiudersi la porta alle spalle, lasciando la presa da lui, per la prima volta dopo tanto tempo.

L’invidia di ieri non è già finita,
stasera vi invidio la vita

(Fabrizio De André, “Il Testamento di Tito”)

***

Ci sono cose che non cambiano mai e ci sono cose che, inevitabilmente, lo fanno, eppure rimangono sempre le stesse.
È una contraddizione sottile, che si può comprendere solo se si conosce veramente ciò che tale contraddizione riguarda, una anomalia che è la sensazione di un tuffo al cuore, profondo. Il sollievo del trovare ciò che ami, che odi, che conosci e la paura che tale sollievo comporta, il timore di cosa potrà succedere l’istante successivo, domandandosi se sarà solo un’illusione, perché forse è troppo bello e troppo brutto, troppo doloroso e troppo piacevole ritrovare una parte di sé che si credeva perduta per sempre.
Sui visi dei presenti si rifletteva di sicuro, lo sapevano, la loro stessa espressione complessa, fatta di sorpresa, nostalgia, stupore, disagio e ricordi. Qualche sorriso imbarazzato, dei colpetti di tosse. Erano appena una ventina, eppure sembravano tutto un mondo.
Quel mondo che avevano provato a dimenticare per anni, evidentemente senza riuscirci.
Seduti attorno ad un falò appena acceso, a disagio per una vicinanza improvvisa dopo tanto tempo, stavano vecchi compagni di scuola, vecchi amori e vecchie antipatie.
Nell’aria che sembrava improvvisamente pesare più del solito sul cuore, una figura esile, capelli di un biondo sporco ed occhi vaghi ed allucinati, si fece strada verso di loro.
“Ciao ragazzi.” Esordì con estrema tranquillità. “Stavo per andare a chiedere a Nick di venire qui a darci una mano.”
“Nick chi?” Domandò perplessa Ginny, abbracciando la vecchia amica.
Dopo aver salutato i presenti ed aver appreso che molti non si erano presentati, lanciarono qualche occhiata tutto attorno: non c’era nulla di speciale o di straordinario nel semplice falò allestito sull’erba ancora profumata di sole e delle ultime ore d’estate, eppure proprio quello bastava a rendere la cosa speciale e straordinaria in un senso del tutto anticonvenzionale.
“Oh,” Replicò lei con aria serafica. “Nick-Quasi-Senza-Testa, naturalmente. Sai, stiamo avendo un po’ di problemi con i conteggi delle Burrobirre,” Ed era chiaro che i problemi li stesse avendo solamente lei, mentre gli altri, con espressioni rassegnate o divertite, si limitavano a parlottare debolmente, riprendendo con estrema lentezza quella confidenza che una volta li aveva legati. “e prima di mandare qualcuno a comprarne delle altre, vorrei avere il parere di un esperto”.
Concluse con un sorriso stralunato che aveva un qualcosa di dolce.
Alle sue spalle, anche coloro che erano rimasti ad ascoltare avevano discretamente ripreso a chiacchierare tra loro o ad arrostire qualcosa di dolce sul fuoco, alcuni nascosti nei pochi spicchi d’ombra creati dagli alti alberi poco distanti, alcuni con il viso animato da vivaci giochi di luce creati dalle fiamme.
“Ciao, Luna.” Hermione si trovò a rispondere con un sorriso genuino, inaspettato.
“Da quando Nick-Quasi-Senza-Testa è un esperto di calcolo?”
La voce di Ron si mescolò, perplessa, allo scoppiettio del falò.
“Da sempre, Ron.” Lo disse con una certezza, mista ad una vaghezza quasi studiata, tale da far credere che, con tutta evidenza, il vecchio fantasma di Grifondoro avesse vinto un qualche premio Nobel Babbano in tale campo. “Ha una predisposizione naturale per queste cose, non lo sapevi? A proposito,” Sfiorò gli immancabili orecchini a forma di ravanello con sguardo innocente. “Ginny mi ha parlato della tua fobia per… beh, tu-sai-quali-ortaggi. Vuoi che tolga gli orecchini?” Terminò abbassando la voce abbastanza da farla risultare un bisbiglio, ma non a sufficienza da far sì che nessun altro la udisse.
Qualche risata si sollevò calda ed accogliente, fondendosi con il tepore che piano piano sentivano crescere dentro di fronte a quella stramba, particolare figura. L’odore dolciastro di ciò che alcuni stavano tenendo sul fuoco si diffondeva pigramente tutto attorno.
“Ehm…” Ron lanciò un’occhiataccia alla sorella che mise su l’espressione più angelica possibile. “No, non c’è bisogno… uhm, grazie del… del pensiero.”
Il viso di Luna si illuminò.
“Oh, di nulla. Avanti, venite a sedervi, intanto.”
La particolarità del carattere di Luna riusciva spesso a mettere le persone a disagio. Hermione la trovava ormai confortante, la sua stranezza un candore quasi esasperante che poteva solamente portarla ad un sorriso. Ed un sorriso veniva troppo spesso sottovalutato.
La vide osservarla con l’affetto più puro nello sguardo, disinteressata e buona come sempre, mentre si sedeva di fronte al fuoco, accanto a Ron, e trovava, solo dopo una manciata di secondi, il coraggio per alzare lo sguardo.
Il ricordo è una miscela dolce ed amara, a seconda della sfaccettatura che in quel dato istante prende maggior luce. In quel momento si sentì quasi accecata dal riverbero di tante sfaccettature, una lama di luce che le trapassava gli occhi ed il cuore; odori, risate, episodi familiari le scorrevano nelle vene, fino al cervello, aggrovigliandosi con allegra impazienza ed una vivacità a cui avrebbe volentieri messo un freno.
Maneggiare i ricordi non è mai facile, Hermione lo sapeva bene, c’è il rischio di ferirsi come niente, quando meno ce lo si aspetta. Basta un nulla, un particolare accantonato, l’angolo delle labbra arricciato in un sorriso che forse solo alcuni avrebbero potuto notare, la sensazione della piuma d’oca che scorreva rapida sulla pergamena d’esame, l’odore dei libri nuovi, così come uno sguardo catturato di sfuggita, forse neppure a lei destinato, e la risata gioviale di un amico, il buongiorno assonnato di un altro, l’odore di sonno e di colazione in Sala Grande. La lama di luce scivola senza alcun preavviso più in profondità, ancora di più, fino a lacerare il cuore.
Batté le palpebre una, due volte, chiuse gli occhi annuendo, con un sorriso anestetizzato, al saluto educato di Padma Patil. Quando li riaprì e la vista si mise a fuoco poco a poco, lo vide.
Fu come un pugno in pieno stomaco ed una paura improvvisa, ingiustificata. Occhi di tempesta, chiari ed imperscrutabili, la osservavano da una zona d’ombra, lì dove non aveva potuto scorgerlo prima. Il viso affilato di un pallore quasi spettrale, illuminato appena, ora che si era voltato, dal riverbero del fuoco, una luce che sembrava lontana anni ed anni dalla sua persona; se ne stava seduto, la composta fierezza di una statua, il mento sempre un po’ più alto del previsto, nella classica posa sprezzante che l’aveva sempre contraddistinto.
Le ciglia gettavano ombre scure sotto quei suoi occhi taglienti, rendendo l’intensità di quello sguardo ancora più violenta.
Avrebbe voluto voltarsi, interrompere quel contatto visivo, ma per qualche assurda ragione non ci riusciva. Passavano secondi che apparivano eternità, vissute dall’inizio alla fine in un subbuglio di sentimenti contrastanti: quello sguardo, questa volta, non poteva essere diretto ad altri. E non tanto perché dubitava seriamente che Draco Malfoy intendesse fissare più di tanto Ron o Neville – non che sul proprio conto si facesse molte più illusioni -, quanto perché in quello sguardo, in quel contatto più profondo del dovuto, c’era tutta quella rabbia repressa mediante insulti e disprezzo che aveva conosciuto bene ai tempi della scuola, ed un’espressione che somigliava molto – forse troppo – ad un’intensa inquietudine, una sfumatura a tratti lieve, a tratti più marcata, che solo quando guardava lei era riuscita a carpire.
Non riusciva a ricordare, esattamente, quando l’avesse notato per la prima volta, ma ricordava quasi con crudezza quando, la sera del Ballo del Ceppo, aveva compreso che c’era qualcosa di diverso, in quegli occhi, qualcosa che non era riuscita a catalogare – lei, perfetta ed efficiente come una macchina, lei che aveva quasi tutte le risposte ed era padrona di sé in quasi tutte le situazioni.
Sempre lei che, quasi con un morboso accanimento, aveva cominciato, da quella sera, ad incrociare quegli occhi, prima aveva creduto solo per caso, poi aveva intuito la volontà che si celava dietro quel gesto e la curiosità che la pungolava continuamente, con una vertigine lieve ed aspra al cuore, a tentare di capire.
Il suo sguardo parlava di parole mai pronunciate, emozioni mai dette e lasciate in sospeso, mai chiarite, mai verificate, mai affrontate.
E lei ne era come ipnotizzata.

Painful to me
pierce right through me
can’t you understand
oh, my little girl?

(Depeche Mode, “Enjoy The Silence”)

Aveva sempre pensato, in quegli anni che erano sembrati millenni, che nel rivederla qualcosa sarebbe cambiato, che qualcosa, in lui, avrebbe dettato una reazione differente. Non era stato così. Con l’amara durezza di chi è abituato a riconoscere qualcosa che non si ha, si rese conto che, di fronte a quelle macchie scure sul suo viso pallido e sorpreso, la rabbia cupa e rovente di sempre non era mai scomparsa. Quella rabbia più acuta che l’aveva caratterizzato in passato aveva lasciato il posto ad un rancore sordo, latente e pesante. L’invidia di una volta non era svanita: quando loro avevano avuto libertà di scelta, lui l’aveva invidiata; quando loro avevano avuto amicizia, lui l’aveva invidiata, così come quando tutti loro avevano potuto avere una strada più semplice, ai suoi occhi, della sua ed una via forse appena meno polverosa da percorrere, bene, lui aveva invidiato tutto. Aveva invidiato il loro essere così profondamente diversi da lui, aveva invidiato i loro cognomi, meno pesanti, aveva invidiato il pesante cognome di Harry Potter, di un calibro e di una pesantezza del tutto diversi dal proprio.
Ed aveva invidiato con ferocia cattiva lei. Il suo essere così giusta e così sbagliata, per canoni differenti, allo stesso tempo ed il suo averlo posto di fronte al suo stesso animo dilaniato brutalmente in due. L’aveva invidiata a loro, i suoi due migliori ed inseparabili amici, e l’aveva odiata per quei sentimenti indesiderati.
Ora che la guerra era finita, che gli ultimi, disperati strascichi di follia si trascinavano avanti senza grandi successi, aveva creduto di potersi finalmente sentire libero, svincolato da quella sensazione pungente.
Ora che la guerra era finita, invece, si trovava ad invidiare tutto, tutti ed ancora più di prima, con un rancore che aveva l’odore del sangue versato in battaglia, degli amici scomparsi nella parte sbagliata di quella pazzia generale; ora che tutto sembrava finito, lasciandoli galleggiare nell’aspettativa di qualcosa che sembrava non arrivare mai, e che non aveva più neppure le cose per cui prima aveva invidiato con forza tutti loro, ora che aveva qualcosa, davanti, aveva scoperto l’esigenza di voltarsi indietro e guardare il suo passato.
Non aveva più nulla da odiare, né nulla da proteggere e per questo, ancora una volta, come un’eterna maledizione, aveva scoperto, con acre ironia, di invidiare loro la vita.

L’invidia di ieri non è già finita,
stasera vi invidio la vita

(Fabrizio De André, “Il Testamento di Tito”)

Continuava a fissarla in quegli occhi troppo scuri e troppo profondi, l’espressione di altezzosità svanita dai suoi lineamenti smagriti dai troppi pensieri, e si rese conto che ciò che aveva sempre visto in lei, ciò per cui continuava ad invidiarla, non c’era più.
Il suo sguardo era offuscato da qualcosa che lei sola poteva scorgere, nei lineamenti sorpresi, in cui si poteva leggere chiara la nota dello smarrimento e della paura, lui non riusciva più a ritrovare quella vita. Una scintilla che ricordava vivace, viscerale, quasi violenta.

***

Vide la sua espressione incupirsi appena, le arrivò un colpo lieve nelle costole e sbattendo le palpebre confusa, alzò gli occhi su un Ron che richiamava allegro la sua attenzione verso non sapeva bene quali chiacchiere. Annuì, un sorriso vago perso sul volto.
Non avrebbe mai saputo dire quanto tempo avesse trascorso in silenzio con lo sguardo fisso in quello di Malfoy, evidentemente, però, non erano stati solo i pochi secondi che le erano parsi. Ginny rideva di gusto, le gote arrossate dall’euforia, appoggiandosi con tenerezza ad un Harry sorridente che scambiava qualche battuta con vecchi compagni di scuola; Ron beveva il suo Firewhisky e negli occhi aveva l’espressione tranquilla che tanto aveva amato osservare in passato e che da troppo tempo non riusciva più a scorgere in lui. Neville, lo notava solo in quel momento, aveva perso diversi chili, ma aveva nello sguardo una rinnovata e forse più sicura vivacità.
“Oh, beh, Nick ha detto che per risolvere il calcolo, basta semplicemente aggiungere uno zero.”
La voce leggera di Luna le arrivò come fosse molto lontana, mentre la proprietaria inclinava il capo verso Ron, notevolmente perplesso.
“Uno zero… dove?”
“Hmm… non so. Devo andarglielo a chiedere?”
Lui si passò una mano sul viso, lo sguardo allucinato che aveva quando parlava con quella ragazza sempre sorridente e sempre cristallina, così tanto da risultare quasi inadeguata al resto del mondo. O forse era il resto del mondo, troppo macchiato da pregiudizi, menzogne, incapacità di mostrarsi per quel che si è e di saper accettare gli altri realmente per quel che sono, a non essere adeguato a lei.
Lei che sembrava così distante da tutto si era rivelata l’unica abbastanza salda, abbastanza vicina a tutti loro da permettere un chiarimento di quel genere.
“Perché al momento è un tantino occupato. Sta calcolando le probabilità che ha Gazza di essere un ermafrodita. Sai, certe cose si vedono nel corredo genetico.”
Due o tre ragazzi, tra quelli che stavano ascoltando, si distesero in risolini divertiti, altri si domandarono confusi quando Gazza avesse fatto visita a Casablanca.
E sicuramente tutti gli scienziati del mondo, deceduti o meno, si stavano rivoltando rumorosamente, all’unisono, nei loro rispettivi domicili.
“Erma… cosa?”
Lei si voltò del tutto verso Ron, con un’espressione talmente seria e convinta sul viso da scaldare l’animo di chiunque: pura, incontaminata, nonostante tutto quel che aveva visto.
In molti si erano chiesti come Lunatica Lovegood fosse riuscita a mettere in piedi tutto quello, semplice e meraviglioso al tempo stesso, a farli riavvicinare in così breve tempo.
Probabilmente la componente fondamentale era il suo candore: Luna, tra tutti loro, era l’unica ad aver conservato la propria ingenuità, in tutto quello. Una purezza che a tratti stordiva e lasciava senza parole. Ed evidentemente era l’elemento benefico di cui avevano avuto bisogno.
“Ermafrodita. Papà ne ha parlato di recente in un articolo sul Cavillo, pare che ultimamente sia molto di moda.” Annuì decisa a rafforzare la sua affermazione. “Non l’hai letto? Ha destato un gran clamore perché…”
Ron la osservò brevemente, in silenzio, finché, gradualmente, non cominciò a ridacchiare ed infine, ridendo davvero di gusto, non le assestò una pacca non molto delicata sulla schiena – Luna sorrise ancora, sistemandosi una ciocca dei capelli biondo sporco dietro l’orecchio, mormorando qualcosa su accuse di plagio che, per quell’improbabile articolo, il Cavillo doveva aver ricevuto -, decidendo che no, non avrebbe preferito indagare oltre – opinione che pareva ampiamente condivisa.
Hermione aveva osservato la scena con un nodo allo stomaco e la sensazione di precarietà che aveva sempre contraddistinto ogni sua giornata, fino ad allora: se c’era una cosa che la guerra le aveva insegnato e di cui non dubitava mai, era che tutto ciò che hai, tutto quello che possiedi e che stringi a te con la più profonda tenerezza, può esserti portato via in un soffio, senza possibilità di ritorno. Basta un secondo per distruggere l’amore, l’affetto, l’amicizia ed il calore di un’intera vita.
Eppure quella sensazione di precarietà aveva assunto una sfumatura differente, il retrogusto dei ricordi e degli affetti che diventano tali. Aveva sempre temuto di perdere ciò che aveva, e l’aveva perduto. Ora si ritrovava a temere di poter perdere anche ciò che non aveva più.
Persone, luoghi, odori.

And I know what it’s like
to lose someone you love
and this felt just the same


Si guardò attorno, mentre una strana sensazione di calore le saliva dallo stomaco al petto, per fermarsi in gola: ragazzi e ragazze che conosceva per espressioni troppo spaventate e troppo serie per la loro età, ora ridevano, scherzavano, parlavano più o meno serenamente alla luce aranciata del falò.
E nell’atmosfera soffice del momento, non poté non pensare a coloro che momenti come quello non avrebbero potuto più viverli. Il peso del rimorso, della rabbia impotente verso se stessa che, contrariamente a loro, era sopravvissuta, la pesante sensazione che ci fosse, in tutto quello, un qualcosa di platealmente e fortemente ingiusto, la invase abbattendo qualsiasi barriera avesse potuto erigere in passato.

I felt so empty as I cried
like part of me had died

(Dream Theater, “Through Her Eyes”)

Chiudere gli occhi non era servito a nulla, chiudersi a riccio e sbarrare tutte le strade non aveva aiutato chi se ne era andato e non aveva aiutato lei, non le aveva fatto dimenticare gli orrori della guerra, il sapore del sangue e della polvere, né le aveva permesso di accantonare anche solo per un momento l’atroce dolore degli affetti perduti. Non aveva dimenticato le Maledizioni Senza Perdono così come non aveva scordato l’espressione di terrore negli occhi di troppi ragazzi innocenti o, ancora peggiore, se possibile, quella vuota, quasi rassegnata, negli occhi di chi, come Remus, per fare un nome a caso, quella guerra, quella bestialità l’aveva già vissuta in passato e si trovava a doverla affrontare una seconda volta. Una guerra per loro mai finita, iniziata troppo tempo prima, che aveva strappato, bruciato via il passato ed il futuro, permettendo appena qualche raro momento di felicità nel presente. Aveva finito per bruciare anche loro, lasciandosi dietro solo tanto male ancora a venire per chi, come Teddy, non avrebbe mai conosciuto i propri genitori.
Quello che aveva considerato l’ultimo legame con una vita che non riusciva più neppure a riconoscere come propria, era stata la relazione con Ron, che aveva tentato di far funzionare in tutti i modi possibili, fallendo.
Tirarsi indietro non era servito, ma l’aveva sempre, sempre saputo.
Era stata una sciocca. Aveva solo procrastinato quel momento, da anni, da sempre, da quella che appariva un’eternità. Troppo dolore, troppi ricordi, tutti assieme.
Troppa paura di affrontarli ancora e troppa di lasciarseli alle spalle. È possibile andare avanti senza dimenticare davvero un pezzo così consistente del proprio passato?
Non è possibile. Forse anche questo l’aveva spaventata. L’idea di convivere per sempre con quei fantasmi e l’idea di separarsene. Il momento in cui si sarebbero trasformati, poco a poco, in ricordi era semplicemente traumatico.
Li sentiva allontanarsi e ne aveva paura.
Sapeva cosa significasse perdere qualcuno che si ama e quello era come perderli ancora, ancora una volta.
Avvertiva fisicamente il distacco con un dolore soffocante al cuore.
Spaesata, gli occhi velati di opaco, non sapeva se per il fumo o per le lacrime o per entrambi, incrociò lo sguardo di Luna. Uno sguardo stranamente serio e consapevole, un’espressione talmente addolorata sul volto che faceva male solo pensarla. Con i suoi occhi troppo grandi ed i suoi orecchini a forma di ravanello, annuì impercettibilmente.

L’urlo travolse il sole
l’aria divenne stretta


Hermione chiuse gli occhi, sentendosi incredibilmente stonata rispetto al luogo ed al contesto, con il suo dolore ancora vivo, ancora acceso, incapace di farsene una ragione, di accettarlo, di accettare quel che gli altri avevano accettato da tempo; in una frenetica serie di flash rivide sorrisi, baci, luoghi, visi troppo conosciuti – in ogni minimo, immenso particolare - ed improvvisamente sentì l’aria mancarle, l’aura del passato diventare troppo ingente, troppo pesante, schiacciarla inesorabilmente a terra.
Sentendosi soffocare, si alzò e, incerta, assicurando a Harry che andava tutto bene e che voleva solo rimanere un po’ sola, si allontanò.

Cristalli di parole
l’ultima bestemmia detta

(Fabrizio De André, “Ballata degli Impiccati”)

***

I have to suffer one last time
to grieve for her and say goodbye,
relive the anguish of my past
to find out who I was at last

(Dream Theater, “Through Her Eyes”)

Con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, la osservò socchiudendo gli occhi, nonostante non ci fosse luce né, sicuramente, vento. Stava in piedi, appoggiata di spalla ad un salice, sebbene tremasse ancora visibilmente.
Hermione Granger non si era mai piegata, mai. Figurarsi dopo quella guerra. Ci sono cose che lasciano cicatrici particolari, ed il non piegarsi mai più a nulla è una di quelle.
Ci si è piegati abbastanza alla sofferenza.

Teneva le braccia strette attorno al corpo, come se sentisse freddo, eppure era ovvio che non fosse così. Non esiste freddo talmente intenso come quello della paura e del dolore e della consapevolezza di dover lasciar andare una parte di sé, per sempre.
Di spalle, il fiume di ricci castano scuro macchiavano la schiena illuminata debolmente dal lontano falò, sempre gonfi, sempre crespi, forse appena un filino meno indomiti rispetto a come li ricordava.
Sorrise, mentre le si avvicinava con passo lento, misurato, calmo.
Quando fu accanto a lei la vide voltarsi come se si fosse sempre aspettata di trovarlo lì, non un trasalimento, non un sussulto, nessuna sorpresa neppure sul viso, nulla del genere. Solo tanta, tanta paura sotto un’espressione di altezzosa fierezza. Una conosciuta e già sperimentata – sulla propria pelle, una cicatrice come ustione da freddo – espressione di altezzosa fierezza.
Con un gesto morbido prese una sigaretta e la accese con un colpo di bacchetta, prendendo un paio di tiri, assaporando il fumo prima di soffiarlo fuori e guardarlo volatilizzarsi in volute complesse. Tese il pacchetto verso di lei, ma Hermione scosse la testa, piano.
“Non fumo, grazie.”
Riportandosi la sigaretta alle labbra non provò neppure a celare un abbozzo di sorriso.
“Lo trovi divertente?”
Il tono, neppure lontanamente acido come avrebbe voluto – sua ultima forma di difesa, crollata inesorabilmente molto tempo prima, o almeno così le sembrava, quella stessa sera, persa in quello sguardo, in quegli occhi di cui non riusciva a vedere il fondo, nonostante il colore chiaro -, apparve solo molto stanco.
“Lo trovo familiare.”
Non udiva la sua voce da anni, eppure l’aveva sempre conosciuta così. Strascicata, a tratti troppo fredda, ma bassa ed in un certo senso avvolgente, pur nella sua occasionale durezza. Era forse appena più matura di quella che tanto aveva detestato in passato, che con le sue tonalità aspre le aveva ferito le orecchie e non solo.
“Perché sono Hermione Granger, vero?”
Non attendeva una risposta, che infatti non venne.
Ci sono cose che non cambiano mai.
Trascorsero qualche minuto nel più completo silenzio, un silenzio fatto di tante cose non dette, ma che va comunque bene così. Un silenzio pacato, nessuna aspettativa, semplicemente quel momento.
“Cosa ci fai qui?”
Avrebbe preferito introdurre la domanda in modo più delicato, meno d’impatto, meno prepotentemente, ma non aveva avuto successo. Non era ancora riuscita a smussare del tutto quel suo lato spigoloso ed ogni tanto se ne ricordava, o meglio, era costretta dall’evidenza dei fatti a ricordarsene.
“Lo stesso che ci fai tu.” Andò a sedersi sulla riva del lago e spense il mozzicone di sigaretta. Quando rialzò il volto, la luce della luna illuminava i capelli chiari e creava curiose ombre di luce sotto i suoi occhi. “Anche io avevo qualcosa in sospeso da chiarire.”
Discostandosi dal salice cui si era poggiata, Hermione si avvicinò a lui e, dopo una breve esitazione, si sedette lì accanto. Non troppo vicino, ma neppure troppo lontano.
Barriere troppo vecchie per essere riesumate e troppo radicate per essere scavalcate senza pensarci neppure.
“Se invece ti chiedi cosa ci faccia qui con te,” Proseguì lui sempre senza guardarla, ma sempre con l’ombra di un sorriso sulle labbra. “è che non sopporto più il frastuono che la sorella di Weasley produce.”
“Si chiama Ginny.”
Avrebbe scommesso di aver udito uno sbuffo divertito.
“So come si chiama. È che il suo nome non mi aggrada.”
Si scoprì a scuotere il capo, socchiudendo gli occhi, in una divertita rassegnazione.
“Provvederò a farlo sapere ad Arthur e Molly.”
“Sarebbe decisamente una buona azione.” Convenne lui. “Tu non hai freddo.”
L’affermazione, assolutamente contrastante con la prima, la raggiunse diretta, come una freccia scoccata con un obbiettivo preciso; si voltò ad osservare il suo profilo, forse troppo appuntito e troppo pallido, stagliarsi appena contro il buio.
“Eppure tremi ancora.”
Anche a questa affermazione non rispose.
Un brivido lungo la spina dorsale.
Ci sono cose che, inevitabilmente, lo fanno, eppure rimangono sempre le stesse.
Draco Malfoy si voltò, fissando per la seconda volta, in quella sera, il suo sguardo in quello di lei. La sua espressione si indurì appena mentre tornava a scrutare un punto indefinito all’orizzonte, sulla superficie scura del lago.
Forse quegli occhi scendevano troppo in profondità in lei, forse era quello ad averla sempre turbata.
“Quei due sono così stupidi da non vedere?”
La sentì inspirare bruscamente, negli occhi ancora quell’ombra.

Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l’odore del sangue rappreso


“Vedono, ma rispettano i miei spazi.” Replicò freddamente. “Non puoi proprio riferirti a loro in maniera accettabile?”
“Tu non puoi smettere di guardarmi a quel modo?”
Tagliente, affilato, un antico dolore riportato alla luce con un gesto minimo, ma ben calibrato.
Lo guardò, portandosi una mano al viso, incerta.
“Quale modo?”
Lui fissava ancora le acque che, increspatesi in rare, piccole e calme onde, si infrangevano ai loro piedi, un fruscio tranquillizzante. La causa di quel lieve turbamento, la piovra gigante, si crogiolava pigra alla luce della luna.
“Come se avessi paura.”
Lei serrò la mascella, inconsapevolmente.
“Non ho paura di te.” Nella sua voce una nota di durezza che proprio non aveva previsto.
Draco Malfoy tornò ad osservarla, il viso a tratti illuminato dai deboli giochi di luce riflessi dall’acqua, il suo solito sguardo, quello che aveva riservato a lei, appesantito da una sfumatura di malinconia ed un mezzo sorriso inaspettato. Troppo doloroso per essere guardato e troppo per distoglierne lo sguardo.
“Lo so.” La voce bassa. “Non era quello a cui mi riferivo.”

Ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso
sospeso

(Fabrizio De André, “Ballata degli Impiccati”)

I suoi occhi parlavano di chi non ha trovato un senso alla vita dopo la guerra, quello stesso senso per cui quella battaglia senza fine l’aveva combattuta. Lo fissò, semplicemente, senza aprire bocca, le labbra strette, non con forza, in una linea sottile, quasi l’ accenno di un sorriso.
Un sorriso così profondamente triste da non necessitare di alcuna espressione verbale. Lui stesso capiva, lui stesso sapeva il senso di ingiustizia che c’è nell’essere sopravvissuti, quel pensiero ossessivo e quel senso di colpa inestinguibile per un qualcosa che non si era stati capaci di controllare – come se ce ne fosse stata possibilità alcuna.
“È tutto così ingiusto, difficile… insensato.”
La voce ridotta ad un debole squittio, quasi impercettibile.
“L’unica cosa ingiusta è il rifiuto di vivere ciò che ci è rimasto: la vita. Ingiusto nei confronti dei Caduti, ma ingiusto soprattutto nei nostri confronti. Ciò che è giusto è che i vivi vivano e che i morti divengano ricordi; lo è riguardo a quello per cui abbiamo combattuto, chi prima, chi dopo, chi da una parte, chi dall’altra, per quello per cui quei ricordi sono diventati tali.” Le sue parole amara dolcezza. “I morti sono morti. Alcuni saranno sempre ragazzini di diciott’anni ed altri avranno sempre la stessa espressione negli occhi, tutto il resto va avanti. È duro, è brutale, è quasi banale. Ma è così.”
Si accese una seconda sigaretta e tacque per qualche istante. Il fruscio del vento tra le foglie degli alberi, il mormorio dolce dell’acqua ai loro piedi, l’erba sotto di loro, le stelle sopra le loro teste, un insieme pulsante di forza, energia, quel qualcosa che va avanti, nonostante tutto.
“La guerra è insensata. Di più: non troverai nulla di veramente sensato, in questo mondo. Sono mai state sensate la vita e la morte?”
Le sembrava di galleggiare senza scopo, naufragare in troppi pensieri e troppe memorie.
“Ho bisogno di tempo.” Riuscì ad articolare flebilmente, la voce spezzata.
Draco continuò ad osservare il buio con espressione seria e pacata; Hermione gli fu grata di quella delicatezza, mentre si asciugava con la manica della camicetta le lacrime che le bagnavano le guance.
Così poche e così tante.
“È giusto che sia così. Ne abbiamo avuto e ne abbiamo tutti. È soltanto un’altra questione in sospeso che chiariremo, vedila così: non è l’ultima, e forse è un bene che sia così, altrimenti sai che monotonia, ma non è la prima. È qualcosa che hai già affrontato, qualcosa che sai affrontare. Prenditi il tuo tempo, Granger.”
Il ricordo di quegli sguardi lanciati ed intercettati di sfuggita, della rabbia infantile ed immatura, di quei desideri che solo dopo anni si erano delineati come tali… era tutto così distante e vicino, qualcosa che si conosce da una vita e che sembra sempre di assaporare per la prima volta.
Piccoli intervalli in qualcos’altro che era stato sicuramente troppo grande per loro.
“È più facile distruggere che ricostruire.” Il suo profilo si delineava più indefinito nell’oscurità più densa. “Lo è sempre stato. Altrimenti che valore avrebbe la vita e tutto ciò per cui abbiamo lottato?”
Fece un respiro profondo, poi un altro, infine annuì, convinta che lui l’avrebbe saputo nonostante non la stesse ancora guardando, sicura che a quello sguardo non occorresse vedere fisicamente per intuire qualcosa, tra le tante che forse aveva intuito già in passato, in quei giochi di occhiate fuggevoli di adolescenti.
“Mi piacerebbe intraprendere la carriera di ricercatrice.”
Quando parlò nuovamente, diverso tempo dopo, la sua voce era calma, come se non avesse fatto altro che dialogare del più e del meno fino a quel momento, ma con una traccia di consapevolezza che trovava un proprio punto di riferimento anche nel confortevole silenzio in cui i due erano immersi.
Erano bastate così poche parole con Ron, così poche con Harry, nessuna con Luna, poche anche per quell’assurda situazione, che forse trovava una sua logica nella radicata illogicità che sembrava permearla, ad un occhio non avvezzo all’idea.
In fondo le parole non erano mai state tanto inutili, se ne rendeva conto solamente ora.
C’era qualcosa di più importante, di più vivo, di più viscerale di tutto quello spreco di voce, e di sicuro non risiedeva nel cervello, Hermione Granger dovette ammetterlo, forse per la prima volta nella sua vita.
“Credo che sarebbe un’ottima scelta per te, Granger.”
Si sentì annuire.
“Lo credo anch’io.”
Nello spazio di una notte, mano a mano i tasselli tornavano al loro posto, tutto ciò che per anni aveva aleggiato sopra di loro come una cappa, scura ed opprimente, cominciava a depositarsi. Il rifiuto di tenere gli occhi aperti su ciò che ancora non andava, la paura di affrontare quelle uniche persone che avrebbero capito davvero, quella stretta al cuore che prendeva, feroce e destabilizzante, quando si pensava al passato, a ciò che era stato e ci si rendeva conto che non si era ancora pronti per chiudere definitivamente quel lungo capitolo della propria vita. Limitandosi a guardarlo solo di sfuggita, pesante fardello, eredità sgradita e parte troppo intima di sé; troppa la paura al pensiero di cosa sarebbe potuto essere guardando e chiudendo, chiudendo davvero, troppo il dolore che ancora riportava a galla.
E quella rabbia sorda, nascosta solo in apparenza sotto lo strato di normale quotidianità, quel rancore verso tutti, verso tutti gli altri e verso se stessi. Un rancore non violento, ma forse di un tipo peggiore: un rancore sempre presente, in ogni istante, in ogni cosa, che andava lentamente a sfibrare ed infiammare nervi già scoperti ed offesi, che inquinava, come un caldo veleno, tutto ciò che potevano ancora avere dalla vita.
Ci sarebbe voluto ancora del tempo perché il processo fosse portato a termine, ma, ora sì, le sembrava di avere tutto il tempo di questo mondo.
“E tu?” Domandò, la voce stranamente serena. “Tu cosa farai?”
Osservò il suo profilo ancora confuso con il buio della notte, quell’ambiente che forse, non sapeva neppure quanto a torto e quanto a ragione né da quando avesse iniziato a pensarla così, aveva sempre considerato come particolarmente adatto a lui.
Lui sorrise di un sorriso sottile e rilassato, la sfumatura di rabbia sembrava essere svanita quasi del tutto da quello sguardo che aveva conosciuto e non conosciuto negli anni passati.
Il tempo era ciò di cui tutti loro avevano bisogno.
“Non so. Quando avrò qualche idea, ti farò sapere.”
La domanda sorse spontanea, sfuggì dalle sue labbra prima che avesse potuto rifletterci su.
“Quindi è un discorso che lasciamo in sospeso?”
Rise brevemente, una risata roca, un suono così spontaneo che Hermione si sentì stringere il cuore. E fu una sensazione piacevole.
“Sì, consideralo soltanto un discorso sospeso.”
Anche lei tornò a fissare le acque, ben conscia del sorriso tranquillo che le rischiarava il viso nel buio di quella notte e nel residuo di dolore che avrebbe sempre portato con sé, impossibile da dimenticare. Quella malinconia di base che non accennava a lasciarla era un affetto a cui non avrebbe rinunciato, ne era consapevole.
Tante cose doveva ancora affrontare, ora che le aveva finalmente toccate con mano in una nuova consapevolezza, tanti ricordi cari da cui doversi separare, da dover accettare come tali in quella notte di fine estate, tante sofferenze da ammettere ed ammortizzare lei per prima e lei da sola, ma se quello era l’unico discorso in sospeso che ancora aveva da risolvere, beh, allora andava bene.
Andava più che bene.
Una risata e qualche chiacchiera aleggiavano soffuse e calde alle sue spalle. Respirò a fondo l’aria che sapeva di fresco e di buono e di vita.


Ma adesso che viene la sera
il buio mi toglie il dolore dagli occhi
e scivola il sole al di là delle dune
a violentare altre notti

(Fabrizio De André, “Il Testamento di Tito”)








Fine











NdA: L’ultimo brano citato di De André in realtà è appena appena diverso: ‘Ma adesso che viene la sera ed il buio / mi toglie il dolore dagli occhi’, ho eliminato l’‘ed’ perché lì, alla fine della storia, mi risultava… troppo ‘in sospeso’ ;P

Beh, che dire? Che non è la fic che aspetti da anni. E… che, onestamente, questa cosa è indubbiamente poco adatta come regalo di compleanno, ma, tu lo sai (vero? *preoccupata*), non è stato facile. Ti ho già detto di non uccidermi, giusto? ^^’ Aiuterà sapere che ho spesso ascoltato Davide scrivendola (e maledicendomi al contempo)? XD No, non puoi pretendere il divorzio, ora u.u
Scherzi a parte (?), se trovi riferimenti (casualissimi XD) ad alcuni nostri ‘topoi’, sappi che è sicuramente solo una tua impressione XD *si nasconde*.
Ci tengo a dirti, anche se forse lo sai, che, con tutto l’affetto possibile ed immaginabile che tu non comprenderai mai, razza di cucchiaino arrugginito e bucherellato, questa poteva essere solo per te. Che sai quanto sia costata. Che sai cosa significhi. Che, ora, sai perché non ho potuto mandarti la bozza prima. E che forse, una volta tanto, la pianterai di maltrattarmi come al solito XD
… Naa, ci conto poco XD
Te l’ho detto che sei incommensurabilmente scema? *coso gigante che :hug:ga la moglia, gino, peppe e chiunque sia di passaggio* ♥
Ricordati di usare il bastone (non peppe, con il quale mi picchi fingendo di farmi il solletico -.-), mio Rafiki! E che in testa posso dartelo solo io, anche se dovrei essere indegna perfino per quello.
E perdonami, se puoi, per quest’orrore.
*torna a ficcarsi in amato armadio con Luna (saremo in due a ringhiare ed ululare, se provi a tirarci fuori di qui :dry:)*

Okay, sono momentaneamente uscita dal mio stato di letargo/ritiro spirituale, tranquilli che vi ritorno subito ^^
Sì, la storia è un po’ strana ed anche un po’ contorta ^^. (Spero che certe cose non siano intuibili solo per la mia testolina malata – e vuota -, in caso… perdonatemi XD)
Ringrazio in anticipo chiunque abbia letto questa… cosa, e chiunque avrà voglia di lasciare un commento per farmi sapere cosa ne pensa ^^
A… quando sarà ^^
Emyna
   
 
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