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Autore: occhicolortempesta    30/12/2013    2 recensioni
Siamo nemici mortali.
Lei mi ucciderà, ne sono certo.
Ma non importa.
Perché probabilmente lei vincerà, riuscirà ad avere una vita al di fuori della povertà del nostro distretto.
M’importa che lei viva, che sia felice.
Io la amo.
Giorno della mietitura/ Peeta's pov
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era il giorno della mietitura.
Mi svegliai di soprassalto da un incubo nel quale venivo estratto per partecipare agli Hunger Games. Ma ormai ci ero abituato, mi succedeva ogni volta.
Andai in bagno e mi lavai, inumidii le mani con dell’acqua e me le passai sui capelli per renderli più ordinati. Ero nervosissimo, Dio solo sa quanto. Mancavano ancora due anni prima che potessi essere escluso dall’estrazione, ce la potevo fare.
Mi sentivo spaesato, mi girava la testa. Mi diressi in cucina dove trovai tutta la mia famiglia già sveglia, ma come al solito non ci parlammo. Neanche una parola. Non eravamo molto uniti a dire la verità, anzi.
Uscii di casa spiccicando a malapena un ‘Ciao’ sussurrato.
Mi preparai psicologicamente a ciò che mi aspettava.
Mi serviva a tranquillizzarmi.
Okay Peeta, c’è una possibilità su trecento che tu venga estratto. È molto improbabile, ma c’è. Non essere nervoso, non ti aiuterà a non essere estratto. Non serve a niente. Affronta il presente come fanno i veri uomini. Senza paura.
Io stesso avevo ragione. Non c’è un vero motivo per il quale avere paura. In fondo, tutti moriamo. Chi prima, chi dopo. Ma prima o poi toccherà a ognuno di noi.
Stavo passando attraverso le strade fangose del Distretto 12, in mezzo a catapecchie di legno mezze arrangiate. Nessuno aveva i soldi per permettersi una vera casa.
Anche le rughe, qui nel Distretto, sono una specie di trofeo. Stanno a rappresentare che sei riuscito a superare ogni cosa. Al contrario di Capitol City. Lì si vive nell’agio, ci si fa impiantare baffi artificiali per somigliare a gatti. Che mentalità contorta.
Il cielo era lievemente nuvoloso ed una leggera brezza mi accarezzava i capelli color oro. Passai davanti ad una catapecchia uguale a tutte le altre, ma speciale.
No, Peeta. Non ci pensare. Con lei non hai neanche la minima speranza.
Sì, proprio così. Quella era la casa della ragazza con le trecce, della ragazza dagli occhi castani in cui vedevo il mare. È strano vedere il mare negli occhi castani, no? Ma in fondo io sono strano. L’unica cosa di cui ero certo è che ero (e sono) perdutamente innamorato di lei dalla quinta elementare. Non le avevo mai parlato, ma pensavo che non avrei provato più niente di simile per qualcun altro. Allo stesso tempo ero consapevole che lei non avrebbe provato mai niente di niente per me. Ma cosa ci posso fare, l’amore è così ambiguo.
Davanti a me in quel momento si trovava il luogo dove due sfortunati ragazzi sarebbero stati praticamente messi a morte per intrattenere il mondo dei ricchi. Ma sento che quest’anno sarà diverso, non so. Ho questo presentimento.
C’era già molta gente, la mietitura iniziava di prima mattina solitamente. Mi misi in fila e aspettai, da solo. Tutti mi hanno sempre disprezzato perché essendo figlio del panettiere ho avuto i soldi per vivere una vita normale. Quindi non ho nessun’amico. Nessuno che si offra per me in caso di estrazione.
Arrivò il mio turno, e mi punsero il dito per prendere un po’ di sangue allo scopo di registrarmi negli elenchi dei presenti. Fece un po’ male, e poi gli aghi mi hanno sempre fatto impressione.
Così mi misi insieme agli altri ragazzi, aspettando.
Finalmente una signora dai capelli ossigenati, uno strambo vestito porpora e scarpe e trucco in tinta salì sul palco (o se così si può definire quella piattaforma sgangherata).
Iniziò a dire cose insensate sugli Hunger Games e fece partire l’introduzione. Chiamano così il video in cui quelli di Capitol City giustificano in modo ridicolo quegli orrendi giochi della fame.
-Prima le signore!- dice lei, marcando l’accento sulla s come si usa nella sua ovvia città natale.
Ero davvero nervoso. E se fossi stato estratto? So che c’era una possibilità su mille, ma c’era.
La signora fece roteare la mano nella boccia contenente i biglietti con i nomi di ciascuno per un tempo che mi sembrò interminabile.
Ne prese uno, e lo srotolò.
Si schiarì la voce, e pronunciò il nome.
-Primrose Everdeen. –
Successe tutto in un momento.
Vidi una bambina esile dalle trecce bionde avviarsi verso il palco spinta dai Pacificatori. Aveva in volto un’espressione di puro terrore, chiunque la vedesse sapeva che non sarebbe resistita un attimo in quell’arena, qualunque le fosse toccata quell’anno.
Una parte della camicia bianca le era uscita dalla gonna beige, come una coda di papera.
Buffo.
Se la risistemò, ed un istante dopo si sentì urlare disperatamente –Prim! –
Guardai da dove proveniva quell’urlo.
Ed era proprio lei.
Katniss.
Quel giorno aveva un vestito azzurrino e i capelli erano raccolti in una treccia. Era bellissima.
-Prim! -
Davanti a lei si aprì un varco fin dove si trovava la bambina.
La raggiunse e con un movimento del braccio la portò dietro di lei.
-MI offro volontaria! – ansima. –Mi offro volontaria come tributo! –
C’era un po’ di trambusto sul palco.
In effetti un volontario nel Distretto 12, in cui tributo era sinonimo di cadavere, non si era mai visto.
La signor cercò di dire qualcosa, ma il sindaco la bloccò.
-A che serve? Lasciate che venga. – disse egli.
La ragazzina era dietro di lei, che gridava isterica e la stringeva come in una morsa con le sue braccine magre. –Katniss, no, non puoi! –
 ‘Lasciami andare.’ Sembra che le dica.
Ero sconvolto. Lei no, non poteva morire. Non lo meritava. Perché proprio lei? Sarebbe morta di sicuro. Ed io, probabilmente sarei morto insieme a lei.
Un ragazzo alto, bruno e oggettivamente bello prense tra le sue braccia Prim e disse qualcosa che non capii a Katniss. Poi si allontanò e portò la bambina da quella che pensai fosse sua madre.
Così la ragazza si fece forza, e salì i gradini, andando incontro alla sua triste sventura.
Le venne chiesto il suo nome.
-Katniss Everdeen. –
-Mi sarei giocata il cappello che quella era tua sorella. Allora facciamo tutti un grande applauso al nostro nuovo tributo! –
Ma nessuno battè le mani. Prima o poi, uno dopo l’altro, tutti portarono le dita in mezzo della mano sinistra sulle labbra e poi le tensero verso di lei. È un antico gesto della nostra zona, un gesto che significa gratitudine, significa ammirazione, dire addio ad una persona a cui vuoi bene.
Sembrava sul punto di piangere, ma si fece forza.
-Ed ora è giunto il momento di estrarre il tributo maschio! –
Mise la mano nella boccia e prese la prima strisciolina che le capitò tra le dita.
Ebbi appena il tempo di pregare che non uscisse il mio nome prima che lo pronunciasse.
-Peeta Mellark. –
Sì.
Ero proprio io.
Tutti si voltarono verso di me, pensai di aver stampato in faccia lo shock che provavo.
Morirò, ma in quel momento l’unica cosa che dovevo fare era affrontare la morte a testa alta, da uomo.
Avevo alcuni fratelli, ma era ovvio che non si sarebbero mai e poi mai offerti al posto mio.
Così mi feci strada fra la folla e mi diressi verso il palco. Guardai Katniss e potei leggere il suo disagio nell’avere me come compagno tributo. Probabilmente si ricordava della nostra unica interazione. Quando le lanciai un pezzo di pane salvandola dal morire di fame.
Ma ora non conta.
Siamo nemici mortali.
Lei mi ucciderà, ne sono certo.
Ma non importa.
Perché probabilmente lei vincerà, riuscirà ad avere una vita al di fuori della povertà del nostro distretto.
M’importa che lei viva, che sia felice.
Io la amo.
   
 
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