“Questa storia non è mai esistita.”
[Quindicesima Epigrafe, Clarisse
DeCoubert]
Inverno. Il vento a rendere tagliente ogni
cosa. A Parigi, nel 1930 il vetro delle lampade di ogni strada veniva lucidato
con olio di gelsomino. Il profumo, dicevano i Parigini, noi respiriamo profumo.
Pallidi come il profumo del gelsomino d’inverno, e camminavano per le strade dei
vetri lucenti. Guardinga, la penna del poeta finì di scrivere di quel vestito
frusciante, di quella seta così luminosa, di quella pelle santa: i suoi occhi
scorsero le pagine e pensarono al peccato, ma ad un peccato sacro, un qualcosa
per cui anche Dio verrebbe a compromessi. Dio, il gelsomino, l’inverno. Il vento
continuò a spazzare la strada, la Senna, cappelli, stoffe, pennelli, sussurri.
Arrivò fino a lei, fino alla donna dal corpo santo, affacciata alla finestra a
guardare triste il fazzoletto ricamato con le iniziali di lui spazzato via,
impigliarsi in un albero, sparire di nuovo. Artigliare l’aria e sentirsela
sparire.
Rientra, disse l’uomo nella stanza. Resta
alla finestra, disse il poeta. E lei indugiava tra i desideri di entrambi.
Quell’icona di pelle e capelli dalle unghie perlate, odorante di sesso e incenso
e parole ad elencare voglie e desideri, a considerare la bellezza del filo,
dell’offesa, del timore. Insegnami ad addolorarmi,gli disse quella notte,
nell’appartamento di lui. Io non provo mai pietà, tu ne provi? E cos’è? Com’è?
Come quando muore un cane e vorresti che qualcuno lo levasse dalla strada? Lui
dice che gli faccio pietà quando piango. Ma non capisco: sono io che piango, non
lui. Sono io a stare male. Hai detto che la pietà fa star male. Dovrei essere io
ad avere pietà di lui.
I gelsomini, nella stanza. L’acqua
dell’inverno nel vaso. Non è acqua piovana, è acqua minerale, con le bolle che
svaniscono in superficie, appoggiate agli steli verdi, i petali bianchi
galleggianti sull’acqua incolore, ma nera, nera d’ombra. Lui è diverso dal
poeta. Ha la pelle scura, le braccia forti. Lui è diverso da lei. Lui è la
macchina, è la potenza, la velocità. Non c’è grazia nemmeno nei suoi baci,
nemmeno quando passeggia per i boulevard, con il suo cappotto nero lungo. Non
c’è grazia tra di loro, nemmeno quando sono imprigionati nelle lenzuola bianche
e fingono di raccontarsi cose. Le Cose di ogni giorno di grazia , le Cose
comatose che fingono di dormire in fondo alle iridi cangianti, alle pupille
monotone. Stanno sempre lì e vegliano.
Il gelsomino, l’inverno.
A Parigi, nel 1943, nessuno fa più caso ai
vetri delle lampade da ormai tanto tempo. Provando a chiedere si sentirebbe
rispondere quali lampade, quali vetri? Qui non ci sono vetri e gelsomini, qui
c’è solo morte. Ma la donna dal corpo santo è ancora lì, alla finestra, a
rincorrere con gli occhi il fazzoletto con le sue iniziali, chiusa fuori dal suo
appartamento, con solo la sottoveste leggera di seta bianca ad ondeggiare al
vento dei bruschi movimenti, sta ancora lì ed aspetta, stabile nel suo limbo,
stretta nel suo stupore.
Stretta al suo stupore.
Artemisia
This Web Page Created with PageBreeze Free Website Builder