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Autore: MrsGreyC    29/12/2013    5 recensioni
«A che stai pensando, Sehunnie?» mormora Han riportandomi alla realtà.
«Niente... Solo che sono felice.» E lo sono davvero. Lui, Lu Han, la cosa più bella che potesse mai capitarmi.
«Lo sono anch'io finché sei al mio fianco. Lo sai che ti amo. Adesso e per sempre.»
Oh, sono così felice. Ti prego, ti prego Han, resta per sempre mio.
«Yehet, anch'io ti amo.»
Aggiornamento 21/08/14
Claudia Ricciardi
Genere: Drammatico, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kai, Kai, Lu Han, Lu Han, Sehun, Sehun
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Gold Rain
 
Il cielo si striava di un pallido rosa aranciato, mentre il fuoco si consumava nel caminetto, riflettendo il proprio ardore sulla moquette chiara e consunta.
Ero lì, in quella serena mattinata di marzo. L’inverno si stava pian piano ritirando, la gente iniziava a uscire la sera, le persone ricominciavano a esternare i propri sentimenti.
Eppure io ero lì, a rimuginare davanti al caminetto, circondata dagli unici amici che avevo: l’orrendo ma tanto affezionato pigiama di flanella rosa, la vecchia coperta del mio babbo e, il più caro di tutti, il barattolo della Nutella.
Mi stropicciai le palpebre con la mano libera, ripetendomi come un mantra in testa: “Perché? Perché? Perché?”
L’immobilità cedette il posto alla coscienza, ottenebrando il sordo dolore tentatore, che mi portava a strascicare impunemente verso il piccolo bagno disordinato.
Lì, di fronte allo specchio, riflettevo il viso e, con le mani, mi sistemavo i capelli scompigliati nella consapevolezza che non sarei riuscito a domarli.
Mi sedetti sulla vasca e iniziai a pensare. Pensare a ciò che era successo,  all’errore gravoso commesso, alla vera ragione del mio ingenuo gesto.
Forse non ero più un ragazzino, ma non ero nemmeno un uomo.
Potevo indugiare ancora un poco sulla sottile linea di demarcazione, tanto nessuno sarebbe giunto a chiedermi niente. Mi sarebbe bastato restare stabilmente su quel confine, tra il silenzio e il pianto, senza altalenare.
Presi noncurante un paio di forbici mentre la testa mi si riempiva di quell’unica, abbacinante, odiosa domanda: perché?
Per ogni “perché” che mi rimbombava nelle orecchie, mi recisi una ciocca di capelli, senza badare ai fili dorati che si andavano a depositare sul tappetino azzurro della vasca, creando un contrasto angosciante con i motivi a fiori che lo componevano. Dal mio sguardo tutto si poteva capire, ma l’unica cosa che non vi si poteva trovare era il rancore.
Forse non mi importava soffrire. Forse ero nato per cadere nella stessa trappola più e più volte. Ma non mi importava.
Potevano considerarmi un vero masochista,  ma ammetterlo o ignorarlo non cambiava le carte in gioco. Potevano darmi dello sciocco. Okay, ero uno sciocco. Un grandissimo sciocco.
Il gelido ricordo del giorno precedente continuava a farsi strada nei miei pensieri, a ripetersi negli occhi vuoti.
Quel maledetto giorno, presi posto nel mio banco, l’ultimo della fila vicino la finestra. Guardavo la pioggia che tinteggiava i vetri.
Lui non era ancora rientrato dall’ufficio del preside. Questioni di classe. Quando rientrò eravamo nel pieno svolgimento della lezione di filosofia.
Era seduto accanto a me da più di due settimane e io non riuscivo ancora a spiegarmi come avevo fatto a mantenere la calma fino a quel punto. Era ormai l’ottavo anno che mi ritrovavo nella sua stessa classe.
A lui piacevo. O meglio, gli ero piaciuto per diversi anni. Il sentimento era reciproco, non lo nego. Ma non mi ero mai sentito pronto. Non dopo averlo respinto.
Anni addietro, la precoce dichiarazione mi aveva spiazzata, aveva distrutto in un secondo la mia innocenza. Avevamo solo dieci anni.
“Io sono libero, vuoi metterti con me?” era questa la famosa frase che continuava a ripetere davanti il cancello della scuola infantile di primo grado.
Per quanto poteva sembrare insistente, a me appariva unicamente come una grandissima presa in giro. Odiavo le smancerie per adulti. Non ero ancora abbastanza grande, o abbastanza piccolo, per imitare i veri grandi. Non ero abbastanza.
Non faceva che dirmi quelle parole, in mezzo a tantissime persone, vicino ai miei genitori che mi aspettavano accanto al nonno vigile.
Per me era una farsa per apparire cresciuto. Dopotutto, è questo che fanno i bambini durante l’infanzia: imitare gli adulti cercando di concepire la maturità come un modo di comportarsi, un traguardo da raggiungere, un premio da vincere.
Ma la verità è una sola. Essere adulti non significa affermare da un giorno all’altro di essere cresciuti. È bambino colui che ripete senza sosta di essere il più grande. Bensì è maturo chi afferma di sentirsi ancora un bambino.
Crescere vuol dire realizzare di sentirsi bambini o perlomeno desiderarlo, contrastati da una realtà diversa. Una realtà stressante che insegna ad alzarsi tutte le mattine alla stessa ora, spegnere la sveglia dopo dieci minuti di pesante tortura e seguire la sfilza di impegni che segnano l’agenda, in ogni singola pagina, nero su bianco.
In quel giorno piovoso, il professore aveva introdotto i principi morali di Carnegie, ma la mia attenzione era focalizzata su tutt’altro.
Stavamo dialogando sul banco, utilizzando la mina della matita al posto della bocca. Ci rivolgevamo a vicenda domande stupide. Perché, in fondo, era quello che eravamo: degli stupidi.
E mentre ci parlavo, viaggiavo con la mente pensando a quanto fosse cambiato in quegli otto lunghi anni.
A un certo punto, il discorso prese una brutta piega. Tutto iniziò nell’esatto istante in cui lui mi disse che niente in una persona lo attraeva, se non la bellezza. Era questo che lui intendeva per “piacere”.
“Amare”, invece, non aveva ancora una definizione precisa per lui. E neanche per me.
Tutti noi vogliamo imparare ad amare ma non sappiamo come si fa. Vogliamo essere amati, ma non ce l’ha mai insegnato nessuno. E allora come fare? Non si può sperare di andare avanti succubi di una realtà che da’ delle regole ma non spiega come seguirle.
Il suo discorso mi adirò. Non ci volle molto a superare il limite della mia sopportazione, così scoppiai inevitabilmente. Non riuscii a controllarmi, inutile dirlo.
Era già troppo tardi quando realizzai di aver scritto “ti amo” sul banco, con la mina che si sfumava sulle ultime lettere. Soltanto allora, capii quanto avventato e stupido fosse stato il mio gesto.
Ma quella non era altro che la verità. La stessa verità che per tantissimo tempo avevo cercato di reprimere. Io, Oh Sehun, mi ero innamorato come un idiota di quel diavolo senza scrupoli, Kim Jongin.
Aveva ragione nel dire che “piacere” ed “amare” hanno significati ben distinti. “Piacere” voleva dire essere attratti da qualcuno per l’aspetto o il comportamento. Ma “amare” era non poter proprio fare a meno di quel qualcuno. Ed era questo che provavo. Amore.
Un amore che mi scatenava insicurezza e amplificava tutte le paure che da sempre mi tormentavano.
Lui non mi ricambiava né mi meritava. Era freddo, distante, menefreghista. Non gli importava affatto di me.
Eppure io, nonostante si burlasse di me ogni qualvolta che gli capitava di passarmi affianco, non ne avevo mai abbastanza. Volevo dargli fiducia. Era come se andassi avanti di dolore. Io non facevo che nutrirmi di quel dolore.
Pensandoci, ero solo io lo stupido. Continuavo ad appoggiarmi agli altri, convinto che mai, per nessun motivo, avrebbero tradito la mia fiducia. Seguitavo con questo pensiero, nonostante quella fiducia andasse a inabissarsi, persona dopo persona.
E la cosa più insensata era che non smettevo di crederci, nemmeno verso di lui.
Aveva ragione. Perfettamente ragione. Ma su una cosa si sbagliava. Era vero che “amare e “piacere” non avevano punti in comune. Eppure “amare” non implicava necessariamente anche “piacere”.
Lui non mi piaceva affatto. Non mi piaceva il suo aspetto perfetto, mi faceva rabbia. Non mi piaceva il suo carattere arrogante e sfrontato. Eppure l’unico desiderio che si riverberava in tutto il mio corpo era quello di parlargli, anche se “parlargli” comprendeva essere deriso nuovamente e senza pietà.
Io lo amavo, ma lo odiavo. Per quanto potesse scatenarmi tremolio, insicurezza, corvi pazzi nel ventre, io lo consideravo la persona peggiore del mondo. L’avrei sconsigliato a tutti i miei amici e anche a tutti i miei nemici.
Della sua risposta non mi meravigliai. Ero partito già arreso. Conoscevo il responso prima ancora che potesse affermarlo.
Mi avrebbe preso in giro, ovviamente. Del resto era quello che faceva sempre. Si divertiva a tradire la fiducia che costantemente riponevo e portavo avanti senza timore.
“Capita” trovai scritto sul banco. Figurarsi. Stava diventando prevedibile.
Con un gesto del palmo chiesi al professore di uscire. Mi alzai e, non appena fui fuori dall’aula, iniziai a correre per il corridoio, verso il bagno, avendo per la mente le sue aspre parole, mentre le mani cercavano un pietoso tentativo per asciugare le lacrime amare che mi rigavano le guance.
E ora ero lì, di fronte allo specchio, con i capelli cortissimi e il viso asciutto, impenetrabile. Se avessi avuto la possibilità di tornare indietro, avrei rifatto tutto da capo, ancora e ancora.
Di una cosa ero convinto: era meglio farlo e pentirsene, piuttosto che non farlo e rimpiangerlo.
E, mentre i ricordi mi tornavano alla mente come forti schiaffi, “silenzio, fai silenzio” ripetevo a me stesso. “Non voglio ascoltarti, ho smesso di farlo” recitavo con gli occhi sbarrati mentre le ciocche bionde oscillavano nella loro lenta caduta.
“Ora ho smesso, ho smesso davvero” piagnucolavo nel mio cuore. “Ma se sono quello che sono è anche grazie a te. Ti ringrazio quindi adesso basta. Smettila di tormentarmi”. E così feci. Smisi perfino di fingere di provare odio. Dopotutto non era che una maschera.
Aprii gli occhi e mi sfregai il viso con una manica del pigiama.
Lì, ai piedi dell'oro, avrei sofferto ancora e per molto, ma la mia strada era segnata. Fu proprio in quell’istante che capii chi fossi.
Davanti allo specchio si rifletteva una nuova persona. Non ero io, ma ero ancora io. Dopo aver infranto anche quel poco che scaldava il mio vuoto, capii.
Non avrei permesso più a niente e a nessuno di farmi del male. Non così. Non senza combattere a denti stretti. Fin quando dinanzi a me non si fosse parata l’unica persona in grado di abbattere i miei scudi e di resistere alle mie spine, io non mi sarei arreso. Non avrei concesso più a nessuno di distruggermi senza che prima io non abbia cercato di tirare avanti fino all’ultimo flebile respiro.
Ne sarei uscito con innumerevoli cicatrici, ma del resto chi non ne ha? E poi sarei andata avanti, nuovamente, come un vero guerriero, più forte di prima.
Quello ero io.
Un sorriso di sollievo aleggiò sul mio viso. Ero riuscito a non impormi di cambiare.
Non sarei mai diventato un re degno del suo popolo e delle sue gesta. Sarei per sempre rimasto unicamente e fieramente me stesso.


Tre anni dopo
Gli incubi mi avevano tormentato e perseguitato per un tempo che credevo infinito. Ma ora lo sapevo. Era tutto finito.
Incontrarlo per le strade avrebbe continuato a farmi uno strano effetto, certo. Ma ormai non mi importava, ero in grado di sconfiggerlo anche solo con un dito. Avevo imparato a reagire. E in più, non ero solo.
L’incubo era passato e l’unica cosa che aleggiava in me era la voglia di affetto. Ma non un affetto fatto solo di dolore. Un affetto allegro, puro e reciproco che avrei affrontato, per la prima volta, senza paure e con il sorriso stampato in faccia.

«A che stai pensando, Sehunnie?» mormora Han riportandomi alla realtà.
«Niente... Solo che sono felice.» E lo sono davvero. Lui, Lu Han, la cosa più bella che potesse mai capitarmi.
«Lo sono anch'io finché sei al mio fianco. Lo sai che ti amo. Adesso e per sempre.»
Oh, sono così felice. Ti prego, ti prego Han, resta per sempre mio.
«Yehet, anch'io ti amo.»


                                                                                                                                   

 
Spazio autrice: Buonasera (dico buonasera perché sto aggiornando ora 22/08/2014, ore 1:33) Forse dovrei dire buonanotte, lol.
Dunque, parliamo di questa one shot.
A me personalmente la SeKai non fa impazzire granché. Preferisco di gran lunga la HunHan e la KaiSoo. Ovviamente.
Ma per stavolta, non so come, ho deciso di scrivere una storia molto malinconica in cui Sehun prova affetto per Kai non ricambiato.
La cosa che mi premeva raccontare, non è un amore tutto cuori e fiori... bensì un amore conflittuale. Uno di quelli pazzi, tra affetto e odio, tra gioia e dolore. Uno di quelli che incidono l'anima. Uno di quelli che stravolge ciò che sei.
Un amore che ti fa crescere e ti butta in faccia la realtà anche se non sei pronto.
Ecco, volevo raccontare di un amore profondo, intenso. Un amore verso il proprio nemico più grande.
Un amore da idioti.
Un amore da cui imparare per poi iniziare a combattere.

Non uccidetemi per aver scelto la SeKai.
Come avrete potuto notare nel finale, Sehun è felice con Luhan, quindi non si può parlare di SeKai, ma di HunHan.
Spero che la mia idea folle vi sia piaciuta. ^^
E mi farebbe piacere ricevere qualche parere/commentuccio da parte vostra.
A voi è mai capitato di provare un sentimento talmente forte da farvi felice ma allo stesso tempo in grado di stravolgere ciò che siete?
Yehet, un bacio grandissimo,
Claudia <3

 
  
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