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Autore: Aine Walsh    30/12/2013    8 recensioni
«Dio Cristo! È la Vigilia di Natale!» sbotto stanca e spazientita, seguita da un coro di più o meno venti persone che, come me, hanno appena appreso che l’ennesimo volo per Detroit è stato cancellato.
[...]
«È occupata?» chiede, indicando la poltrona alla mia destra. Ci sono file e file di posti vuoti e lui sceglie proprio di sedersi accanto a me. Mah.
Non che mi dispiaccia, ci tengo a sottolinearlo.
«Sì. Lo tenevo per te. Sai com’è, sono in aeroporto da ore e poi mi sono detta “Hey, potrei tenere un posto a Sam, chissà, magari mi capita di incontrarlo”». Mmm. Forse mio fratello non ha mai avuto tanto torto nel definirmi stupida sin da quando ne ho memoria.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Sam Clafin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Daydreamers’ Carol
I’ll be home for Christmas

«Dio Cristo! È la Vigilia di Natale!» sbotto stanca e spazientita, seguita da un coro di più o meno venti persone che, come me, hanno appena appreso che l’ennesimo volo per Detroit è stato cancellato.
Sto seriamente pensando di impazzire. Da quanto tempo sono chiusa qui? Avrei dovuto prendere il volo delle otto e mezza e magari per quest’ora sarei già stata a casa, coccolata e confortata dalla mia famiglia, e invece no, eh, troppo facile. Perché una delle peggiori bufere di neve degli ultimi anni (a detta dei meterologi) ha scelto proprio il ventiquattro Dicembre per abbattersi violentemente sulla città di New York e costringerla a ritardare voli su voli.
E a proposito di volare, qui volano imprecazioni di tutti i generi, sarà meglio allontanarsi un po’; il Detroit-style non è una cosa da prendere per scherzarci sopra.
Muovo qualche passo in avanti, quando una serie di urla da spaccare i timpani mi fanno voltare spaventata ed è allora che scorgo tra la folla un tipo che agita per aria le braccia come un forsennato. Mi ricorda tanto quell’orco verde dei cartoni animati, quello che piace tanto a Jazzie, come si chiama… Resh? Kresh? Shrek? Uhm, sì, Shrek. Ecco, mi ricorda tanto lui. D’accordo, acceleriamo il passo e cerchiamo un posto al sicuro.
In fondo non ha senso prendersela con hostess, steward, piloti e tutto il resto del personale: non hanno mica scelto loro di far nevicare oggi. Se c’è qualcuno da incolpare è, che so, il clima o la Corrente del Labrador, ma non ha senso prendersela con il cielo e le nuvole per apparire solo stupidi e bisognosi di un ricovero in una clinica psichiatrica.
Tanto vale fare come me: stare zitti e occupare una sedia.
Vago senza avere idea di dove sia e il JFK è talmente stipato di persone che continuo ad andare avanti per minuti interi prima di trovare una zona meno affollata e apparentemente più tranquilla e lontana dal caos. Vedo una fila di poltroncine proprio di fronte ad una vetrata che dà sulle piste innevate e non esito nemmeno un minuto di più a sedermi. Tiro un sospiro. Considerato che sono le cinque passate del pomeriggio, che sto qui a vagabondare da un bel po’ manco fossi Tom Hanks in The Terminal e che ho cambiato più di una volta postazione, alla luce di ciò posso affermare che questa è la poltrona più comoda che abbia trovato finora e che nessuno riuscirà a staccarmi di qui per tutto il resto della serata. Dovrei avere ancora qualcosa da sgranocchiare e sono sempre più sicura che nessun aereo decollerà durante la notte (visto l’ira di Dio che si sta scatenando fuori), ma aspetterò un po’ prima di avvertire casa.
Spulcio nella busta tra le riviste che ho comprato stamattina, ma non trovo niente che valga la pena di essere riletto e, lo ribadisco, non ho alcuna voglia di spostarmi, ragion per cui tiro fuori dallo zaino agenda, penne e block notes. Infilo gli auricolari dell’iPod nelle orecchie, lascio partire la riproduzione casuale e, ahimè, inizio a lavorare nel tentativo di ingannare tempo e noia. Non è che abbia molto da fare, sono solo un’insensata assistente che prende continuamente appunti, ascolta conversazioni altrui, porta il caffè e sbircia il set da lontano durante le riprese. Sì, perché io sbircio sempre il set. Altrimenti non avrei provato a convincere Katrine, la segretaria di edizione nonché grandissima amica di mia zia Sally, dell’importanza fondamentale e quasi vitale di un assistente. Sono stata parecchio subdola e calcolatrice, lo so, ma il fine giustifica i mezzi: desidero lavorare nel mondo del cinema dalla tenera età di cinque anni e non mi sarei mai perdonata di aver sprecato un’occasione simile. Anche perché, vorrei ben dire, dal nulla della mia camera mi sono ritrovata catapultata sul set di Mockingjay e non è poco. Adesso lavoro gomito a gomito con Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson e tantissime altre stelle lucenti della fatata volta celeste dello Star System.
D’accordo, non è vero, nessuno di loro sa della mia esistenza. Ma poterli vedere quasi tutti i giorni non è ugualmente cosa da tralasciare.
Ora però sarà meglio smetterla con le fantasie dell’adolescente che non sono più e tornare alle scartoffie; più mi darò da fare qui, meno avrò da lavorare a casa (sempre ammesso che ci arrivi).
Compilo di qua, compilo di là, canticchio strofe sparse, riscrivo questo qui, cancello quello lì, cambio canzone, rileggo qualche passo del libro e così via dicendo per non so quanto. Sono talmente presa da quello che sto facendo che quasi dimentico perché lo faccio, e non trovo motivo di fermarmi fino a quando all’improvviso un’ombra mi oscura la vista. Sposto impercettibilmente l’agenda per vedere le scarpe del possibile disturbatore: Blazer rosse. Non so se sia maschio o femmina, ma quelle Nike restano comunque una gran bella scelta. Sfilo lentamente un auricolare, poi l’altro, inspiro profondamente e infine alzo il capo preparandomi a mostrare un sorriso cortese.
Capelli spettinati e biondi come la barbetta appena accennata, labbra dischiuse come ad essersi fermate dal dire qualsiasi cosa, occhi blu che mi fissano più confusi che sorpresi.
Meno di un secondo e ho già capito chi sei, meno di due e mi sono già lasciata sfuggire un «Oddio, Sam!» tutto concitato e carico di stupore.
Sì, Sam. Quel Sam. Sam Claflin l’attore, quello che adesso mi guarda con le sopracciglia inarcate e mi fa sprofondare nel baratro della vergogna per essermene uscita con un’esclamazione così idiota.
«Scusami, – mi affretto a dire – non volevo reagire in modo da farti pensare che io…».
Poggia l’indice sinistro tra le labbra e la punta del naso, zittendomi all’istante. «Aspetta. Io ti conosco. O almeno, sono quasi sicuro di averti vista da qualche parte».
Per quanto incredibile e assurda possa apparire questa frase, giuro, giuro che non me la sono immaginata. L’ho sentita davvero perché lui l’ha detta davvero. E vorrei tanto aver avuto un registratore per mandare in loop queste parle durante le mie notti solitarie e insonni.
Ebbene, ho inaspettatamente raggiunto uno degli scopi della mia vita e il mio cervello si è trasformato in un cavallo lasciato andare al galoppo a briglie sciolte.
«Sì, in effetti sì, io sono…».
«Non dirmelo, lo so: devo ricordarlo», mi fa cenno di aspettare con la mano e continua a studiare i lineamenti del mio viso.
Non oso dire altro e sono imbarazzatissima, in più sto letteralmente prendendo fuoco, tanto che se volessi potrei recarmi in pista e sciogliere tutta quella montagna di neve che mi separa da casa senza troppi sforzi. Abbasso il capo stando attenta a nascondermi il viso tra la massa di disordinati ricci color ruggine che mi ritrovo al posto dei capelli e inizio a battere nervosamente tra loro le punte delle mie scarpe.
Okay, è stato molto piacevole incontrarti e scambiare qualche parola con te, ma ora ti prego di togliere il disturbo e andare via, che se continui a guardarmi per un altro interminabile minuto rischio di perdere la mia già dubbia sanità mentale.
«Trovato! – esclama d’un tratto, battendo le mani – Tu sei l’assistente, la ragazza del the… tu sei… sei Hel… Helen…».
La ragazza del the. Ouch.
Helen, la ragazza del the. Doppio ouch.
È una mazzata, ma ciononostante scuoto la testa e sorrido benevola. È già tantissimo che abbia azzeccato le prime tre lettere del mio nome e, ancor più, che in qualche modo mi abbia riconosciuta: non mi sembra il caso di pretendere troppo.
«C’eri quasi: in realtà porto per lo più caffè e il mio nome è Helmi».
«Helmi, certo», si batte un colpetto in fronte come se lo sapesse e lo avesse avuto sulla punta della lingua. È adorabile. «Scusami, non sono un granché coi nomi».
Vorrei rispondergli tante cose intelligenti, roba tipo “Considerato che è abbiamo sempre e solo parlato a monosillabi, stai andando alla grande” e via dicendo, ma tutto quello che mi esce è: «Non importa».
Lo guardo e lui mi guarda. Sorrido a labbra chiuse e lui fa altrettanto. Perché non parla? Perché si limita a dondolare sulle gambe con l’espressione più tranquilla del mondo mentre la sottoscritta sta per andare in iperventilazione? Forse c’entra il fatto che non è lui quello a dover cercare di tener testa ad una bellezza così bella (che il gioco di parole vada a quel paese, sento il cervello friggermi dentro la calotta cranica), dato che io sono… beh, sono e basta, meglio non approfondire la questione.
«È occupata?» chiede, indicando la poltrona alla mia destra. Ci sono file e file di posti vuoti e lui sceglie proprio di sedersi accanto a me. Mah.
Non che mi dispiaccia, ci tengo a sottolinearlo.
«Sì. Lo tenevo per te. Sai com’è, sono in aeroporto da ore e poi mi sono detta “Hey, potrei tenere un posto a Sam, chissà, magari mi capita di incontrarlo”». Mmm. Forse mio fratello non ha mai avuto tanto torto nel definirmi stupida sin da quando ne ho memoria. «Non farci caso, sono stanca, innervosita e dalle dieci di stamattina non ho avuto molte occasioni di socializzare».
«Anche il tuo volo è stato cancellato?».
«Ce n’è forse uno che sia partito, oggi?».
Si siede e accavalla le gambe. Fingo di non farci troppo caso per evitare di mettermi a urlare e mi concentro sulla sua simpatica maglietta con un giovane Johnny Depp in Cry Baby stampato sopra.
«Londra è stata rimandata tre volte» dice.
«Detroit quattro, ho vinto io».
Sorride allegro e alza le braccia in segno di resa. Quelle fossette, Dio, quelle fossette.
Mi ci vorrà un miracolo bello e buono per farmi arrivare a casa indenne.
«Per fortuna ho tutta la discografia di Micheal Bublé caricata qua dentro» dico più o meno stupidamente, picchettando con la mano sull’iPod.
«Questo mi sarà veramente d’aiuto, sì». Mi prendo qualche secondo per capire se mi sta prendendo in giro o no, ma, ahimè, non ci arrivo proprio e preferisco optare per il silenzio. «Mi piace davvero Michael Bublé, eh» aggiunge poi, come se avesse percepito il filo dei miei pensieri.
«Non ne avevo dubbi».
«A me sembrava di sì».
«Ed io ti dico di no» sbuffo.
Avere un bellissimo ragazzo affianco mi porta più problemi che benefici, a quanto pare.
* * *

«Non so quanto tempo sia passato, forse un’ora, e le mie condizioni psico-fisiche peggiorano inarrestabili di minuto in minuto…».
Alzo lo sguardo dall’agenda e mi rivolgo a Sam. «Sono seriamente turbata per te, sembri uscito da qualche film post-apocalittico».
«Dici che dovrei lamentarmi meno?».
«Dico che lamentarti non serve a granché, oltre a dannarti l’anima».
«Ti prego, ne ho le scatole piene così di questa situazione – mima a braccia tese – e ho bisogno di qualcuno che mi tenga un minimo di compagnia… anche per impedirmi di andare a sbattere ripetutamente la testa contro un muro».
«Da quanto sei qui?».
«Da troppo» mormora, sprofondando col viso sui palmi delle mani. È così tenero che mi vien voglia di fargli il cosiddetto pat-pat sulla spalla, ma temo che sarebbe tremendamente fuori luogo e perciò infilo entrambe le mani nella tasca della felpa, giusto per essere sicura di trattenermi.
«Tranquillo, fra quattro o cinque ore ti rassegnerai anche tu come me e allora tutto ti sembrerà più facile».
«Mi sembra stessi dicendo qualcosa come “Tranquillo, fra quattro o cinque ore saremo a casa e non penseremo più a niente che non sia una deliziosa cioccolata calda e fumante”».
Ah, mi imita pure. Embè certo, è attore.
«Mi spiace, la palla di vetro è andata in frantumi quando ho lanciato via la borsa dopo aver saputo del terzo volo annullato. Non sono in grado di darti alcuna certezza, al momento».
Si lascia scivolare sulla poltrona, sconsolato, e poggia la testa sullo schienale. «Gesù. Mi sto anche perdendo il film».
«La tua unica preoccupazione è un film?!» domando sbigottita.
«Non ho detto sia l’unica».
«Però è la più grande».
«Non ho detto nemmeno questo».
«Si capiva dalla voce».
«D’accordo, ma, hey!, stiamo parlando di Mamma ho perso l’aereo!» puntualizza.
No. No, non è serio. È uno di quei suoi tentativi per divertirsi e divertirmi. L'ho visto fare così parecchie altre volte. «Stai scherzando».
«Che c’è, sono uno a cui piacciono le tradizioni... insultami pure».
Soffoco una risata nel vederlo incrociare le braccia al petto come un bimbo offeso a morte. Resto in silenzio per un minuto o due e lui continua a tenermi il broncio, cosa che non mi va affatto a genio e che mi spinge a confessare un piccolo particolare. «Io sono letteralmente ossessionata dalle tradizioni: rivedo Polar Express alle diciassette in punto di ogni ventiquattro Dicembre da nove anni a questa parte».
Sam mi guarda di sbieco. «Questo è il modo di prendermi in giro più subdolo che avresti potuto inventare» mugugna.
«Ti giuro che è la pura e semplice verità. Ho anche dei testimoni oculari dalla mia parte che saranno pronti a confermare quanto sto affermando».
Sorride, si rialza, e solleva le maniche della felpa quasi fino al gomito.
Non fissarlo così, Helmi, non fissarlo così… sono solo braccia, ripigliati!
«Meglio stendere un velo pietoso sulla questione, okay?». Annuisco, sicura di non voler compromettermi ulteriormente e lui prosegue. «Troviamo un lato positivo a tutto il casino che ci circonda, ti va? Non voglio pensare a tutti gli addobbi natalizi che non ho avuto il tempo di sistemare in giro per casa».
«Sarebbe fantastico se ci riuscissi, grazie».
«Se siamo bravi, possiamo trovarne anche più di uno – afferma, grattandosi un punto dietro l’orecchio – Il primo è questo: in qualche modo ci conosciamo». Ci conosciamo solo di vista, ma non mi va di controbattere. Se Sam dice che noi ci conosciamo, allora noi ci conosciamo, fine. «…anche se non ricordavo il tuo nome».
«Non voglio più ripeterti che non ha importanza, intesi?».
«Afferrato. Adesso tocca a te».
Mi guardo intorno, alla ricerca di qualche indizio. Non riesco a trovare nulla di positivo nel trascorrere una delle feste che più preferisco in tutto l'anno lontana dalla mia famiglia… a parte la presenza di Sam, ovviamente, e il fatto di avere un tetto sulla testa che mi ripari dalle intemperie fuori di qui. Schiocco le dita. «Secondo: non ci hanno ancora sbattuti fuori per sovraffollamento o che altro e possiamo approfittare dell’impianto di riscaldamento».
Sam annuisce con convinzione. «Terzo: non siamo soli».
«Rettifico, non siamo i soli a condividere tale triste e sciagurato destino».
«Sai che mi piace come ragioni?».
Lalalalala. A me piaci tu, c’è una sottile differenza. Lalalalala.
Qualcuno chiami un medico alla svelta.
«Era un’idiozia».
«Non è vero. Sei divertente, Pel di carota».
Attimo. Questo non l’accetto. «Pel di carota?! Ci siamo incontrati due ore fa e abbiamo già tutta questa confidenza da poterci affibbiare dei soprannomi?!».
«Non è così?» s’informa, innocente come un marmocchio.
«E vorrei farti notare che i miei capelli sono ruggine, non color carota».
Ridacchia, ma si preoccupa subito di tapparsi la bocca con una mano. Che sia un gesto di rispetto nei miei confronti? Da gentleman inglese vero al 100% qual è potrei anche aspettarmelo.
«Non mi piace la piega che stai prendendo, non mi piace il fatto che mi guardi e ridi sotto i baffi: che stai pensando?».
«Niente» replica, col tono di chi finge palesemente di non sapere qualcosa.
«Sarai anche attore, ma non me la dai a bere».
«Non era nulla di cattivo, te lo posso garantire».
«Va bene, però se è una cosa che ti fa ridere vorrei saperla e scherzarci sopra anch’io. Rendimi partecipe».
«No».
«Sam» lo chiamo, con la voce più dura e autoritaria che mi riesce. Alzo anche un sopracciglio, pur sapendo di non essere neanche lontanamente capace di produrre lo stesso scompenso ormonale che mi creano lui e le sue arcate sopraccigliari.
«Era un’osservazione; posso tenerla per me?».
«Mi riguarda?».
«Sì…».
«Ho la sensazione che tu debba dirmela sul serio, sai?». Punto per me e palla al centro, l’ho convinto.
Abbassa il capo e alza le spalle, giungendo le mani. «E va bene, okay… È che osservandoti sul set pensavo fossi una di quelle tipe serie e musone che vivono esclusivamente del proprio lavoro; invece se riesci a farmi ridere e sorridere in questi momenti a metà tra il catastrofico e l’apocalittico, allora… va bene. Cioè, sei molto più simpatica di quello che appari vista da fuori» conclude con una risata divertita.
Beato lui, io ero immersa per tre quarti nel tunnel della vergogna già a quell’osservandoti.
Arrossisco violentemente. Ho come il presentimento che ritorneremo presto sull’argomento, ma per adesso sposto da me a lui il soggetto della conversazione.
«Anch’io credevo fossi uno di quei tipi seri e musoni che vivono esclusivamente del proprio lavoro, ma poi ti ho visto arrampicato sulla Cornucopia a tirare caramelle in testa a chiunque passasse insieme a Jennifer e Josh e allora ho cambiato idea».
«L’hai visto sul serio?! – esclama a gran voce, con la bocca spalancata e gli angoli delle labbra piegate all’insù – Ah, aspetta. È ovvio che tu l’abbia visto: sei un ninja».
Non urlare, non urlare, non urlare, fallo per quella povera donna seduta alla tua destra che è appena riuscita a far addormentare quel piagnone del suo bambino, non urlare, non urlare…
«Scusa, non ho sentito bene; cosa hai detto che sono?».
Ti sto dando l’opportunità di salvarti, figliolo, non sprecarla.
«Un ninja». L’hai sprecata, preparati al peggio. «Sei silenziosa, ti muovi nell’ombra, nessuno ti vede ma tu riesci a controllare tutti».
Perché mi sembra così dannatamente serio? Serio e simpaticissimo, probabilmente riderei se fossi messo scioccata.
«Un ninja».
«Sì, un ninja. Sai no, quel cartone animato con le quattro famose tartarughe dai nomi italiani che trasmettevano quando eravamo piccoli… ti dicono niente? Io…»
«Sì, – lo interrompo – tu ne andavi pazzo, avevi quella maglietta bianca con Raffaello, Donatello e compagnia stampati sopra».
Mi fa segno di zittirmi con una mano, socchiude gli occhi ed alza entrambe le sopracciglia. «Uh, qualcuno ha visitato il mio profilo su Twitter di recente».
Cazzarola. Come me ne esco da qui?
Pensa, pensa, pensa... Magari concentrati sulla risposta e non sul fatto di somigliare a Winnie the Pooh così facendo.
«L’ho sentito dire da Jennifer». Sì, giusto: dai la colpa all’ignara e bellissima Lawrence che merita un Oscar ad ogni suo respiro.
L’espressione da furbetto abbandona il volto di Sam, lasciandolo in qualche modo più pensieroso. «Beh, Jen ha quel modo di fare tutto suo… è una canaglia. Hai avuto occasione di scambiare qualche parola con lei?».
«Non molto, direi proprio di no. Fai conto che l’unico con cui abbia veramente parlato è stato Stanley Tucci» concludo con un sorriso, ripensando all’allegra conversazione avuta due settimane fa con il mio Caesar Flickerman preferito.
«Oh, Stan! È un grande. Lui e Woody sono magnifici. Fai conto che l’altro giorno…» continua a raccontarmi ma, in tutta onestà, non riesco ad ascoltarlo: tutto quello a cui penso è che sprizza gioia da ogni singolo poro. Ed è sempre così quando si parla del suo lavoro. Prima di incontrarlo di persona e vederlo all'opera ero fermamente convinta di ciò che gli ho detto prima, vale a dire che fosse un musone-tutto-carriera-e-serietà.
Non mi ero mai sbagliata tanto.
«Deve proprio piacerti quello che fai, – affermo incantata, interrompendolo – lo dimostri continuamente. È bello vederti in azione, ci metti l’anima».
Mi guarda ad occhi sgranati per un velocissimo istante, abbassa il capo e mi regala un sorriso imbarazzato ma contento. « Ho realizzato i sogni che avevo da bambino. Sai no, tutti i maschietti sognano di essere pirati, cavalieri, calciatori… io ho avuto la fortuna di poter essere tutte e tre le cose. Per non parlare del fatto che adesso sono anche il più giovane e figo vincitore che Panem abbia mai avuto in Settantacinque anni di Giochi».
«E non è una cosa da sottovalutare» appoggio con la sola differenza che io, rispetto a lui, non sto esattamente scherzando.
«Assolutamente no. Voglio dire, ho dovuto mangiare solo pollo e asparagi per non so quante settimane e ritrovarmi poi a sciogliere più di cinquanta zollette di zucchero in un solo giorno di riprese, ma ne è valsa e ne vale proprio la pena».
Sentitelo, e pensare che certa gente era in grado di definirlo completamente sbagliato per il ruolo di Finnick ancor prima di aver visto il film. Dico, hanno la cellulite nel cervello per caso?
A questo punto dico forse la cosa più sciocca tra le tante fra cui avrei potuto scegliere (però non gli poggio la mano sulla spalla per evitarmi l’autocombustione): «Non mi è permesso scommettere, ma io scommetterei su di te».
Silenzio, mi sa che avrei fatto bene a tenere la bocca chiusa perché l’intelligenza non è mai stata il mio forte. Va bene, ora mi alzo e vado a chiudermi in bagno fino a quando non sentirò chiamare il mio volo.
«Helmi…» mi chiama, sussurrando. Scuoto appena la testa per far cadere qualche ciocca davanti al viso e nascondermi, lasciando scoperto solo l’occhio sinistro. Gli vedo muovere nuovamente le labbra e non ho neppure il tempo di realizzare cosa abbia appena detto che subito alza entrambi i pollici e si allarga in un sorrisone degno dello stesso Garfield. C’è bisogno di specificare che scoppio a ridere e non riesco a fermarmi per almeno un minuto buono?
«Com’è che fai sempre queste facce da cretino?» esordisco, cercando di riprendermi.
«Mi vengono e basta. – risponde, mentre fa spallucce e agita i palmi delle mani all’aria – Senti, non so te, ma io ho parecchia fame: che ne dici di andare a mangiare qualcosa?».
«Ho la sensazione che qui non troverai molte verdure» ridacchio.
Sam scatta in piedi e afferra il suo zaino. «Che verdure e verdure! È la Vigilia di Natale e, anche se siamo costretti a passarlo in aeroporto, io ho comunque bisogno di una cena coi fiocchi!».
«Non posso che darti ragione; cerchiamo almeno di non rendere questo Natale il peggiore della storia».
«Così è deciso. Andiamo a cercare un bel fast-food e imbottiamoci di quelle patatine fritte ipercaloriche che solo voi americani sapete fare» sentenzia qualche passo già più lontano da me.
Raccatto le mie cose e mi alzo. «Vado prima a fare una telefonata, torno subito».
* * *

Mi ripulisco, mando giù l’ultimo sorso di Coca-cola e mi lascio cadere sulla sedia. Guardo tutto quel che rimane sul tavolo e tiro le somme: a conti fatti ho mangiato un panino al bacon, tre fette di pizza e spiluccato una quantità industriale di patatine dalla porzione di Sam. Il bello è che non ho nemmeno un briciolo di senso di colpa. «Devo ammettere che mi piace la tua idea di cenone natalizio».
«Pancia piena cuor contento» recita alla maniera di un bravo scolaretto, prima di addentare anche l’ultimo trancio di margherita. Ha mangiato il doppio di me e non sembra affatto risentirne, fortunato che è.
«Sto scoppiando, – mugolo – non avrei dovuto esagerare».
«Ormai è tardi per i risentimenti, mia cara. Passami un fazzolettino, per favore».
«Ecco bravo, togliti quella macchia di senape da lì» indico.
Si avvicina un po’, sporgendo appena il mento in avanti verso di me. «Va meglio?».
«Decisamente».
«Curiosando sul mio profilo di Twitter avrai sicuramente notato che io e le macchie di cibo in faccia andiamo a braccetto».
«Torni ancora su questa storia?!» sbotto.
«Mh» si limita a replicare, con espressione neutra.
«Cosa?».
«Niente».
«Perché giochiamo sempre a questo gioco?».
«Perché è divertente?».
«Perché sei un bambino» rispondo, alzando gli occhi al cielo. Non sono veramente arrabbiata, tanto meno con lui (non potrei mai, visto l’enorme aiuto psicologico che mi sta dando con la sua sola presenza), e a dimostrazione di ciò scoppio subito a ridere. «Cavolo, sentimi, non sono passate quattro ore e già ti tratto come se fossi il mio migliore amico».
«Ma io sono il tuo migliore amico» afferma risoluto.
«Pr-prego?».
Sam si guarda intorno, poi fa per accovacciarsi contro il tavolo e sgrana gli occhi. Mi inquieta un po’, sembra che stia per parlare di qualche complotto mondiale di estrema importanza e segretezza. «Io sono il tuo migliore amico. Almeno per oggi. Voglio dire, tu sei sola qui ed io sono l’unico amico che hai, quindi sono il migliore perché non puoi paragonarmi a nessun altro».
Okay, Claflin, okay… «Ah, certo. Ragionamento impeccabile».
«Hey, tutto quello che dico è sensato» protesta, di contro alla mia evidente e piccata battuta. Sposta indietro la sedia e si alza. «È un peccato che tu non voglia mangiare altro… Va beh, vorrà dire che mi sforzerò di finire il gelato da solo».
Alt. Gelato! Scatto in piedi e gli afferro il polso prima di potermene rendere conto. Ma quando me ne accorgo non allento mica la presa, anzi, stringo ancora più forte in balia di qualche sconosciuto riflesso incondizionato. Sam fa scorrere lo sguardo dal suo polso quasi interamente sbriciolato a me, tutto sorridente. Io, dal mio canto, credo di essere appena diventata la Ragazza in Fiamme. Letteralmente.
Apro la mano e cerco di darmi un minimo di contegno, sorvolando sulla figuraccia appena fatta. «C’è sempre spazio nel mio stomaco per il gelato, vai tranquillo» dico e noto con fastidio un certo tremolio nella voce. Dannazione.
«Come lei desidera, signorina» risponde, facendomi l’occhiolino. Si allontana lasciandomi ancora in piedi, in evidente stato di trance.
Non lo fa di proposito (?), ma mi provoca come il degno Finnick che interpreta nella saga. Oppure la colpa è mia che sono troppo sensibile a ogni suo minimo movimento. In realtà non sono mai stata una persona troppo espansiva e/o fisica, ma, beh, con lui… potrei… in tutti i sensi… verso l’infinito e oltre…
Oh, ma che sto farneticando?! È sposato! È sposato, e pure con una bellissima donna che ammiro. Io sono un minuscolo e insulso scarafaggetto di fogna in confronto a sua moglie. Un esserino piccolo piccolo piccolo.
Scuoto la testa, mi siedo e poggio una mano sulla guancia: scotta, scotta di brutto. Per un attimo mi viene in mente l’immagine di una me di diciannove anni che, specchiandosi, si accorge con orrore e dolore di essersi tutta bruciacchiata a causa del bollente sole hawaiano; ahi, spero di non essere tanto arrossata. Lancio un’occhiata al bicchiere vuoto tranne che per i tre cubetti di ghiaccio sul fondo. Mi accerto che nessuno nei paraggi mi stia guardando e, quando ne sono sicura, prendo in fretta un cubetto, lo sciolgo tra le mani e le passo sugli zigomi. Aaaaaaaaah, sollievo!
Sam ritorna e posa un’enorme barattolo di gelato sul tavolino. Sono molto, molto, molto stupita: come diamine ha fatto a procurarselo?
«Sono andato sul classico: cioccolato».
Strofino tra loro le mani, contenta come una bimba di cinque anni. «Ottimo».
«Ma solo perché avevano finito i ghiaccioli al limone».
«Ah. Beh, non pensavo ti piacesse il limone».
Ridacchia sommessamente, sta architettando qualcosa. «Infatti non era per me. Era per te».
Appunto.
«Sei pessimo. Sei pessimo ed io non voglio stare a sentirti perché è Natale e anche per quest’anno ho la fedina penale pulita e immacolata».
Mezzo sorriso. Lo odio, lo odio, lo odio, lo odio! «Lo fai per ricevere un regalo da Babbo Natale o per non finire in gattabuia?».
«Che domande: Babbo Natale, ovviamente. Mi aspetto che mi porti un paio di pattini». Apro la confezione e afferro un cucchiaino. Scorgo già all’orizzonte una meravigliosa “sbronza da gelato” che mi terrà compagnia con un simpatico mal di pancia per i due giorni a seguire. Ma chi se ne frega, ho il diritto di essere felice.
«Pattini?».
«Sì, quelli per andare sul ghiaccio».
«Uh, bello. E come te la cavi? Sei brava?».
«Non saprei. Fino a qualche anno fa lo facevo a livello agonistico, poi mi son rotta la gamba e addio per sempre». Una storia molto triste, sì. Così triste da poter essere dimenticata solamente con un po’ di gelato. Faccio per sprofondare il cucchiaino nel barattolo, quando mi sopavviene un lontano ricordo delle buone maniere. «Posso?».
Il biondino di fronte a me annuisce con forza e restiamo zitti per un po’, intenti come siamo a rifocillarci.
Non so quand’è che mi fermo, ma riesco ad avere la forza necessaria per farlo (strano, stranissimo da parte mia) e mollo tutto, senza dire una parola. Quella simpaticona della nausea non ha aspettato troppo a farmi visita. D’oh. Cerco di distrarmi e decido d’ispezionare un po’ la zona intorno: mi trovo da qualche parte sperduta nel quarto terminal, tra l’altro gremito di gente. Alla mia sinistra c’è una specie di piazzola libera con in mezzo un gigantesco albero di Natale decorato con stelline dorate e lunghi nastri di raso arancione; a destra ci sta un’altra vetrata che mi permette di scorgere la situazione fuori di qui: nevica ancora, ma il vento sembra essersi calmato. Anche le nuvole appaiono un po’ più diramate e riesco a vedere appena una striscia di luna che illumina fiocamente parte della pista e i fiocchi che continuano a cadere. Sorrido speranzosa e a poco a poco sento lo sconforto sciogliersi (come neve al sole, toh).
Un colpetto di tosse mi riporta con i piedi per terra.
Ah, già: c’è ancora Sam.
Mi rivolgo a lui che intanto poggia il mento sulla mano chiusa a pugno e prende a guardarmi con un improvviso interesse.
*Il cliente da Lei chiamato non è al momento raggiungibile*
Disagio. Ancora disagio. Forte disagio. Per sempre disagio. Sarò a disagio per l’eternità, fintanto che lui sarà nei paraggi.
Lascia scivolare un dito sul bordo del bicchiere e comincia a parlare con uno strano tono vagamente persuasivo. «Quindi, siamo qui: non ti pare il caso di raccontarmi qualcos’altro?».
Ahi, mi scappa la risatina nervosa. «Tipo?».
«Tipo qualcosa su di te. Parliamo da ore, ma non so ancora nulla che ti riguardi».
Altra risatina. «Non credo sia necessario».
«Stiamo dividendo un buon gelato, io penso sia necessario eccome!».
«E questo che c’entra?».
«Non lo so, ma ti chiedo solo una cosa: parla».
«Giammai» rispondo con aria superiore e incorruttibile, incrociando le braccia al petto.
«A chi hai telefonato prima?».
«Fatti miei».
«Come? Sono o non sono il tuo migliore amico? Queste cose andrebbero dette! – pausa scenica con ammiccamento finale – Era il tuo ragazzo?».
«Non ce l’ho nemmeno il ragazzo».
«Uhm, quindi sai pattinare sul ghiaccio e non hai un ragazzo. E poi?».
«E poi basta, Sam».
Allarga le braccia in modo alquanto strano. «Avanti, siamo compagni di sventura! Suvvia, potremmo essere costretti a passare qui i prossimi tre giorni, non potrai continuare a rifiutarti».
La migliore arma, in questi casi, è il silenzio. Sbuffo scocciata e mi volto dall’altra parte, evitando il contatto visivo.
«Sai che così non giochiamo ad armi pari? Perché tu, nel bene o nel male, sai qualcosa di me, mentre io non ti conosco per niente. È politicamente scorretto, Helmi-non-so-come-vai-di-cognome-perché-non-me-lo-hai-ancora-detto».
La cosa mi sorprende parecchio. «Dici davvero?».
«Ci puoi giurare» afferma.
Abbasso il capo e mi passo una mano sul viso, esausta come poche altre volte in vita mia. «Stoner, Helmi Stoner. Nata in un soleggiato quindici Maggio di ventiquattro anni fa da Connor e Margaret, già genitori di David».
Il mio caro, carissimo interlocutore sorride ampiamente soddisfatto di sé. «Altro da dichiarare?».
«Ho una simpaticissima nonna che compie ottant’anni domani e mi aspetta a braccia aperte per preparare il tradizionale pudding natalizio».
«Si festeggia in grande».
«Più o meno. Era con lei che parlavo al telefono, prima».
«Ah».
«E tu? – butto lì a caso – Immagino che Laura sarà preoccupata».
Si passa una mano tra i capelli e mi sento in dovere di chiedere quanto prima il bis. «A dire il vero, non sa che sono qui».
La mia non deve essere una bella espressione, credo di somigliare ad una copia malriuscita de Il grido di Munch. «Non dirmi che volevi farle una sorpresa di Natale! Sarebbe tristissimo, perché vorrebbe dire…».
Scuote lievemente il capo e alza una mano per fermarmi. «Non sa che sono rimasto bloccato a New York perché non le ho telefonato. Non ci sentiamo da una settimana».
Dannazione a me e alla mia boccaccia e al mio cervello guasto.
«Oh» è tutto quello che riesco a dire. Come se potessi scusarmi così, con un “oh”. Idiota.
Credo sia meglio rimediare, e anche subito, perché piombare nel silenzio proprio adesso sarebbe come scrivere un gigantesco FINE su un gigantesco cartello fissato sulle nostre teste.
«Scusami, non volevo entrare nei dettagli della tua vita privata e… mi dispiace. Non avrei mai pensato che la situazione fosse messa in questo modo, altrimenti non sarei andata a parare lì… Non sono quel tipo di persona che... però tu sul set sembri così tranquillo…».
«A volte fare il mio mestiere torna utile anche fuori dai teatri di posa» risponde, scrollando le spalle. Non mi piace quell’ombra mesta nel suo sguardo, non mi piace per niente. «E comunque non potevi sapere, quindi va bene, non hai da scusarti».
Non voglio fare altri passi falsi. Sono davvero triste, ho sempre pensato che fossero una bellissima coppia e sapere che stanno attraversando un momento di crisi e possano essere sul punto di divorziare mi rammarica. Non riesco nemmeno a concentrarmi sul fatto che cotanta bellezza seduta al mio fianco sia di nuovo sul mercato. Sfilerei il cappello della borsa e ci ficcherei dentro la testa, se questo mi aiutasse sul serio a farmi sparire o a farmi sentire almeno un po’ invisibile.
Un minuto, due minuti, tre, quattro, poi è di nuovo Sam a rompere il silenzio. «Sai, no, certe cose non vanno esattamente come desideri. Accade spesso, a quanto a pare. Puoi sempre provare, ma nessuno ti garantisce la riuscita, non sei convinta?».
Tutto quello di cui sono convinta al momento è di sentirmi preda di una difficoltà che va continuamente crescendo, secondo dopo secondo. «Sarà, ma qualcuno ti ha mai detto che ogni cosa è destinata a durare per l’eternità? Non puoi sapere se e quando ci saranno dei cambiamenti. E parlo per esperienza, eh».
«Oh certo, da gran donna vissuta che sei. Adesso dimmi, tu ci credi nell’eternità?».
Bella domanda, anche se cambiare radicalmente discorso a questo modo mi spiazza un tantino. Mi prendo qualche attimo per formulare una risposta che sia il più coerente e sensata possibile. «L’eternità? L’eternità è come il per sempre: noi umani non riusciamo neppure a pensare ad un per sempre che vada oltre i duecento, trecento anni. È già una marea di tempo se ti fermi a rifletterci così».
«Quindi è un no?».
«Quindi è un no perché non riesco a concepirlo».
Gli scappa una risata che mi puzza un po’ di derisoria. «Evviva la razionalità, dunque! Sarei proprio curioso di sapere cosa rispondi ad un tuo ipotetico fidanzato ogni volta che dichiara di amarti per l’eternità».
«Odio il romanticismo smielato di questo genere, dovrei renderlo noto a tutti. – evidenzio con una faccia disgustata ai massimi livelli – Beh, mettiamola così: se avessi un ragazzo e se questo affermasse una cosa del tipo che hai detto tu, gli ricorderei di essere un umano e non un vampiro pieno di glitter nato dalla penna di una scrittrice che ascoltava troppo i Muse. Senza offesa per la saga e per il gruppo».
«Wow. – mi fissa come si fa con i matti al manicomio – No, davvero. Wow. Sono esterrefatto. Ora forse comincio a capire come mai nessun altro ti aspetta per Natale oltre la nonnina quasi ottantenne».
«Forse la battuta sul ghiacciolo al limone non era tanto brutta. – ammetto divertita – Però aspetta, devi togliermi una piccola curiosità: come hai fatto a comprare un’intera vaschetta di gelato? È ovvio che non era destinata alla vendita».
È buffo, prende a pavoneggiarsi scuotendo la testa a destra e sinistra e battendo ripetutamente le palpebre. «Sono inglese ed ho il fascino inglese, riesco ad ottenere tutto ciò che voglio».
«Sì, certo». Come se lui si vantasse realmente convinto di essere un gran bel pezzo di essere umano.
«Hey, Josh dice che potrei uccidere tutti col mio charm!» protesta.
«Josh è un caso a parte, ritengo sia rimasto traumatizzato dalla commozione cerebrale causatagli da Jennifer».
Sospira. «…d’accordo, il ragazzo al banco mi ha riconosciuto e gli ho dovuto autografare un menù per corromperlo».

* * *

«Che ore sono?».
«Le dieci e trentasette».
«Non comprerò mai più una trappola per topi ora che so come ci sente».
«Prenderai un gatto?»
«Assai probabile, sì».
* * *

Musica.
Sento musica, una melodia, come un coro armonioso di voci in lontananza che si avvicina nota per nota. Batto le palpebre più volte prima di riuscire ad aprirle e, quando riesco, capisco che la difficoltà deriva dal fascio di luce che mi colpisce dritto dritto in faccia. Sollevo il collo indolenzito (sedie e poltrone non sono fatte per schiacciare un pisolino) e mi guardo intorno, ancora un tantino stordita.
Attimo. Attimo attimo attimo. La luce non è artificiale. Cioè sì, i neon sono accesi, ma la vetrata… c’è il sole! Fuori, in mezzo al cielo, splende una magnifica, gialla e familiare macchia gialla! E, non vorrei sbagliarmi, vedo un certo movimento in pista e tutta quella neve di ieri sembra essere in parte diminuita.
E la musica che sento? Adesso riesco a distinguere la canzone: è Jingle Bells, e proviene proprio dal capannello di gente riunito sotto l’albero che ammiravo ieri sera.
Mmm, ieri sera. Ieri sera era la vigilia, quindi… quindi oggi, ora, è Natale. Sì, Capitan Ovvio, è Natale!
Mi volto tutta contenta per fare gli auguri a Sam e… lui non c’è.
Sparito, scomparso, evaporato, dissolto, cancellato, eliminato.
Mi alzo e guardo freneticamente intorno, ma non lo vedo da nessuna parte. Come diamine faccio a ritrovarlo?! Non ho il suo numero di telefono, non so dov’è andato, non so quando se n’è andato… e ho fame. Magari anche lui aveva fame ed è andato a mangiare un boccone da qualche parte; se è così, mi basta “solo” fare un giro veloce dei punti ristoro del terminal per trovarlo. Infilo in fretta lo zaino e faccio per avviarmi, quando una risata risuona alle mie spalle.
«Scappi?».
Oh, eccolo. «Sì, da te. Peccato che tu mi abbia scoperta» rispondo, in evidente contrasto col megasorrisone ebete che sento spuntarmi sul volto. Ammetto che l’idea di restare sola mi angosciava un po’, specie perché sarei rimasta sola dopo aver goduto della sua compagnia e del suo gradevole faccino.
«Ti ho lasciato un biglietto nel caso ti fossi svegliata mentre ero via, non l’hai visto?».
«No, non ho trovato niente».
«Eppure l’avevo poggiato qui sopra» mormora, indicando il mio zaino. Controlla velocemente il pavimento, poi passa a ispezionare le tasche del giubbotto che tiene avvolto al braccio e ne estrae un pezzetto di carta stropicciato. «No, non l’avevo poggiato; ma che importa, ci siamo ritrovati. Croissant?».
«Croissant?».
«Sì, giravo per trovare informazioni riguardo al ripristino dei voli, quando mi sono accorto che erano le otto e ho pensato di comprare la colazione».
Incomincio a pensare che quest’omino qui non smetterà mai di sorprendermi.
«Mangerò solo se stavolta mi permetterai di pareggiare i conti».
«Non si scende mai a compromessi quando si parla di cibo, è bene che tu lo sappia. Adesso siediti e saziati, i miei amici del coro laggiù ci aspettano per cantare insieme Somewhere in my memory di Bette Midler» parla in fretta e mi rifila una brioche ancora tiepida in mano, lasciandomi con tutta una serie di dubbi che a poco a poco, tra un morso e l’altro, proverò a soddisfare.
«Domanda numero uno: scoperto niente? C’è qualche remota possibilità di poter essere a casa entro oggi?».
«Pare che le operazioni di sgombero iniziate la scorsa notte siano già a buon punto e ho sentito mormorare che la situazione potrebbe sbloccarsi prima di pranzo».
«Bene, benissimo!».
«Beata te, le tue probabilità di arrivare a casa in giornata sono maggiori delle mie. – considera, prima di addentare tristemente il centro cioccolatoso del cornetto – A proposito, buon Natale, Stoner».
«Buon Natale a te, Claflin».
Azzarda una pacca sulla spalla che, nonostante la sua delicatezza, mi fa schizzare il cuore fuori dal petto. «Chi l’avrebbe mai detto che l’avremmo passato insieme, eh?».
Non posso entrare in paranoia per una semplice pacca, lo so, ma non posso evitare di iniziare a farmi un film mentale tutto mio, una specie di commedia romantica tutta rose, amore e miele. Insomma, per una che disdegna quasi ogni rapporto fisico dalla quasi totalità degli esseri umani, beh, quello è un gesto affettuoso e familiare, ecco. Di quella familiare intimità fragile e segreta, nascosta ed eccitante, dolce e…
Ahi, quanto sono messa male.
Sospiro impercettibilmente e mi concludo a voler rispondere qualcosa. «Non siamo nemmeno riusciti ad attendere la mezzanotte; ci siamo addormentati come due bambinoni. – osservo – È talmente…».
«Deprimente, sì. Vuol dire che la vecchiaia avanza».
«Che tristezza».
«Puoi dirlo. Se non ti fossi addormentata per prima, e per di più sulla mia spalla, sarei riuscito a restare sveglio un po’ più a lungo», fa l’indifferente ma mi guarda di sottecchi. Sembra chiaro e cristallino che si aspetti qualcosa, qualche mia particolare reazione.
Mi spiace per lui, ma avrà la stessa indifferenza. Decido bellamente di ignorare il piccolo noioso e trascurabile dettaglio della spalla (probabilmente è vero, dato che dopo cena ero già tra le comode braccia del signor Sonno e ricordo pochissimo di quello che abbiamo fatto) e di svignarmela alla svelta anche da questo spunto di conversazione/battibecco/flirt (flirt?!). «A me non risulta che sia andata come dici tu, ti ho sorpreso almeno cinque volte con la palpebra calante. E comunque, non mi convincerai a cantare nessuna canzone. Né ora, né mai».
Mi scruta con le sopracciglia aggrottate. «Questa frase mi puzza di obiezione».
«Perché lo è. Tu fa’ quello che vuoi, io ti guarderò da lontano».
«Dai, Helmi, che fine ha fatto il tuo spirito natalizio?».
No, quella faccia col labbruccio no, non attacca, non funziona, è inutile che mi fissi con tanto d’occhi chiari come un cielo estivo e battendo le palpebre tanto innocentemente e persuasivamente perché nessuno mi costringe a fare qualcosa che non mi va di fare e perciò…
«Okay. Però dammi il tempo di andare in bagno a rendermi umanamente accettabile come le tipe di Plain Jane alla fine del loro percorso».

* * *

Qualcuno mi spieghi perché sto cantando a squarciagola come se non ci fosse un domani.
Anzi, qualcuno mi spieghi perché sto cantando e basta, perché mi sto esponendo a tal punto.
Qualcun altro mi dica perché ci sto prendendo gusto, perché mi sto divertendo. E anche perché mi sento immensamente felice.
Sarà colpa di tutto il cioccolato ingerito nelle ultime due ore, o sarà colpa dell’hostess che ha annunciato che l’imbarco del mio volo avverrà tra circa due ore.
Sarà colpa di Michael Bublé che è l’incarnazione stessa dello spirito natalizio.
Sarà colpa di Sam e del suo maledettissimo e affascinantissimo fascino inglese che mi fa perdere la facoltà di creare frasi di senso compiuto.
Sarà colpa del Natale. Del Natale più buffo che ricordi negli ultimi ventiquattro anni.
* * *

«Di’ pure quello che vuoi, ma non sei così stonata come credi».
«Fammi il piacere! – esclamo – Hai sentito la steccata micidiale che ho preso in Silent night? L’arzillo vecchietto accanto a me mi ha rivolto un’occhiata omicida da farmi rizzare i peli in testa».
«E tu hai sentito le steccate micidiali che prendevo io in ogni singola canzone?».
«Oh sì, me ne sono accorta» affermo, ridendomela sotto i baffi.
Ride brevemente insieme a me. «Ho sempre detto di voler fare tante cose nella mia vita, ma almeno ho avuto l’intelligenza di capire che la musica non fa proprio per me».
«Non posso mica darti torto, no».
«Simpatica. Simpatica come uno spillo conficcato su per... – ci siamo, ora la spara – il piede».
Il piede, certo. Naturalmente.
Allungo due passi e mi piazzo di fronte a lui, continuando a muovermi lentamente di qualche centimetro indietro. «E dai, non puoi negare che siamo divertiti».
Si ferma e si porta una mano al mento, piegando le labbra in una smorfia, quasi a imitare un grande pensatore. O forse sta solo sbeffeggiando l’allampanato presentatore di quello strano quiz televisivo che danno in onda in prima serata non ricordo su quale canale. «In effetti, sì, è stato insolito e carino. Però ho notato che tendi a fuggire da tutti quegli argomenti, per così dire, spinosi che non ti convengono. E pare siano molti» Ah, se n’è accorto. «C’è forse qualche oscuro segreto che dovrei conoscere?».
«Probabilmente sì, non lo nego. Io invece ho notato che tendi a trovare gusto nel mettere in difficoltà la gente che ti sta intorno».
Mi rivolge uno sguardo simil-contrariato, poi ribatte: «Probabilmente sì, non lo nego».
«Cretino. – soffio, roteando gli occhi – Quanto hai detto che manca all’imbarco?».
«Meno di quindici minuti. È una marea di tempo, se vogliamo».
Toh, chissà che sta macchinando adesso. «Dipende, cosa vorresti fare?».
«Vorrei sentirti parlare di te». No che non è un’azione premeditata questa, proprio no. Faccio per ribattere, ma vengo prontamente fermata al primo tentativo da un lungo indice sventolato sotto il naso. «Al diavolo il condizionale, voglio sentirti parlare di te; un po’ me lo devi. Hai parlato molto, ma non hai detto niente. Perché ti ostini a fare la preziosa?».
Oh, ciao Panico. Prego, entra pure. Entra, accomodati e invadi ogni singola cellula del mio corpo senza formalizzarti troppo.
«Non faccio la preziosa, – mormoro, accompagnata dall’odiosa sensazione di non avere niente indosso – è che non mi va. Non lo faccio con te perché sei tu nello specifico, è una cosa che mi imbarazza da morire». Proseguo blaterando nella speranza di fargli cambiare idea, ma niente, Sam è irremovibile. Forse ha ragione quando dice che glielo devo, ma ciò non mi impedisce di giocare l’ultima carta. «È il giorno di Natale, non dovremmo essere tutti più buoni?». L’occhiata truce è di gran lunga più eloquente delle parole. Uffa. «È un’interminabile lista di… stupidaggini, ecco».
«Dimmi le stupidaggini, allora. Le prime cose che ti passano per la testa, a prescindere dalla loro follia o idiozia; non sono nessuno per poterti giudicare». Dannatamente serio, preferivo la versione scherzosa delle ore precedenti.
Alzo le mani in segno di resa. «Fermami quando ti stufi».
«Non credo lo farò. Peccato solamente di non avere dei popcorn in mano».
Tre, due, uno: pronti al decollo.
«Non esco mai di casa senza il mio spazzolino da borsa. Mi piace la cucina indiana e, in generale, mi interessa moltissimo l’India. Quando ero piccola sognavo di lavorare alla Casa Bianca… come inserviente. Una delle mie canzoni preferite è Elephant Love Medley, tratta da Moulin Rouge; è un duetto e la canto sempre per intero, imitando sia Nicole Kidman che Ewan McGregor. Nel corso degli anni mi è stata affidata una quantità incredibile di soprannomi, ma tra quelli che ricordo ne preferisco solo due. Ho una nipote di otto anni che si chiama Jasmine, anche se per me resterà per sempre Jazzie. Se fossi un Pokémon, sarei uno Snorlax. Sono in conflitto con l’intero mondo dei legumi. Tre anni e mezzo fa ho avuto la delusione amorosa più grande della mia vita e non ho una relazione seria da allora. Il primo cane si chiamava Mike ed era un meraviglioso pastore tedesco; anche il mio ex si chiamava Mike, ma il cane era decisamente migliore di lui. Ho una vera e propria ossessione per l’universo Disney e per Stitch, in particolare… hai presente, no, l’alieno blu che somiglia ad un cagnolino?» chiedo, titubante.
Sam annuisce senza proferir parola, limitandosi a sorridermi. Quel sorriso, questo sorriso. Da mozzare il fiato o, come dice mamma, da far venire la vista pure ai ciechi.
Non appare neppure lontanamente annoiato, ma azzardo e domando se possa bastare così. Anche perché i miei muri di cartapesta stanno cominciando a crollare e, dopo l’ultimo “sorriso Colgate”, non mi sento di avere la forza sufficiente per parlare senza il minimo balbettio.
«Ma sì, basta con lo stress psicologico per oggi. Però…».
Però. C’è il però.
Però non dovevi metterci il però di mezzo, ti pare?
Vorrà approfondire la mia situazione sentimentale, mi ci gioco la testa.
«Però vorrei sapere i due soprannomi. Ah, e mi dispiace per il tuo cane».
Avrei potuto letteralmente perdere la testa. Uhm.
«Fin quando si tratta di cose del genere… Il primo è Amber. Papà ha preso a chiamarmi così quando ero ancora piccolissima».
«Per via del colore dei tuoi occhi?» indica.
«Esatto. Molti dei suoi amici pensavano che il mio nome fosse davvero Amber, figurati».
Incrocia le braccia al petto e poggia la schiena contro la parete. «No, meglio Helmi. E il secondo soprannome?».
«Te lo dico se giuri di non prendermi in giro».
«Croce sul cuore! Croce sul cuore e che io possa… crepare. Urgh» termina con una smorfia di totale disprezzo.
«Sono veramente pochissime le persone che lo conoscono, forse anche meno di dieci».
Sam batte un colpo, fingendo eccitazione. «Uh, mi sento come un iniziato a qualche misterioso culto religioso, o a una setta».
Facepalm. «Fingerò di non aver sentito, d’accordo?».
«Sì, sarebbe la soluzione migliore».
Sparo a zero, senza mezzi termini. «Be…iso».
«Non ho capito» dichiara candidamente.
«Be…iso» ripeto.
«Nemmeno ora. Se la smettessi di bisbigliare, sibilare o borbottare, potrei arrivarci!».
«Diamine, Sam! – sbotto – Belsorriso. È Belsorriso, contento?». Più che altro mi sembra sorpreso, non saprei dire in che modo. Spiego: «È stato il mio migliore amico: avevamo nove anni ed io completamente innamorata persa di lui. Non mi ricordo com’è stato, ma un giorno se n’è uscito con questo nomignolo che era tipo il migliore del mondo e mi sono sentita la bambina più felice e fortunata del pianeta». Mpf, manco a farlo di proposito, chiudo la frase con un involontario sorriso che mi attraversa il viso da parte a parte.
Il biondo dall’autostima sotto i piedi che ho accanto mi squadra come si stesse appena accorgendo di qualcosa che gli era sfuggito prima. «Ottima scelta – afferma – Sarà passato tanto tempo, ma ti si addice ancora. La storiella è andata in porto?».
«No, è naufragata prima di salpare. Lui si è trasferito nel Kansas con la sua famiglia e non ho più avuto notizie».
«Sarebbe bastato un solo numero di telefono…».
«Già, ma all’epoca non avevo ancora un cellulare».
Alza un sopracciglio. Di nuovo, per l’ennesima volta.
Ho appena deciso che gliele spunterò via quanto prima, approfittando di un suo pisolino durante le ore di lavoro.
«E adesso ce l’hai?».
«Ehm, certo. Purtroppo sono costretta ad averne uno».
«Purtroppo?».
Sbuffo leggermente. «La prossima volta che rimarremo bloccati in aeroporto, ricordami di parlarti delle mie teorie sul controllo delle menti attraverso l’uso dei cellulari e dei mass-media».
Mi. Faccio. Tristezza.
«Beh, possiamo parlarne in quell’occasione. Oppure possiamo farlo comodamente seduti, io a casa mia in Inghilterra e tu a casa tua a Detroit; sempre che ti vada di usare “la macchinetta infernale”» parafrasa con le dita.
«Mi stai chiedendo il numero di telefono?!».
Signori e signore, la bocca più veloce del cervello!
Non mi sono nemmeno data il tempo di capire se mi stia prendendo in giro o no, che ascolto la mia voce proseguire: «Cioè, sì, potrei usarla per situazioni simili».
Un attimo prima mi ritrovo il suo cellulare in mano e sto digitando il mio numero di telefono, col sottofondo ovattato dell’hostess che chiama i passeggeri del mio volo.
Un attimo dopo gli restituisco l’iPhone con il mio nome salvato in rubrica.
«Credo sia arrivato il momento dei saluti, almeno per ora».
«Credo di sì» asserisco, restandomene lì impalata come un pesce lesso con le braccia saldamente attaccate al resto del corpo.
Quali e quante occasioni sono stata capace di sprecare nelle ultime ventiquattro ore? Mi aspetto di ricevere un rinascimento stile Guinness World Record.
«Possiamo… tentare un abbraccio? Ti va?» farfuglia.
Oh, aspettate. Se lui è in imbarazzo ed io sono imbarazzo, allora siamo entrambi imbarazzati ed è come se non lo fossimo affatto!
Non so cosa questo voglia significare, ma mi butto contro il suo petto e stringo forte le braccia intorno al collo, senza smettere di ridere. È caldo e morbido (non flaccido, attenzione), perché non l’ho abbracciato prima?
«Non smetterò di ringraziarti per il sostegno morale che mi hai dato in queste lunghe e interminabili ore. Non sarei sopravvissuto da solo».
«Ci siamo salvati a vicenda» correggo con fino tono saccente, costretta a staccarmi e indietreggiare di pochi centimetri.
«Passa un buon Natale con la tua famiglia e salutali da parte, anche se non mi conoscono».
In verità, ti sbagli: mamma sa tutto di te. Anche se questo dettaglio è preferibile tenerlo per me, soprattutto considerato ciò che sto per dirgli.
«Fammi sapere quando arrivi, altrimenti sto in pensiero, – ordino, sul punto di mostrare il mio biglietto all’addetta – E, mmm… Sam?».
«Dica».
«Non voglio intromettermi nella tua vita privata, però posso darti un consiglio da migliore amica? Chiama Laura. È Natale, di solito alla gente piace credere nei miracoli e nel romanticismo e in tutte quelle cose lì. Fai una prova; al massimo possono andarci di mezzo i soldi spesi per la telefonata».
Il fatto è che io gli affari miei proprio non riesco a farmeli.
E poi per tutto il tempo che sono stata qui ho avuto l’impressione di essere immersa fino al collo in una sorta di film natalizio di quelli a bassissimo budget, quindi mettiamola in un certo modo e diciamo che il mio ruolo era quello dell’angelo riparatore.
Blatero. Faccio un cenno col capo al mio confuso compagno di (dis)avventure e giro sui tacchi.
«Helmi?» mi chiama, incerto.
«Sì?».
Ho giusto qualche secondo per vederlo sorridere e ridere, non solo con le labbra, ma con tutto il volto e soprattutto con gli occhi. «Grazie».
Alzo una mano in risposta e ricambio il sorriso, poi filo via con il magone alla gola, combattendo con tutta me stessa per non voltarmi indietro. Se lo facessi, temo che gli salterei addosso e lo pregherei di portarmi con sé… il che non è molto saggio da parte della tizia che giusto un due minuti prima ha cercato di darti un consiglio su come salvare il tuo matrimonio.
Solo quando sono già seduta al mio posto, a bordo dell’aereo che mi riporterà a casa, libero un lungo e profondo sospiro.
Mi dispiace aver dovuto andare via per prima, anzi, mi dispiace aver dovuto andare via e basta. Una parte di me sarà eternamente grata alla bufera di neve per avermi dato l’occasione di conoscerlo e di poterlo ammirare in tutti i suoi aspetti scopertamente, senza la necessità di nascondermi dietro una cinepresa, una scenografia, un angolo o che so io.
Però ho la sensazione che qualcosina cambierà, sul set. Non ci saranno rose e fiori, è ovvio, ma ritengo che sarà comunque bello guardarsi e pensare di aver condiviso, seppure con una buona dose di follia, una piccola parte del nostro tempo.

Andate in pace, per il momento ho finito qui.
* * *

1 nuovo messaggio, 12.27

“Piacere di averti conosciuta meglio, Belsorriso Stoner. Ci rivediamo dopo le vacanze!
P.S.: Hai dimenticato il resto delle tue valigie al deposito bagagli”












Blurred lines! (?)

*Taglia il traguardo stile Usain Bolt e inizia a saltare felice e... sola*
Siori e siore, sono lieta di annunciarvi che ho ammorbato anche questa sezione con un papiro di quasi 14 pagine.
Anzi, un applauso a voi che siete arrivati fin qui. *clap clap clap*
A essere onesta, avevo pensato a tante cose carine da scrivere in queste NdA, ma l'età avanza, i miei neuroni sono quel che sono e ho dimenticato tutto ç_ç
La storia non è una delle migliori che abbia mai scritto (se ne ho scritte... uhm) e non c'è un minimo di romanticismo o spirito natalizio, ma devo ammettere di essermi divertita veramente tanto nello scriverla. Scriverla, tsk. Questa shot si è scritta praticamente da sola, Helmi si è scritta da sola. Quindi prendetevela con lei, perchè io ad un certo punto non sono più nemmeno riuscita a tenerle testa.
(Sto parlando seriamente, badate)
Per quanto riguarda Sam... lui è perfetto, stop. Mi sono documentata tanto sul suo conto negli ultimi giorni, ma non garantisco di essere rimasta IC. Quindi niente, perdonami, Claflin.
E perdonatemi voi, per tutto l'orrore (e gli errori) a cui avete assistito per causa mia.

Auguro un buon 2014 a tutti voi (e scappo a vedere Frozen, che s'è fatto tardissimo),
A.


[Ore 23.18]
Ovviamente avevo dimenticato di scrivere qualcosa: essì, mancavano i ringraziamenti.
Se sono stata spronata a scrivere questa fic lo dovete solo ed esclusivamente a loro, le Daydreamers belle, le ragazze che mi fanno sentire normale nonostante i miei evidenti problemi mentali <3 Proprio per questo, fatevi un favore e girate per la sezione attori alla ricerca di fanfiction con la sigla Daydreamer’s Carolnel titolo.
Vi aspetteranno ff meravigliose su tanti talentuosi attori, quali:

Simon Baker (pubblicata)
Robert Downey Jr (pubblicata)
Jared Leto
Neil Patrick Harris
Orlando Bloom (pubblicata)

Liam Hemsworth
Chris Hemsworth (pubblicata)
Christian Bale
Josh Hutcherson (pubblicata)
Matthew Fox (pubblicata)
Christopher Robert Evans (pubblicata)


Vi prego cortesemente di leggerle perchè queste SI' che sono storie.

 
  
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