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Autore: Harriet    23/05/2008    3 recensioni
Un evento del passato è ripiombato all'improvviso nella vita di Arianna, giovane regista teatrale. Se è vero che il teatro è terapeutico, allora forse la cosa migliore è affrontare questo evento... tramite lo spettacolo che la ragazza sta scrivendo. Ma non sarà così facile. Sembra che i ricordi, i segreti e i fantasmi - di ogni tipo - abbiano deciso di non lasciarla in pace...
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve!

Questa storia partecipa alla III Disfida di Criticoni, Brainstorming. Ci sono stati assegnati 6 temi, tirati a sorte, più uno jolly, a scelta, sui quali costruire la storia.

I miei prompt erano questi:

* Minuetto - Mia Martini
* Fighter - Christina Aguilera (canzone + video)
* Immagine 14 e immagine 23.
* Il ricordo è un modo di incontrarsi. (Jibran Khalil Jibran)
* La guerra è un gioco che si gioca sorridendo. Se non sai sorridere, sogghigna. Se non sai sogghignare levati di mezzo, finché puoi. (Winston Churchill)
PROMPT JOLLY: The reports of my death are greatly exaggerated. (Mark Twain)

Spero di averli usati abbastanza decentemente, in modo che possiate rintracciarli nella storia. Il tentativo è stato quello di “inseguire” la trama attraverso questi “indizi”...

Una delle realtà nominate in questa storia esiste davvero. Non la conosco benissimo, ma per i contatti che ci ho avuto mi affascina tanto e mi piace davvero, quindi l’ho infilata nella mia storia. Sia chiaro - non ci sono riferimenti a nessuna persona precisa. E naturalmente, i protagonisti sono tutti inventatissimi. E se a S. Giovanni V.no esiste qualcuno che si chiama Luciani di cognome, mi perdoni: io non lo conosco e il cognome del protagonista è stato scelto a caso!XD

Con il teatro, invece, di rapporti ne ho parecchi, e mi è venuto molto naturale sceglierlo come scenario per questa strana vicenda.

Buona lettura!






Nella nostra terra invisibile




14 aprile


- No, così non va bene. Togliti di lì, Caterina. Non lo so, non riesco a capire... Provate a spostarvi sulla sinistra. Oh, e levate di mezzo quel vaso di fiori, sembra di essere...-

Non si venne mai a sapere dove sembrava di essere. L’eloquio della giovane donna che sbraitava, in piedi su una sedia, si prosciugò all’improvviso. Scese a terra, con aria depressa, e andò a cercare rifugio dalle crudeltà del mondo nei suoi pensieri. Si accoccolò su una delle poltroncine rosse del teatro e scivolò in un profondo silenzio.

Sul palco, quattro persone rimasero a fissare la loro regista in preda a una crisi di identità, con l’aria di chi è ormai abituato e rassegnato a quel genere di cosa.

- Dieci minuti di pausa...- annunciò lei. I quattro si scambiarono un’occhiata e poi, lentamente, sparirono dietro le quinte, lasciando il palco deserto e la regista sempre più distante dalla realtà.

- O la sua sindrome premestruale dure tutto il mese, o sta dando fuori di testa!- esclamò uno dei fuggiaschi del palco, gettandosi su una polverosa poltrona, che non gradì l’improvviso arrivo del suo peso.

- Non dire così.- protestò Caterina, l’attrice protagonista.

- Ehi, mica ho offeso te...- si difese l’altro, affondando ancora di più nella poltrona.

- Non è una bella cosa da dire!-

- Senti, non sarà bello, ma è vero.- insisté lui. – E’ completamente andata! Non ci sta con la testa! Ma hai visto che...-

- Piantala, Andrea.-

Dal basso della sua poltrona, Andrea guardò con stupore l’uomo che aveva sentito parlare sempre e solo sul palco, Cosimo.

- Ora è colpa mia perché quella è pazza!- sbottò Andrea, alzando la voce oltre i toni del civile.

- Non è colpa tua, ma noi la conosciamo da molto più tempo di te, e non ci va che tu ne parli così.- rispose Cosimo.

- Il fatto che la conosciate non giustifica il vostro rifiuto di ammettere che è pazza.-

- Non è pazza!- disse con forza Caterina. – E prima non era così. E’ una ragazza in gamba. Ha messo su questa compagnia da sola, quando era ancora all’università, e insieme abbiamo fatto cose meravigliose.- La giovane donna aveva le lacrime agli occhi. – E per me è doloroso vedere che qualcosa l’ha ridotta in questo stato!-

- Sì, sì, va bene, scusate.- si affrettò a borbottare Andrea. – Però si può sapere cos’è, che l’ha ridotta in questo stato?- Ma prima che gli altri tre potessero rispondergli, si infilò in uno dei camerini, forse per sbollire il nervoso in solitudine.

- Non vorrei fare ipotesi avventate, ma forse un’idea ce l’ho.-

Tutti si voltarono verso il quarto attore, Giovanni, che come era suo solito si era mimetizzato con il nero dei tendaggi che dividevano il palco dalle tenebre del retroscena.

- Vai a dirlo ad Andrea. Così magari si calma un po’.- commentò Cosimo.

- Invece non ho assolutamente intenzione di farlo. Se la ragione è quella che penso io... Preferisco che lo sappiano gli amici, e basta.-

- Ma di cosa stai parlando?- domandò Caterina.

Giovanni tirò fuori di tasca un piccolo ritaglio di giornale, un trafiletto di cronaca delle pagine cittadine, datato un paio di settimane prima.

- Di questo.-


La promessa del teatro giovane della Toscana giaceva ripiegata su se stessa, in una triste poltroncina della platea del piccolo teatro dove la sua compagnia era solita provare.

Arianna Chiari era una persona impulsiva, testarda ed emotiva, e di tutto questo era sempre stata consapevole. Si faceva un certo vanto della propria autocoscienza, anzi. Conoscendo propri difetti, negli anni aveva elaborato innumerevoli strategie per imparare a vincerli. Sapeva come prendersi, come addolcire le proprie fissazioni e come allentare le tensioni, quando i sentimenti avevano la meglio su di lei.

Mai e poi mai si sarebbe aspettata di andare a finire in quella situazione.

Eppure, di cose complicate, dolorose e inaspettate ne aveva affrontate tante! E a dire la verità, quella cosa non era né complicata né dolorosa.

Solo inaspettata, ecco.

Non ci si poteva ridurre così, sui confini dell’isteria, solo per una cosa inaspettata.

Infierì spietatamente sui suoi ricci castani, tirandoli indietro, annodandoli e arruffandoli furiosamente, e infine raccogliendoli in una crocchia precaria tenuta su da una matita verde.

Forse era meglio dire ai ragazzi che per un paio di settimane le prove erano sospese. Tanto erano perfettamente in pari con la tabella di marcia. E i suoi attori erano bravi. Andrea, la new entry, era un po’ troppo sicuro di sé e convinto di essere un figo irresistibile, ma c’era tutto il tempo del mondo per fargli capire con dolcezza che l’umiltà è una delle più belle virtù del mondo. E poi...

... e poi non aveva senso sospendere le prove. Insomma, il teatro era anche un modo per sfogarsi e liberarsi dei pesi della vita, no? Bene, e allora trovato il modo di liberarsi da quella stupida cosa inaspettata!

- Fine pausa!- chiamò, cercando di mantenere salda la voce. Qualche istante dopo i suoi quattro attori riemersero dalle quinte.


- Caterina, vieni avanti.-

L’attrice fece qualche passo. Era robusta, ma aveva imparato a muoversi con una grazia unica. Si fermò sul proscenio, speranzosa, aspettando indicazioni dalla sua regista.

- Dobbiamo trovare un modo per esprimere i sentimenti di questa donna. Ci vuole qualcosa di particolare. Di simbolico.-

Caterina scosse la testa, come per dire che non capiva.

- Non ho mai esagerato con i simbolismi e le stranezze.- continuò Arianna. – Ma credo sia arrivato il momento di lanciarsi. Di osare. No?-

- Uhm... Se ti viene qualche buona idea...- balbettò Caterina.

- La storia d’amore della protagonista è finita nel peggiore dei modi.-

- Da quando c’è una storia d’amore, in questo spettacolo?- domandò Giovanni, emergendo dalla sua mimesi con la scenografia.

- Da adesso.- rispose Arianna. – Credo che riscriverò alcune cose.-

- Ma abbiamo già imparato...- tentò di protestare Andrea. La donna non gli diede tempo di finire.

- Saranno pochissimi cambiamenti, e per la maggior parte cose inerenti alla scenografia e ai movimenti. Sono sicura che ce la farete benissimo! Allora, stavamo dicendo... si parla di una situazione cupa. Senza poesia. Dobbiamo trovare un modo di rendere le cose grigie, spente...-

- Eliminando il puff arancione, magari.- borbottò Andrea, dando un calcio all’oggetto appena nominato.

- I fiori!-

I quattro attori trasalirono, avvicinandosi istintivamente come per proteggersi dall’improvviso moto di follia della loro regista.

- Toglieremo i fiori. Cioè, lasceremo gli steli.-

Silenzio imbarazzato.

- Lasceremo il vaso con gli steli dei fiori. Niente corolle. Vuoto, grigio, spento, senza speranza.-

- ... ehm...- iniziò Caterina, decidendo di rinunciare un attimo dopo, di fronte allo sguardo leggermente maniacale di Arianna.

Quel commento denso di significato fu l’unica risposta che la regista ebbe dai suoi attori. Ma le bastò.

- Tagliate le corolle, subito!-

- I fiori sono finti, Arianna.- le ricordò pazientemente Cosimo.

- Tanto meglio.-

- Fuori di testa...- borbottò Andrea, avventandosi sui poveri fiori plastificati per iniziare ad accanirsi su di loro con un temperino estratto da una tasca.

Caterina si impose di sorridere, per non mettersi a gridare. Cosimo si lasciò scivolare sul puff arancione. Giovanni fu l’unico a non distogliere lo sguardo da Arianna, ma lei si era già proiettata di nuovo in uno dei suoi mondi, del tutto ignara di ciò che accadeva lì sul palco.


Giovanni l’aspettava fuori dal teatro, dopo le prove. Se n’erano andati tutti in fretta, e lei era rimasta sola a chiudere il teatro. Si domandò per quale motivo le avesse teso un’imboscata, invece di rimanere con lei mentre chiudeva, se aveva qualcosa da dirle.

- Ehi. Posso disturbarti un minuto?-

Era alto e magrissimo, con un viso inquietante e una massa di capelli neri e ricci. Come sempre era pensieroso e cupo, e sembrava certo che la sua presenza fosse un disturbo per l’intero sistema solare. Arianna sorrise, per metterlo a suo agio.

- Ma certo! Tutto bene?- gli chiese.

- Era quello che volevo chiedere io a te.-

- Volevi chiederlo a me? Come mai?-

- Sei molto strana.-

- Non è niente, non devi preoccuparti.- minimizzò lei, seccata dal fatto che lui volesse indagare su fatti che non lo riguardavano.

- Sei davvero molto strana. Scusami, ma... Sei sovreccitata. Non è da te.-

Arianna si fece seria e subito dopo gelida.

- E non è da te, invece, interessarsi di cose che voglio tenere per me.-

Giovanni fece un piccolo passo indietro, un movimento istintivo di quelli che fanno le persone abituate ad essere ferite.

- Scusami. Hai ragione. Non dovevo permettermi.-

Le voltò le spalle, ma sembrò ripensarci un attimo dopo. Si fermò e tirò fuori dalla tasca il ritaglio di giornale. Glielo porse, senza una parola.

- Cosa...-

- E’ per questo?-

Non doveva importargli. Non era autorizzato ad entrare nei suoi segreti! Ora gliene avrebbe dette due.

Ma poi si calmò, incapace di fare male all’amico.

- Probabilmente sì.- ammise, con un briciolo di voce. – Ma passerà in fretta. E’ stata solo una cosa inaspettata. Solo quello.-

- Non c’è niente di male nell’essere sconvolti per una cosa del genere.-

- Ma io non sono sconvolta!-

- E’ che...-

- Stai tranquillo, non voglio scappare da questa cosa.- tentò di rassicurarlo lei, tornando a sorridere. – Anzi, ti dimostrerò che voglio affrontarla. E’ per questo che ho deciso di modificare un po’ lo spettacolo. Vedrai, utilizzerò il teatro in modo terapeutico!-

Giovanni fece un sorriso timido.

- Niente gambi senza corolle, però, vero?-

Arianna sembrò rendersi conto solo in quel momento dell’assurdità della sua idea. Scoppiò a ridere, facendo cenno di no.

- Promesso. Niente gambi senza corolle. La prossima volta tirerò fuori un’idea dignitosa.-


Gambi senza corolle. Questi registi moderni sono allucinanti.

E’ solo una fase transitoria. Passerà.

Nel buio silenzio che riempiva il teatro c’erano voci provenienti da altri tempi e altri mondi, che echeggiavano, nei grandi spazi. Le cose, lì nell’oscurità, perdevano consistenza. I gambi senza corolle abbandonati sul palco, come i ricordi abbandonati ovunque.

I vecchi spettri del teatro discutevano sulla follia della regista.

Il tempo si cristallizzava in momenti eterni, nei luoghi pieni di memorie.

E tutto questo si scioglieva in miriadi di immagini confuse, nel sogno di Arianna.



17 aprile


- Crisalidi e farfalle?-

- Esattamente.-

Questa volta c’era tutta la compagnia presente, e nemmeno uno dei suoi quindici membri era sicuro di aver capito bene.

- Cioè tu vorresti che...- iniziò titubante Laura, facendosi piccola piccola in un angolino (considerando le sue dimensioni, non era un’operazione facile.)

- Che noi...- la aiutò Elisa, quasi indignata.

- Ci vestissimo da crisalidi e farfalle?- concluse Margherita, quasi gridando.

- Solo in un intermezzo. Sarà una cosa particolare, aiuterà il pubblico a cogliere il significato della storia.-

Arianna sembrava così tremendamente convinta di sé e certa che quella fosse una buona idea...

- A me sfugge il senso.- affermò Andrea.

- Rappresenta la rinascita della protagonista.- spiegò Arianna. – Ciò che nella sua vita è andato a finire male non è per lei un blocco. Lei è diventata più forte, ha imparato a combattere. Il significato della farfalla mi sembra abbastanza evidente, qui.-

Silenzio. Stava diventando una reazione sempre più frequente.

- A parte che così dovresti rimaneggiare la storia di nuovo .- le fece notare cortesemente Lorenzo, il più giovane dei suoi attori. – Ma non ti sembra un po’ esagerato inserire un intermezzo di crisalidi e farfalle? Potremmo, che so, magari dipingere le farfalle da qualche parte. Insomma, ci sarà un modo meno... estremo... di simboleggiare questa cosa?-

Arianna sembrò non gradire quell’intervento, nonostante fosse stato espresso con la massima calma.

- Posso sapere perché vi urta tanto l’idea?-

- Perché questo è uno spettacolo tendenzialmente realistico, non qualcosa di surreale o simbolico!- insisté il ragazzo. – Non dico che non possa essere una buona idea, ma non in questo caso. Insomma, dovresti saperlo: uno spettacolo nasce in un certo modo, c’è un progetto coerente. Se continui a infilarci dentro cose senza collegamento, non è più uno spettacolo, è un minestrone!-

- Bene, sarò la prima fautrice del teatro-minestrone. Voglio una protagonista che rinasce e impara dal passato. E voglio farfalle e crisalidi. –


Staccò l’interruttore generale e tutte le luci si spensero, all’unisono. Ma era un pomeriggio di aprile, e una luce azzurrina, tenue e triste, trovava il modo di filtrare all’interno del teatro, da mille passaggi e finestre.

Si affacciò sul palco e vide le carcasse di stoffa e fil di ferro di cui aveva voluto popolare la sua storia. Crisalidi e farfalle. Erano due settimane che provavano quella nuova versione dello spettacolo, e non funzionava nemmeno un po’.

No, a dire la verità, faceva proprio schifo.

Le sembrava di sentire il coro tragico dei personaggi di secoli e secoli di teatro, evocati dal nulla, che le urlavano il loro sdegno. Probabilmente, da qualche parte, c’erano gli spettri del teatro che tramavano per farle cadere addosso un pezzo della scenografia, e cancellare per sempre dal mondo quell’essere che insozzava l’essenza stessa del teatro!

Avanzò a tentoni e inciampò su una crisalide particolarmente aggressiva. A terra, sconfitta, si lasciò andare ai pensieri.

Non aveva proprio senso.

Un mese prima – sì, perché era già passato un mese – aveva letto sul giornale della morte eroica di un uomo, che era salito su un cornicione per recuperare una bambina che era finita lì chissà come. L’uomo l’aveva presa e passata alla madre, ma poi aveva perso l’equilibrio ed aveva fatto un’orribile fine.

Gloria e lodi all’eroe e al suo sacrificio.

Benedetto Luciani, 35 anni, nato a *** (Arezzo.)

Già, e anche un maledetto approfittatore, stupido e pieno di sé, e scostante, irritante, pretenzioso, lunatico e fuori da ogni logica! Ma tutto questo sul giornale non c’era scritto.

Non c’era scritto nemmeno di quel tipo dall’aria stranamente fragile e strafottente allo stesso tempo, che era arrivato all’improvviso nella sua esistenza. Quel tipo che sapeva farti parlare per ore di cose che non credevi potessero essere nemmeno lontanamente interessanti. Lo stesso che ti istigava a leggere autori semisconosciuti, a non avere pregiudizi sul cibo del mondo, e neanche sui suoi più bizzarri abitanti.

E poi, la cultura smisurata di quell’uomo, il suo modo pacato di discutere, le sue malinconie improvvise, capaci di congelare l’aria attorno a loro... E quegli ultimi orribili mesi, in cui lui spariva per giorni, non dava notizie, poi lasciava cadere mezze frasi inquietanti sul bisogno di chiudere quella storia... salvo poi ricomparire la notte, e chiederle, con uno sguardo implorante, di esserci, per lui, di nuovo. E lei, incapace di ribellarsi, lo lasciava entrare, di nuovo.

Si era sempre chiesta com’era avvenuto che una persona come lei avesse aperto il suo mondo a quello strano viandante. L’idea che gli artisti siano tutti dei folli eccentrici era un pregiudizio. Lei era quieta e modesta. Niente follie, niente eccentricità. Una casa piccolina, un atteggiamento timido. Prima di lui aveva avuto solo un’altra storia, all’università – perché i sentimenti sono una cosa seria, e non ci si può legare alle persone per scherzo.

E si era lasciata rivoluzionare da lui. Aveva cambiato abitudini, principi, colori, tutto per quella persona. Forse era stato lo sguardo di lui, a vincerla. Se il mondo di lei era piccolo, non lo era il suo modo di osservare le cose. Forse aveva visto in lui qualcuno capace di abbracciare interi universi con lo sguardo.

Aveva cercato di capirlo e aveva intuito che nascondeva delle ferite profondissime, oltre il fascino e la quiete. E aveva provato con tutta se stessa ad essere un po’ casa, sperando forse di guarirlo...

Ma lui, dopo mesi di un rapporto folle, frammenti di sentimento e parole incerte, malinconia sempre più struggente e apparizioni notturne odiate e desiderate, se n’era andato.

Erano passati due anni dall’ultima volta in cui lo aveva visto. In quei due anni aveva tentato di dare un senso al pezzo di vita che lui aveva segnato, ma non le era riuscito. Si era detta che, prima o poi, avrebbe dovuto cercarlo, chiedergli la verità. Un confronto diretto era l’unico modo per sciogliere finalmente tutti i dubbi.

E ora quell’immenso idiota aveva deciso di chiudere davvero, non solo con lei, ma con il mondo intero, uscendo di scena da eroe! Non era giusto! Era una fuga!

L’aveva saputo dal giornale. Lui l’aveva estromessa dalla sua esistenza al punto che nessuno dei suoi conoscenti aveva pensato di avvisarla. Tre anni della sua vita, un trafiletto nelle pagine di cronaca locale di un giornale.

Davvero triste, sì.

Eppure non era stato né doloroso né sconvolgente. Solo inaspettato. Perché ridursi così, sull’orlo dell’isteria, per una cosa del genere?

Crisalidi e farfalle.

Era tutto molto stupido e confuso.

Si alzò in piedi, calciando una crisalide. Avrebbe cambiato tutto di nuovo. Non era con queste metafore patetiche che si superavano i problemi! No, ci voleva qualcos’altro, qualcosa di forte, che le permettesse di sfogare il groviglio di sensazioni che l’avevano assalita.

Uscì in fretta, restituendo al teatro il suo silenzio. Gli spettri ripresero a bisbigliare, scuotendo la testa. I confini del reale si confusero di nuovo, il palco si preparò a diventare, ancora una volta, il campo di battaglia di un’anima.



19 aprile


- Una tuta mimetica?-

Caterina era sul punto di urlare.

- Certo. Cambiamo di nuovo tutta l’impostazione dello spettacolo.-

E questo, di per sé, non era un problema. Generalmente i cambiamenti di Arianna portavano sempre a qualcosa di nuovo, di migliore. Il problema era la tuta mimetica che le aveva gettato tra le braccia. E i mitra appoggiati ad un angolo del palco.

- Sarà tutto basato sulla metafora della guerra.- spiegò Arianna, sembrando molto sicura di sé. – Tra i protagonisti è in corso una guerra di sentimenti. Una guerra che si combatte sorridendo. Una sfida di sguardi. Sorriso falso contro sorriso falso, e chi riesce a sorridere di più ha vinto la battaglia.-

Caterina gettò una rapida occhiata alle persone sul palco. Andrea si era messo a bisbigliare qualcosa all’orecchio di Laura. Lesse chiaramente le labbra di Margherita: io non ce la faccio più! Perfino Cosimo sembrava sul punto di esplodere.

Un’ondata di rabbia la colse. Rabbia contro il segreto misterioso che stava mangiando il cuore di Arianna, rendendola quella creaturina scossa e irragionevole.

- Avete capito?-

Caterina lasciò cadere la mimetica a terra.

- Ho capito. Scusami un attimo.-

Corse via, per non dover spiegare ad Arianna come mai stava piangendo.

I suoi amici, evidentemente, avevano deciso che era una buona idea tenderle agguati.

- Caterina, che ci fai qui? C’è qualcosa che non va?-

- No. Sì.- Abbassò gli occhi. – Sì, c’è qualcosa che non va e l’unica che non se ne accorge sei tu!-

- Ma no, dai. Non è niente...-

- Visto che lo sai anche tu, allora?-

- Io... Insomma, sono momenti che capitano...-

- Certo. Come le crisalidi e le tute mimetiche.-

- Ti sembro a corto di buone idee?-

- No, mi sembra che tu stia tentando di arrivare da qualche parte, tramite queste idee, ma non è come le altre volte, in cui davvero hai in mente una direzione. Questa volta sei strana. Sei presa dalla tua fissazione e... Oh, scusami, probabilmente sto dicendo solo un mucchio di sciocchezze e ti sto facendo perdere tempo. E’ che...-

Le rispondo male?

O le dico la verità?

Il più delle volte, i momenti fondamentali della nostra vita prendono avvio da scelte di questo genere...

- Sali in macchina.-

- Cosa?-

- Ti spiego tutto. Andiamo, dai.-

Per un quarto d’ora non parlarono. Quando Arianna fu sicura di essersi persa, nel labirinto della periferia cittadina, cominciò, lentamente, quasi sottovoce, a parlarle di ciò che era successo. Poche pennellate per riportare davanti agli occhi di entrambe la figura sfuggevole di Benedetto. E i suoi sogni, la sua tristezza mai guarita, la sua fuga.

La sua morte, e il senso di incompiutezza che aveva lasciato.

- Ho capito.- disse alla fine Caterina. Arianna aveva abbandonato l’auto in una piazzetta desolata, e le due donne sostavano appoggiate al veicolo, capelli e gonne in balia del vento prepotente della primavera appena iniziata.

- Hai capito cosa?-

- Stai cercando di incontrarlo di nuovo. Attraverso lo spettacolo.-

Meraviglioso, il dono della sintesi che quella ragazza aveva sempre posseduto.

- Forse è così.-

- Però... c’è qualcosa che non va. C’è un altro posto, dove dovresti cercarlo.-

- Ah sì? Dovrei contattare un medium, magari?-

- No. E’ molto più semplice. Dovresti provare ad incontrarlo dov’è ad aspettarti. Nei ricordi.-

- Ti sembra che non lo stia ricordando abbastanza? Non riesco a farlo sparire dai pensieri, sto mandando a monte lo spettacolo per la mia fissa di affrontarlo, e tu mi dici che...-

- Tu non stai cercando di rivivere la vostra storia, nello spettacolo.- La voce di Caterina era dolcissima, e precisa come una lama. Arianna sentì tutta la forza della sua personalità indocile che si sollevava e protestava. Ma cercò di resistere, e rimase in silenzio. – Tu stai cercando di riscriverla.-

Arianna abbassò gli occhi. Quando sollevò di nuovo lo sguardo e riprese a parlare, il cielo era diventato completamente blu intenso.

- Non è sempre così? Non finiamo sempre per raccontarci le storie del passato come preferiamo noi?-

- Un po’.- rispose Caterina. Sorrideva: aveva detto la parte peggiore, e poteva permettersi di essere nuovamente affettuosa. – Le libere interpretazioni sono un classico. Ma a volte, sai, è giusto dare valore al testo originale. Diciamo così.-

- Cosa devo fare, mettermi a pensare ossessivamente a lui, sperando che i ricordi mi dicano qual è stato il senso di tutto?-

- Pensare a lui, sì. Ossessivamente no, però. Prova a capire qualcosa di lui in questo tempo in cui non l’hai visto, magari.-

Arianna sollevò una mano e carezzò il viso dell’amica.

- Al solito, senza di te mi perderei a metà strada.-

- Non dire sciocchezze. E muoviti, a risolvere questa cosa. Devi riprendere in mano il tuo spettacolo e dimostrare al mondo che sai ancora raccontare una storia come si deve!-



27 aprile


I frammenti di una vita, raccolti da esperienze e occhi differenti, non vanno mai insieme. L’immagine non si ricompone perfettamente: restano sempre margini incerti, punti senza incastro, vuoti e linee che non si completano.

Questa volta, poi, era davvero incredibile. Ogni passo della sua vita, quell’uomo, sembrava averlo fatto in una direzione diversa.

Era stata nella parrocchia dove Benedetto aveva trascorso gran parte del suo tempo, in quei due anni. C’era scritto sul giornale: il funerale si era tenuto nel paese vicino a quello dove Benedetto era nato, perché lì, a quanto pareva, aveva creato dei legami.

La canonica era diventata una specie di casa di accoglienza, e Benedetto faceva qualsiasi cosa, dal cuoco all’autista, dall’infermiere al baby sitter. Non c’era una singola persona, in quell’affascinante caos multicolore di culture e linguaggi, che non avesse un ricordo di lui da offrirle. Benedetto era divertente, era intelligente. Voleva imparare qualcosa da tutti. L’inglese e il francese li aveva sempre parlati bene, ma lì aveva imparato addirittura l’indiano e il rumeno. E fin qui, le cose quadravano. Il mondo gli era sempre piaciuto così tanto...

Poi le avevano detto che andava alla Messa ogni mattina. Ecco, questo era quanto mai sorprendente. Tra i due, era sempre stata lei, quella più spirituale. Però non faceva la comunione, quasi mai, le avevano precisato. Insomma, cercava Dio e poi gli metteva dei limiti. In questo era molto coerente con se stesso.

Niente donne, no. Se parlava delle sue ex? Non particolarmente. Una parola, magari, un aneddoto. Una volta aveva detto qualcosa su una delle donne più belle che avesse amato e su i suoi splendidi capelli ricci. Ma chissà se parlava di lei o di una delle tante donne del passato...

Sembrava avere una specie di ansia di fare qualcosa di buono. E questa era una novità. Ansioso non lo era mai stato. Era anche troppo calmo, a volte. E le sue malinconie? Sì, c’erano ancora. Nessuno sapeva niente del suo passato.

Una volta, però, aveva detto che poco prima di arrivare lì aveva rinunciato a qualcosa di molto buono, e che si sentiva un ingrato. Il prete a cui aveva regalato quelle parole gli aveva risposto che poteva sempre tornare sui suoi passi. Lui aveva risposto che prima o poi l’avrebbe fatto.

- Non so se questo ti servirà a qualcosa.- aveva concluso il prete.

Certo che le sarebbe servito. A confondere ancora di più l’immagine.



15 maggio


Il teatro faceva parte di un edificio molto grande, che un tempo era stato una scuola. Adesso alcuni piani erano stati trasformati in uffici, mentre tutte le stanze sullo stesso piano del teatro erano in disuso. Le si raggiungevano superando i camerini, oltre un lungo corridoio pieno di mobili ammucchiati.

Le stanze abitate solo dagli spettri non avevano il fascino dei luoghi antichi, ma solo l’aria deprimente dei luoghi vecchi e trasandati. Non era mai stata brava a giudicare l’età degli edifici, soprattutto recenti, ma Benedetto una volta le aveva detto che quei pavimenti con le piastrelle di graniglia, bianche e nere, andavano di moda negli anni cinquanta. Eppure... A quelle stanze si era attaccata addosso una malinconia così forte che sembravano rovine. Almeno ai suoi occhi.

A volte, quando rimaneva sola, dopo le prove, ci passava del tempo. Solo per sentirsi la gola piena di polvere e sogni svaniti, e immaginare solitudini insanabili e storie intrappolate lì dentro per sempre.

Aveva conosciuto Benedetto perché era finito, per una serie di intrecci e casualità, a darle una mano con lo spettacolo che stava preparando. Curioso e intelligente com’era, aveva scoperto quelle vecchie stanze nel giro di pochi giorni, e aveva scoperto anche la strana passione della regista per quel mondo decadente. Le aveva chiesto perché le piacessero quelle stanze. Lei aveva riso, minimizzato. E lui se l’era quasi presa: se non prendi sul serio tu stessa le cose che ami, come pretendi che lo facciano gli altri?

Ah, che meraviglia, gli uomini che ti conquistano con la filosofia...

Se doveva pensare ad un luogo significativo per loro, quello era il primo che le veniva in mente. E tutti gli altri posti che amavano erano, per qualche verso, in declino, silenziosi, pallidi.

Una volta erano finiti in un cantiere abbandonato. Era un vecchio quartiere, del quale era stato iniziato il restauro, poi interrotto.

Perché la gente si ostina a lasciare a metà tutto quel che fa?, aveva chiesto lei.

Lui aveva riso, senza derisione, con la sua solita cortesia un po’ distaccata, dicendole che se tutto fosse stato completo, si sarebbe persa per sempre la magia delle rovine. Un po’ sconcertata da quel punto di vista, lo aveva seguito tra le mura innalzate a metà. Avevano salito una scala, sbirciato attraverso finestre senza vetri, spiato negli angoli.

Io ci ho abitato. Così, all’improvviso. Mesi che tentava di estorcergli una goccia del suo passato, e ora glielo offriva in quel modo. Questo posto era vivo, fino a non molto tempo fa. E’ che le cose che sono accadute qui dentro sono così tremende che hanno fatto crollare ogni cosa.

Non le aveva mai detto più di quello.

Avevano quella strana attrazione per le cose al margine. Forse perché lui ci aveva vissuto per anni, e lei aveva il desiderio di ridare vita alle cose distrutte.

Ma non c’era riuscita, con lui.

Le aveva costruito un castello in rovina, pieno di magia e ombre. Poi aveva spezzato i legami ed era svanito, prima che lei potesse chiedergli l’ultima cosa.

Che senso ha questa pagina della mia vita?

Una volta, in quelle stanze, lui le aveva raccontato la storia degli spettri del teatro. Erano due, Edgar e Michelle. Uno non riusciva ad andare nell’aldilà perché ancora non aveva visto la sua opera preferita, La Tempesta di Shakespeare, recitata in maniera degna. L’altro era morto a causa di un pugnale di scena che doveva essere finto, e invece era risultato molto vero e molto affilato. Sarebbe andato verso la pace eterna solo se un attore della sua stessa età, con il suo stesso nome, fosse sopravvissuto allo stesso ruolo. Insieme facevano da guardiani e da protettori del teatro, in attesa della liberazione. A cui forse non tenevano più di tanto... Volevano davvero bene, al loro teatro, quei due.

A volte, quando la malinconia di quel posto era troppa, lei pensava ai due vecchi spettri e al loro sguardo bonario, e si sentiva sollevata.

Benedetto riusciva a colorare tutte le cose, a modo suo.


Forse aveva lasciato la finestra aperta...

Si sedette sul letto, senza ben capire che fine avesse fatto la sua stanza. Adesso era in un luogo strano, con le mura ricoperte di immagini che non riusciva a comprendere.

Ehi.

- Ma cosa...-

Non ti dispiace se ho messo a fare il tè?

- Ma no, figurati. Solo, mi chiedevo... dove sei?-

Qui. Dietro. Non importa. Ci sono, e questo basta, no?

- Credo di sì. Cosa volevi?-

Un tè.

- Mh. Va bene. A proposito. Non mi sono ancora congratulata per la tua grande uscita di scena.-

In che senso?

- Non far finta di non capire. L’eroe. Mi hai decisamente sorpresa.-

In realtà queste cronache sulla mia morte sono decisamente esagerate, sai. Niente di che. Una cosa molto improvvisa, un caso. Non è che ho progettato accuratamente di sparire dalla faccia della terra salvando una bambina e facendomi ricordare dai posteri.

- A me sembra di sì.-

A te sembra. Probabilmente perché ce l’hai con me.

- Esatto. Ce l’ho con te. Sei morto da eroe e hai chiuso la questione con me in modo molto vigliacco.-

Te l’ho detto, dire che ho fatto l’eroe è un’esagerazione. E non era certo un modo per chiudere la questione con te.

- Mah. Lasciamo perdere. Stai bene?-

Sto bene. Finalmente.

- Sai che non è una cosa bella da dire?-

Perché? Avresti preferito sapermi tormentato, a scontare le mie colpe?

- No, no. E’ che... Vuol dire che con me non stavi bene.-

Non ho detto questo. E’ un’altra cosa. E...

- Non lo voglio sapere. Non voglio proprio farti rompere i tabù sull’aldilà e cose del genere. Comunque, posso sapere perché volevi un tè, stanotte?-

Mi sembrava un’idea buona.

- Il tè. E’ uno di quei gusti che collegherei a te, sai? Se dovessi rimettere insieme voci, colori, sapori, immagini di quel tempo... Tutti i tipi di tè così strani che mi portavi in casa. E le sciarpe che mi regalavi. I tuoi schizzi sui miei copioni. I miei spettacoli avevano sempre quell’aria esotica... Asiatica a volte. O dell’Est europeo. Non so. Ma, sai... Vorrei proprio capire cos’hai conservato tu, della nostra epoca.-

Io? Io ho una terra intera. Un regno tutto mio.

- Che stai dicendo?-

La nostra terra invisibile. Tutto ciò che abbiamo visto e respirato.

- Dovrei averla anch’io, allora. Ma mi sembra di avere solo un mucchio di nomi, e cose, e tutto è così confuso, e...-

Sono passato anche per questo. Per lasciarti la chiave.

- La chiave di cosa?-

Della nostra terra.

- E cosa pensi che dovrei farmene?-

Quello che si fa con ogni terra dentro di noi. Farci un giro ogni tanto, rivedere quei colori.

- Colori. E’ questo che rimane, alla fine di qualcosa? Colori?-

Sì. Colori. Il mio tè è finito. E la chiave è lì sul tuo tavolo.

- Colori... Sai che tutto questo non ha proprio senso?-

Ne avrà, vedrai.



16 maggio


L’alba era stranamente vivida, mentre le si riversava in camera dalla finestra rimasta aperta tutta la notte. Non sentiva il peso del sonno, anche se non doveva aver dormito molto. E non le faceva nemmeno freddo, anche se era solo aprile e il vento ancora aveva in sé note invernali.

Sul tavolo della cucina c’era una tazza vuota e un foglio. E tutte le sue matite sparse.

- Ma cosa...-

Sul foglio, una mano misteriosa aveva tracciato delle linee colorate. Una specie di arcobaleno dove i colori si mischiavano, intrecciandosi.

Il tè. La chiave. I colori.

Doveva averlo fatto lei, quello strano disegno, in una sorta di trance sonnambula. Per forza. Che cosa voleva significare?

Che è ciò che guadagni da ogni pagina della tua vita. Una manciata di colori. E una terra invisibile dove andare a passeggio, ogni tanto, per ricordare e salvare qualcosa.

Spaventata si voltò di scatto, come per sorprendere chi stesse mettendo nella sua testa quei pensieri strani. Ma era sola, sola con l’alba e il vento.

E una manciata di colori: quelli del tè, e del mondo, e dei paesaggi decadenti e che andavano a cercare ai margini dell’esistenza.

Le risposte sono tutte nella nostra terra invisibile.

E la chiave sono i colori.



13 gennaio


La notte fredda, fuori dal teatro, le luci cittadine e le voci che si complimentavano, ridevano, chiedevano, tutto insieme. Era stanca ed eccitata, e ne voleva ancora. Come ogni volta che uno spettacolo finiva e cominciavano i meravigliosi momenti in cui ci si gode il risultato. La gente le si accalcava attorno, amici e perfetti sconosciuti, ognuno con qualcosa da dirle, e lei doveva sorridere a tutti – e non le costava nemmeno un po’ di sforzo.

Quando fu a casa, mentre preparava una tisana di erbe e osservava l’alba, le tornarono in mente alcune parole che aveva colto nella folla ammirata, che una voce aveva fatto rimbalzare tra le altre.

I colori erano splendidi.

I colori, sempre quelli.

- Suppongo di doverti ringraziare...- disse, ad alta voce. La risposta fluttuò attraverso il tempo e le dimensioni e la raggiunse, in qualche modo.


Niente male, per davvero!

La ragazzina è rinsavita. Questa volta c’erano proprio delle buone idee, lo devo ammettere.

All’alba Edgar e Michelle, i vecchi spettri, licenziarono i personaggi e i demoni, venuti a festeggiare anche loro, dopo lo spettacolo. Poi chiusero il teatro e tornarono ad infestare le loro stanze e la loro storia, inventata una sera come tante, per colorare le rovine e i giorni.




Fine





... se volete maggiori info sull’uso dei temi, qui c’è un dietro le quinte.

Sembra che gli spettri mi seguano ovunque vada.

Dedicata a S. e G.

   
 
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