Anime & Manga > Il tulipano nero
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Autore: JeanGenie    31/12/2013    3 recensioni
Mentre in Francia la Rivoluzione arriva al culmine, dall'altra parte della Manica qualcuno scopre che alcuni splendidi gioielli non sono proprio come appaiono. Un mistero si cela tra i nobili francesi rifugiati a Londra. Ed è abbastanza per convincere quella che una volta era la Stella della Senna a vestire di nuovo maschera e mantello.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La Maschera e il Rubino

 

I protagonisti della nostra storia fecero la loro apparizione a Londra nell’ottobre dell’anno 1793. Il fatto che si trattasse di nobili francesi in fuga dalla Rivoluzione fu chiaro immediatamente a tutti coloro che si trovarono a incrociare il loro cammino. Sebbene l’uomo parlasse un inglese fluido, solo leggermente macchiato da quell’accento che rendeva inconfondibile coloro che abitavano al di là della Manica, la sua splendida moglie conosceva pochissime parole del loro idioma, così come i loro due figli, una graziosa adolescente che il padre chiamava Tess, come se fosse stata una dei sudditi del loro amato e squilibrato re Giorgio, e il piccolo Charles, la pronuncia del cui nome fu l’argomento di un rapido dibattito durante le prime presentazioni.

Sebbene avessero fatto le loro visite obbligatorie in tutte le case nobiliari, i due non sembravano avere bisogno di alcun sostegno economico e non era per ricevere una sprezzante elemosina che si dedicavano per dovere alla vita sociale. Infatti, come era nelle previsioni di coloro che li avevano conosciuti, ben presto, finanziariamente indipendenti, acquistarono una graziosa villa di campagna, lontano dalle luci e dai fragori di Londra, e lì si stabilirono.

Il loro arrivo divenne oggetto di pettegolezzi da salotto e la voglia di saperne di più sul loro conto spinse le signore a fare a gara per porgere loro i dovuti omaggi per poter curiosare nella loro residenza e scambiarsi poi le reciproche confidenze.

“So che sembra incredibile, ma lei tiene come animale domestico un vecchio gufo ammaestrato. E lo chiama fischiando come un marinaio. L’ho visto con questi miei occhi” asserì Lady Abbotts e subito dopo la marchesa di Banbreck rincarò la dose.

“La loro figlia maggiore è quasi in età da marito. Questo vuol dire che quando lei ha sposato il conte de Vaudrel avrà avuto dodici, tredici anni al massimo.”

“E passano i pomeriggi tirando di scherma, lei e il conte” aggiunse Cecilia Causfield-Smythe. “Due giorni fa sono andata a trovarli ed erano lì. Lei lo aveva appena disarmato, credetemi. E si dice che abbiano reclutato il loro uomo di fiducia, quel ragazzo con i capelli rossi, in un circo.”

Finita la scorta quotidiana di novità, le belle teste delle tre dame si voltarono tutte in direzione della quarta signora che era rimasta in silenzio.

Era costei una bellezza ancora leggiadra per i suoi quarant’anni, dall’incarnato latteo e dai capelli del colore del tè. Aveva una postura elegante, il busto sottile e curatissime mani prive di qualsiasi ornamento ad eccezione dell’anello nuziale. A quanto si diceva, Clarisse de Villegrand aveva perso l’amato consorte sotto la lama della ghigliottina ed era scampata per miracolo alla stessa sorte. Da quando era giunta a Londra non c’era dama che non la invitasse nella propria casa e che non desiderasse essere ricevuta a sua volta nel palazzo che costei aveva comprato vendendo alcuni preziosissimi gioielli, che era riuscita a portare con sé dalla Francia. Con lei avevano trovato rifugio, sotto l’ala protettiva del regno britannico, i suoi tre figli e i suoi quattro nipoti, che erano tutto ciò che le restava come ricordo dei suoi amati fratelli.

“Mia care signore, non guardatemi in questo modo” disse portandosi la tazza alle labbra. “Non conoscevo il conte de Vaudrel quando ero a Parigi. Come vi ho detto, non amavo frequentare Versailles. Di lui so quel poco che sanno tutti. Che per un certo periodo venne accusato di avere attentato alla vita di Sua Maestà ed è stato esiliato. Ha ottenuto l’assoluzione poco prima che succedesse… quello che è successo. Di sua moglie non so nulla. Non sapevo neppure che fosse sposato.”

Cecilia Causfield-Smythe si era ritratta istintivamente. “Non starete cercando di dire che si tratta di un caso di concubinato, vero?”

Clarisse de Villegrand sorrise gentilmente. “Non mi permetterei mai. Sto semplicemente dicendo che la mia preferenza per la vita ritirata e i ricevimenti solo sotto il mio tetto non mi permettono di offrirvi ulteriori dettagli sul ‘caso de Vaudrel’.” Poi sospirò. “Lei, tuttavia, è così giovane e graziosa… Stavo pensando di invitare entrambi al ballo della settimana prossima.”

Le altre tre mostrarono improvvisamente una titubanza che sarebbe apparsa inspiegabile ad un ignaro spettatore. Ma Clarisse de Villegrand conosceva bene le proprie compagne di conversazione e sapeva che dietro i loro sorrisi tirati i loro pensieri erano rivolti all’incarnato roseo, al sorriso soave e ai capelli di miele di madame de Vaudrel. Una creatura simile era in grado di mettere in ombra qualunque altra donna fosse presente nella stessa stanza. In fondo che le sue amiche finissero preda dell’autocommiserazione e dell’invidia era proprio ciò che lei desiderava. Perché avrebbero avuto bisogno immediatamente di essere consolate.

“Gradite un sorbetto, signore? O un’altra tazza di tè?”

 

Robert de Vaudrel era stato tacciato di essere un pigro da chi lo aveva conosciuto solo fra le mura di Versailles. In realtà il suo stato di apparente lassismo era dovuto alle attività notturne che lo impegnavano senza che nessuno sapesse. Con maschera e mantello era diventato una sorta di giustiziere leggendario dalla parte dei più deboli. Gli era piaciuto ricoprire quel ruolo. Aveva ereditato le proprie idee liberali da suo padre e le aveva portate avanti fino in fondo, esponendosi in prima persona e senza aspettarsi alcun tornaconto. Ma quei tempi erano finiti nel momento in cui lui e la donna che aveva sposato a Calais prima di imbarcarsi per l’Inghilterra, si erano lasciati dietro Parigi e le sue strade sporche di sangue. Ora Robert desiderava solo poter passare in tranquillità il resto della propria vita in compagnia della sua amata moglie e dei suoi due figli adottivi. Per questo non riuscì a trattenere una smorfia mentre lei leggeva il biglietto d’invito che era appena stato consegnato.

“Madame Clarisse de Villegrand…La conosci? Credi che sia il caso di accettare ?”

Simone non amava i balli e le occasioni mondane. Robert sapeva che lei, in fondo al cuore, era rimasta la semplice e sorridente fioraia dell’ Île de la Cité alla quale lui aveva porto una rosa bianca più di dieci anni prima. Con tratti di nostalgia per la spadaccina misteriosa che aveva impersonato per tanto tempo, anche se questo Simone non lo avrebbe ammesso mai. Non c’era posto, tra queste due Simone, per una terza dama aristocratica. Tuttavia Robert in quel momento la vide tentata.

“Hai voglia di sentire parlare francese da qualcuno che non sia io, vero?”

Sapeva bene che da quando il suo fidato Danton era tornato a Parigi, “per combattere per la causa repubblicana” aveva detto, l’umore di Simone si era fatto malinconico. Robert la vide arrossire leggermente. Era incantevole con i capelli raccolti e la sobrietà di un abito campagnolo. Le sorrise con condiscendenza facendole segno di sedersi accanto a lui, al tavolo all’aperto. L’aria era deliziosa e fresca e sarebbe stato bello veder tramontare il sole insieme.

“Ci andremo, Simone. Ma tu dovrai permettermi di regalarti un abito nuovo e dei gioielli, per fare di te la gemma più splendida anche di questo regno.”

Lei lo guardò con un velo di malizia negli occhi. “Non lo sono già, Robert?”

 

Clarisse de Villegrand non attendeva altre visite, la sera di quel giovedì in cui Lady Jane Abbotts bussò alla porta della sua residenza. Si sorprese quindi quando un valletto le annunciò che la dama chiedeva di poterle parlare con urgenza.

Clarisse le andò incontro con aria preoccupata e la trovò in uno stato pietoso. L’ansia era dipinta sul suo viso e il suo respiro affannoso faceva sollevare aritmicamente il suo petto sotto la scollatura dell’abito giallo e la collana di pesanti topazi.

“Mia cara, non vi aspettavo. Non ditemi che avete corso fin qui. Se mi aveste avvisata vi avrei mandato incontro la mia carrozza.” Clarissse le porse il braccio perché potesse appoggiarsi e arrivare in salotto senza perdere i sensi.

La dama sussurrò “Vi prego, fatemi vedere Tomas” per tre volte prima di crollare sul divano.

Clarisse vide il bel viso glabro di Etienne fare capolino dalla porta. Con un cenno della mano lo invitò ad entrare.

“Etienne, caro, ho bisogno di vedere Tomas. Digli di venire immediatamente.”

Il ragazzo la guardò per un attimo sconcertato, poi rispose con un semplice “Sì, zia” e si dileguò.

Clarisse si sedette accanto a Jane e le prese le mani. “Mia cara, non dovete più fare simili pazzie. È un rischio per me, per voi e per Tomas.”

Quella piccola incosciente innamorata rischiava di mandare a monte la serata così come Clarisse l’aveva organizzata e lei odiava che qualcosa sconvolgesse i suoi piani. Costruire la propria facciata le era costato in denaro e sforzi e ogni cosa andava ponderata con attenzione.

“Non temete. Ho detto a mio marito che mi era venuta improvvisamente voglia di andare a teatro” le spiegò Jane. “Non sospetta nulla. Non si cura di me. Non sono neppure sicura che mi abbia ascoltata.”

Oh, questo è poco ma sicuro, rifletté scostandole le ciocche castane dal volto. Poi Tomas era finalmente arrivato. Si stava ancora abbottonando la camicia e aveva i capelli neri assolutamente in disordine.

“Che succede? Jane? Dovevamo incontrarci questa sera?”

Jane Abbotts sollevò gli occhi su di lui, poi i suoi nervi cedettero. Scoppiò in singhiozzi e Clarisse odiava quel genere di crisi isterica.

“Tomas, cinque minuti” ordinò alzandosi.

Lui annuì, poi prese il suo posto al fianco della donna in lacrime.

Uscendo dalla stanza Clarisse incrociò Etienne in attesa che scarabocchiava su un foglio con un carboncino e lanciò un’occhiata distratta al lavoro. Eccellente, come ogni volta, pensò baciandogli una guancia con gratitudine.

 

A Simone Loraine non piacevano i ricevimenti. Quando era appena una ragazzina e per la prima volta aveva messo piede in un palazzo nobiliare per osservare, vestita da cameriera, la sciarada di dame e di cavalieri danzare e la regina Maria Antonietta risplendere nel suo abito adorno di rose nere di Saint Foix, Simone aveva fantasticato su come sarebbe stato assomigliare a una di quelle bellezze aristocratiche ingioiellate.

Più di dieci anni dopo, non poteva fare a meno di ricordare come avesse perso i propri genitori adottivi proprio per i capricci di una di quelle nobildonne che lei aveva tanto ammirato solo poche ore prima.

Di acqua sotto i ponti ne era passata molta. Simone aveva indossato abiti di seta, aveva danzato e aveva preso parte a splendidi ricevimenti. Ma aveva smesso di illudersi di trovarsi in una favola. Aveva imparato ad osservare con attenzione gli sguardi oltre la cipria e le parrucche, e solo in virtù di quegli sguardi aveva deciso se concedere o meno la propria fiducia.

Avrebbe perseverato su quella strada anche quella sera. Robert le porse un braccio in attesa che il valletto annunciasse i loro nomi. Aveva scelto tutto lui, dall’abito azzurro all’acconciatura. Simone si ripromise in quell’occasione di imparare perfettamente l’inglese. Vedere sarte e parrucchiere che le si agitavano intorno senza poter comunicare con loro non era stato piacevole. Sapeva che Robert ci teneva in particolar modo, quindi non aveva protestato ma non desiderava ripetere l’esperienza. Quando si era mostrata a Therese, prima di lasciare la propria residenza, Simone aveva visto gli occhi della ragazza farsi lucidi. “Assomigli moltissimo a maman la reine” le aveva detto, e per quella volta Simone le aveva perdonato l’imprudenza dell’accenno alle loro vere origini. Presto avrebbero dovuto farla debuttare in società. Ma solo quando lei ne avrebbe manifestato il desiderio. Per il momento Simone desiderava solo offrire a lei e al piccolo Charles una dimora serena in cui vivere, facendo attenzione che le parole ‘Rivoluzione’, ‘Ghigliottina’ e ‘Repubblica’ non venissero pronunciate davanti a loro. Aveva sempre creduto negli ideali libertari e populisti che erano stati alla base del rovesciamento della monarchia. Aveva combattuto in prima persona per difendere la gente di Parigi dalle prepotenze degli aristocratici e della polizia. Ma non aveva annullato il proprio cuore per questo. Sapeva distinguere la giustizia dall’orrore sanguinario che stava infiammando la Francia. E la sua unica missione al momento era prendersi cura dei figli della propria sorellastra. Niente altro.

Simone si sentì addosso gli occhi di tutti mentre metteva piede nel salone illuminato. Sapeva che quella sorte era toccata a tutti i fuggiaschi. L’ospitalità sul loro suolo era vista dai nobili inglesi come un atto di carità nei confronti di aristocratici ormai privi di terre, possedimenti e titoli. La cosa non la toccava più di tanto. Lei e Robert avevano denaro a sufficienza. E soprattutto lei non aveva mai smesso di sentirsi una plebea.

La padrona di casa si fece loro incontro sorridendo. “Finalmente” disse, mentre Simone si profondeva nell’inchino di rito. “Monsieur le Comte, Madame la Comtesse. Non avete idea di quanto mi renda felice potervi ricevere in questa che non riesco ancora a considerare la mia dimora.”

Allegra, dalla parlantina sciolta, solare, Simone trovò istintivamente piacevole la compagnia della donna. Si lasciò condurre dall’uno all’altro degli ospiti, accettò garbatamente saluti e presentazioni e ricambiò sorridendo sguardi incuriositi e a tratti ostili. Lady Abbotts, la Contessa Causfield-Smythe, Lady Rablyn nomi che avrebbe dovuto memorizzare. Madame Clarisse traduceva pazientemente per lei le frasi e le domande che non riusciva a capire e Simone rispondeva a quei quesiti garbatamente, spesso svicolando per evitare gli argomenti più spinosi.

“Che meraviglia. Chi vi ha acconciata? Se avessi dei capelli come i vostri anch’io non userei parrucche.”

“Madame, non ho mai usato parrucche, neppure in Francia. E a Versailles erano fuori moda da un po’ tra le dame che imitavano le abitudini della regina.”

“Dite, contessa, a che età vi siete sposata per avere una figlia così grande?”

“Madame, in realtà Tess è la figlia di mia sorella. È rimasta sola e l’abbiamo presa con noi.”

“Ditemi, avete perso molti dei vostri cari sotto la lama? È vero che le strade di Parigi sono divenute scarlatte per i rigagnoli di sangue che le bagnano?”

“Oh, suvvia signore” Clarisse interruppe Lady Rablyn . “Non è il caso di guastarsi l’umore con tali lugubri argomenti. I miei figli e i miei nipoti sembrano annoiarsi. Credo che sia venuto il momento di ballare.”

Simone tirò un sospiro di sollievo quando sette giovani dalla bellezza straordinaria fecero il loro ingresso in sala distogliendo l’attenzione da lei. Aveva sentito parlare di loro. Erano tutto ciò che restava della famiglia di Clarisse. La donna glieli presentò uno da uno. Il maggiore, Tomas, un cavaliere bruno, dagli occhi neri e ardenti, le trattenne la mano tra le sue qualche istante più del dovuto. Sotto quello sguardo si ritrovò ad arrossire e a guardarsi intorno alla disperata ricerca di Robert.

“Desiderate danzare, Simone?” le chiese Clarisse ma la sua attenzione fu catturata da altro.

“Madame, chi è quella donna con i capelli corti?”

La donna rideva in un angolo, in compagnia di tre gentiluomini. I capelli scuri sembravano essere rimasti vittima di una forbice impietosa. Ciocche mozze e cortissime erano ostentate senza l’ausilio di alcun ornamento. L’abito dritto e stretto sotto il seno era una bizzarra variante degli abiti campagnoli che la regina di Francia aveva indossato prima che le nubi si addensassero su Versailles.

“È la vedova Mary Minniclore. Venite. Vi presento.”

Simone si fece condurre docilmente dalla strana dama. Era giovane, forse più di lei. Era stato il suo aspetto a colpirla. Per un attimo le aveva mozzato il respiro l’idea che fosse fuggita dal carcere. Nessuna donna aristocratica avrebbe mai portato i capelli in quel modo. Ma Mary Minniclore fugò subito i suoi dubbi.

“Un’altra francese autentica. È un piacere conoscervi.”

La donna parlava a voce troppo alta per i suoi gusti. A Simone girava la testa. Dopo qualche istante smise di seguire i suoi discorsi, nonostante parlasse un francese perfetto. I suoi occhi continuavano a posarsi sul nastro di velluto rosso adornato da un grosso rubino ovale che le circondava il collo. Dopo qualche istante Mary se ne rese conto. “Vi piace? Ornamenti di questo tipo e capelli corti stanno spopolando in questo momento a Parigi e io spero che la moda si diffonda anche qui. Trovo deliziosa l’idea di fingere che le nostre teste siano appena cadute. Voi no? Fingere di essere Maria Antonietta… Come dite voi? Charmant.

Simone sentì il proprio stomaco aggrovigliarsi.

“Santo Cielo, che cosa barbara…” mormorò Clarisse da dietro il ventaglio. “Vi lascio alle vostre chiacchiere sulla moda, signore” disse allontanandosi.

Mary scosse la testa. “È troppo in là con l’età per apprezzare queste cose.”

Il luccichio rosso della gemma le feriva gli occhi eppure Simone non riusciva a fare a meno di guardarla.

“Vi piace davvero tanto, vedo. Un birmano rosso sangue. Per averlo ho speso la metà del patrimonio del mio defunto marito.”

Teste. Mozze.

L’idea era semplicemente ripugnante. Immaginava la sua Parigi popolata di donne che sembravano uscite dalla tomba per cercare la propria testa e ricucirsela sul collo. Velluto rosso e un rubino sanguinante…

“Vostro marito è davvero affascinante. Siete fortunata. Suppongo che non abbiate motivo per ricorrere alle cure dei figlioli di madame Clarisse…”

Simone sollevò lo sguardo su di lei per guardarla negli occhi. Cosa?

Mary ridacchiò alzando il proprio calice verso di lei. “Cielo, non lo sapete? Come non detto, allora. Fate finta che non abbia parlato.”

 

Simone appariva insolitamente taciturna mentre la carrozza li riportava casa. Robert dubitava che si trattasse solo di stanchezza. Il suo sguardo era troppo pensieroso. Tossicchiando tentò di richiamare la sua attenzione, ma lei continuò a offrirgli solo la nuca e i riccioli di miele. Gli sembrava di sentire i suoi pensieri susseguirsi ritmicamente, come il meccanismo di un orologio. Qualcosa l’aveva turbata profondamente, Robert ne era certo, sebbene non riuscisse a capire cosa. Il ricevimento era stato piacevole e lei sembrava aver socializzato con molte signore. Aveva danzato con lui e non solo, pur mantenendo il proprio contegno scevro da ogni civetteria, e alla fine aveva salutato sorridendo. Eppure era diventata cupa non appena erano saliti in carrozza.

“Simone…” Lei finalmente si voltò e, nonostante l’evidente stanchezza, il suo sguardo era vigile. Robert conosceva quell’espressione. Una gatta in agguato che attende la sua preda.

“Tutto bene?”

“Sì… no.” Gli sorrise stentatamente. “Stavo pensando all’ornamento di una delle dame. Un rubino. Velluto rosso intorno al collo per imitare una vittima della ghigliottina. E una pietra color sangue grande come una noce.”

Dunque si trattava di quello. Era più che normale che Simone fosse inquieta. L’animo umano a volte lo sorprendeva per la macabra crudeltà che riusciva a generare. In Francia la falce che mieteva vittime come spighe aveva la forma di una ghigliottina. E mentre donne con la coccarda tricolore lavoravano a maglia sotto il patibolo, i nobili del resto d’Europa osservavano ed esorcizzavano la paura che una sorte simile potesse toccare a loro, ridendo alle spalle degli sfortunati portatori di sangue blu che vivevano al di là della Manica. Simone aveva sposato la causa del popolo. Ma non poteva dimenticare la bella regina che, piena di dignità, aveva affrontato la morte. Non importava che Maria Antonietta avesse affamato la Francia. Non importava che quella che veniva chiamata ‘la sgualdrina austriaca’ fosse stata una creatura capricciosa ed egoista. Per Simone ad essere giustiziata un mese prima era stata solo sua sorella.

“Mi dispiace” le disse Robert. “È una cosa di pessimo gusto. Posso solo immaginare come tu possa sentirti.”

Lei lo guardò leggermente sorpresa. “Non si tratta di questo, Robert. Non solo” spiegò. “La signora in questione mi ha decantato il valore di quella gemma preziosissima. Ma perfino io mi sono resa conto che quel presunto rubino altro non era che un pezzo di vetro colorato.”

“Un falso?” chiese Robert.

“Un falso. Come diceva Marie, una vera gemma non trattiene la luce, né la respinge, ma la abbraccia e la restituisce moltiplicata. Bene. Quel fondo di bicchiere non moltiplicava un bel niente.”

Robert ridacchiò. “Ed è per questo che sei di cattivo umore?”

Simone scosse la testa. “No. Il problema è un altro. Ho passato la serata a notare questa bizzarria. Buona parte delle dame in sala indossava pietre false, e ognuna di loro ha parlato di quei gioielli di famiglia o costosi pezzi acquistati o ricevuti in dono.”

Simone si interruppe. Forse attendeva una spiegazione da lui, ma Robert non sapeva davvero cosa dirle. Sì, era piuttosto strano. Gli sembrava improbabile che della dame, molte dame nella stessa sala, sfoggiassero pietre fasulle e mentissero in proposito.

“Ho come l’impressione che tu abbia trovato un interessante passatempo, Simone. Sei convinta di essere davanti a un mistero da risolvere?”

Lei sospirò esageratamente. “Voglio solo capire. C’è qualcosa che mi sfugge.”

“E alla Stella della Senna non può sfuggire nulla, giusto?”

Simone gli lanciò un’occhiata obliqua. “Ora non darti arie da grande saggio. Hai cominciato tu ad andartene in giro mascherato e con un nome ridicolo. A me non hai lasciato scelta.”

Era adorabile quando metteva il broncio. In fondo non c’era nulla di male nel voler scoprire perché delle grandi dame inglesi avessero deciso di risparmiare sulle loro toelette. Questo nuovo gioco l’avrebbe obbligata a smettere con la vita da eremita che stava conducendo.

E poi cos’ha che non va ‘Il Tulipano Nero’ come nome? Io lo trovo estremamente musicale…

Simone si abbandonò contro lo schienale chiudendo gli occhi. “La Stella della Senna non esiste più, Robert.”

Davvero? Forse la conosceva troppo bene, ma gli era difficile lasciarsi ingannare. Eppure io la vedo ancora agitarsi nei tuoi occhi.

 

Simone Loraine de Vaudrel non pensò né al ricevimento in casa di Madame de Villegrand né alle gemme che non brillavano come avrebbero dovuto, nei giorni seguenti. Si dedicò all’apprendimento della lingua inglese con l’aiuto di un anziano insegnante incredibilemnte paziente che Robert aveva chiamato perché tenesse lezioni quotidiane a lei e ai ragazzi. L’impegno maggiore non si rivelò imparare e tradurre i sonetti di Shakespeare, né conversare facendo attenzione a coniugare nel modo corretto i verbi irregolari, bensì tenere dietro ai capricci di Charles, che sembrava avere ereditato da sua madre il poco amore per lo studio. Per la prima volta Simone dovette rendersi conto che il ruolo di genitrice prevedeva anche una certa severità. Completamente concentrata sui libri e sui suoi figli adottivi, tornò con la mente al ricevimento di due settimane prima solo quando le venne consegnato un cofanetto da un servitore di Mrs. Minniclore.

Incuriosita Simone raggiunse Robert nella sala da scherma, per aprire l’inaspettato dono in sua presenza.

“Non c’è una missiva ad accompagnarlo?” chiese Robert mettendo via il fioretto da allenamento.

Simone sorrise nel vederlo così concentrato in un’attività che entrambi avrebbero voluto abbandonare senza trovarne la volontà.

Il mio eroe mascherato con un nome ridicolo…

“Ovviamente sì. ‘Spero che accetterete questo dono come segno di amicizia.’

Robert la guardò incuriosito. “Perché non lo apri?”

Semplice. Aveva imparato ad esitare di fronte ai doni da quando aveva rischiato di lasciarci le penne a causa di alcuni deliziosi e mortali bonbon al cioccolato che le erano stati donati dall’impagabile conte di Claujer, che potesse bruciare all’inferno per sempre. Non che intendesse investire Robert del ruolo di assaggiatore, come facevano i monarchi. Se aveva deciso di aprire quel dono insieme a lui era solo per poter tornare sull’argomento del gioiello palesemente falso che Mrs. Minniclore aveva indossato la settimana precedente. E l’occasione le fu offerta su un piatto d’argento nel momento in cui aprì la scatola e si trovò fra le mani un collier ornato da una fila di rubini di grandezza media. Evidentemente la giovane vedova intendeva coinvolgerla nella macabra moda che faceva il verso alle nobildonne francesi finite sul patibolo.

“Che cosa ne farai? Glielo farai restituirai?” le chiese Robert.

Simone fece scorrere fra le dita il gioiello studiandone le gemme scarlatte. Forse avrebbe potuto farne due bracciali. Ancora meglio, avrebbe potuto disporne per i poveri. Certo, Mrs Minniclore si sarebbe offesa in entrambi i casi. Ma al centro della propria mente c’era ben altro.

“Cosa ne pensi, Robert? Dei rubini, intendo.”

“Sono autentici” le rispose deciso.

“Sì. E a questo punto mi chiedo perché una persona pronta ad inviare delle pietre di questo valore a una sconosciuta si riduca a sfoggiare un pezzo di vetro a un ricevimento.”

Simone si sentì addosso lo sguardo severo di Robert. “Perché ho l’impressione che tu sia in procinto di cacciarti in qualche guaio?”

Simone gli rispose con un sorriso. Non ci sarebbe stato davvero nulla di male nello stringere ulteriormente quella nuova amicizia.

 

Cecilia Causfield-Smythe amava il proprio consorte; lo aveva scelto fra tutti i suoi pretendenti per avvenenza, gentilezza e posizione sociale. Il pensiero di potersi macchiare di adulterio non l’aveva mai sfiorata prima del mese di maggio di quell’anno. Poi incontrò Julien e allora non ebbe più scelta. Il nipote ventenne di madame de Villegrand cancellò dentro di lei ogni scrupolo e rimorso. L’idea di essere in qualche modo colpevole rimase lontanissima da lei. Julien fu discreto nel corteggiamento. La circondò di gesti e premure che suo marito aveva dimenticato da anni. Lei si smarrì nei suoi occhi azzurri e nel suo sorriso innocente. E quando madame de Villegrand le confessò la verità, lei non inorridì come avrebbe fatto solo qualche settimana prima ma si preoccupò unicamente di fare in modo che Julien fosse suo e solamente suo.

“Ho giocato, finora, Cecilia” le sussurrò lui in una notte di luna peccatrice che filtrava con i suoi raggi dalla finestra, per avvolgerli entrambi, colpevoli e clandestini. “Ma ora è diverso. Mia zia è d’accordo che tu sia l’unica ad entrare in questa stanza. E io ne sono profondamente felice.”

Meraviglioso Julien. A Cecilia non importava nulla del mercimonio che avveniva tra gli altri giovani di quella casa e le sue amiche. Lei e Julien erano diversi. Lei e Julien si amavano. Un giorno, quando i Borboni avrebbero riguadagnato il trono, sarebbero partiti insieme per la Francia.

Cecilia sorrise guardandosi allo specchio e trovandosi bella. Acconciatura, trucco, abito. Scelse la parure di zaffiri, lasciò che la cameriera le drappeggiasse sulle spalle il mantello e si avviò per salutare il proprio consorte prima di recarsi alla Royal Opera House ad assistere alla messa in scena del Pigmalione. Lui si complimentò garbatamente per il suo aspetto e si scusò per non poterla accompagnare. Era un rituale ormai consolidato. A suo marito non dispiaceva che lei facesse parte della cerchia di amiche di Mrs. Minniclore e di madame de Villegrand. Anche se all’inizio aveva storto il naso.

“Non vorrei che certe abitudini francesi ti contagiassero. Hai visto che fine hanno fatto da quelle parti.”

Lei lo rassicurò, dicendogli che in fondo si trattava unicamente di innocenti divertimenti tra signore che solo di tanto in tanto uscivano per recarsi a passeggio, a teatro o in barca lungo il Tamigi. A lui quelle parole bastarono. Probabilmente, come per altri uomini nella sua posizione, fu quasi un sollievo. Cecilia a sua volta fece in modo, con discrezione ed affetto, che lui non dubitasse mai. La carrozza la attendeva per portarla a teatro. L’opera sarebbe iniziata alle otto in punto. Un’ora dopo lei avrebbe lamentato un improvviso malessere di fronte agli sguardi complici delle proprie compagne.

 

Nonostante la prima impressione che Simone de Vaudrel aveva avuto di lei, Mary Minniclore si era rivelata una persona eccentrica ma non sgradevole. Guardata con sospetto dagli uomini e con ammirazione dalle donne, nonostante fosse rimasta vedova molto giovane, non aveva manifestato alcun desiderio di risposarsi.

“E ne ho avute di richieste, sai, Simone?” le disse durante una delle sue prime visite, prendendosi la confidenza di darle del tu. “Ma non mi interessa. Posseggo una discreta fortuna e posso vivere come più mi piace. Non mi servono la protezione e il nome di nessun uomo.”

Quel tipo di discorso lasciava perplessa Simone. Abituata a badare a se stessa e a prendere le proprie decisioni da sola, non riteneva possibile che all’interno dell’aristocrazia qualcuno potesse pensarla esattamente come lei. Sia fra le mura del convento di Pantemon che sotto l’ala protettrice del conte de Vaudrel, Simone non si era mai sentita davvero limitata. Ma era pur vero che aveva colto con gioia e sollievo la proposta di Robert affinché il loro matrimonio fosse celebrato prima della partenza per l’Inghilterra. Una donna nubile non viaggiava in compagnia di un uomo, e in fondo sposare Robert non era sempre stato uno dei suoi sogni inconfessati? Quindi seguiva con ammirazione e pudore i discorsi audaci di Mary, sapendo quanto potesse essere difficile vivere con uno spirito così vivace in società.

Solo Clarisse de Villegrand aveva suscitato in Simone una simpatia pari a quella provata per Mary Minniclore. Sebbene fossero completamente diverse, le due donne sembravano completarsi perfettamente a vicenda. Così come Mary era brillante, indipendente e fuori dagli schemi, altrettanto Clarisse era raffinata e vecchio stampo, garbata e fedele ai dettami dell’etichetta.

Simone aveva accantonato in un angolo della propria mente la bizzarra frase pronunciata da Mary durante il loro primo incontro, ‘Ricorrere alle cure dei figlioli di Madame de Villegrand’, e avrebbe dimenticato anche il motivo per il quale aveva deciso di stringere amicizia con lei se non si fosse resa conto che l’alternanza di gioielli falsi e autentici su lei e le altre dame era costante.

Mary non si era offesa quando Simone aveva fatto trasformare il collier di rubini ricevuto in dono in un bracciale, spiegandole che la ghigliottina aveva lasciato su di lei delle ferite dell’anima che le impedivano di prendere con leggerezza la questione.

“Se preferisci così. Mi dispiace di essere stata indelicata.”

Ma quando Simone aveva chiesto se anche il vezzo di indossare gioielli falsi fosse una nuova moda, lei si era risentita. “Vorrai scherzare, spero. Gioielli falsi, che idea. Ti assicuro che tale paccottiglia da prostituta non sfiorerebbe mai la mia persona.”

Simone non aveva insistito. Ma si era fatta prestare una apparentemente magnifica spilla di smeraldi e l’aveva mostrata a Robert, che aveva confermato. Si trattava di vetro e vile metallo placcato. Ma fu solo durante una serata a teatro che entrambi i quesiti, quello su madame de Villegrand e quello sui gioielli falsi, sembrarono trovare il barlume di una soluzione. Alla Royal Opera House la compagnia del Covent Garden metteva in scena il Pigmalione. Simone la conosceva vagamente di fama, ma non aveva mai assistito a quel genere di spettacolo. Alla fine le piacque anche se era ben consapevole di averne colto solo le sfumature superficiali, ma un incidente, anche se non lo si sarebbe potuto definire propriamente tale, venne a distrarla.

Cecilia Causfield-Smythe si alzò e abbandonò il loro palco poco dopo l’inizio della rappresentazione. Mary rassicurò Simone immediatamente “Sta tranquilla. Tornerà prima della fine.”

Solo durante l’intervallo Mary rivelò a Simone la verità. “Cecilia è da madame de Villegrand. Davvero non sai cosa succede nel suo palazzo? Sei così candida che a volte mi fai paura. Va bene, Simone. Ti dirò tutto. Ma tu prometti di non farne parola con tuo marito. I nostri uomini non devono saperne nulla. Hai visto i suoi figli, vero? E i suoi nipoti… Non trovi che siano splendidi? Ebbene, Simone, cotanto splendore non va sprecato. Se una sera ti sentissi sola, o annoiata dal tuo matrimonio, potresti bussare alla porta di madame de Villegrand e lei farebbe in modo che uno di quei bellissimi giovani alleviasse le tue pene. Cosa vuoi farci? Ha perso tutto con la Rivoluzione. In questo modo non si tratta di carità ma di un reciproco scambio. Ovviamente io prendo la cosa per quello che è. Altre, come Cecilia, fantasticano di amori impossibili e tragici. Ma è un problema loro, non mio.”

Simone si rese conto di essere avvampata durante quel lungo discorso. Mary la guardò con tenerezza.

“Hai la fortuna di amare tuo marito, Simone. Non per tutte è così. Quindi non condannarle. Prendi Cecilia, ad esempio. Questa sera è bellissima. È rifiorita da quando è arrivata madame de Villegrand. L’attesa e il desiderio le hanno acceso lo sguardo. Una carrozza la stava attendendo dietro al teatro. La stessa che la riporterà qui, senza che nessuno noti nulla. E quando la vedrai arrivare ti apparirà giovane e felice come una sposa innamorata. Cosa c’è di male in tutto questo?”

Simone non rispose. Si sentiva tremendamente ottusa poiché il suo pensiero correva a Lord Causfield, tradito ed ignaro. Non si sentiva di colpevolizzare Cecilia, né nessun’altra, tuttavia non poteva approvare la situazione. Si trattava di tradimento, inganno e adulterio. Di certo non avrebbe più guardato madame de Villegrand con gli stessi occhi. Anzi avrebbe cercato di non guardarla affatto, evitandola da quel giorno in avanti.

Quando l’amata di pietra spiegò il suo canto in scena e Cecilia Causfield-Smythe tornò al suo posto, raggiante e leggermente scomposta, la prima cosa che Simone notò fu il suo sorriso luminoso. La seconda fu la collana di zaffiri falsi che aveva rimpiazzato quella indossata dalla donna due ore prima.

 

Robert non sembrava sorpreso e neppure troppo interessato. Simone aveva avuto degli scrupoli nel raccontargli ciò che aveva scoperto circa le attività illecite di madame de Villegrand, ma adesso, nel buio silenzioso della loro camera, avrebbe voluto sentire un po’ di indignazione nella sua voce. Invece la sua attenzione, o almeno una piccola parte di essa, era indirizzata agli zaffiri di Lady Causfield-Smythe.

Simone protestò vivacemente. “Come è possibile che tu la prenda con tanta leggerezza? Quelle donne tradiscono i loro legittimi mariti e la contessa non solo copre loro le spalle ma offre la sua casa per incontri clandestini con i suoi figli!”

Robert rise abbracciandola. “Simone, nei corridoi di Versailles accadevano cose anche peggiori. Ora, anche se questo sembra turbarti, ti prego di tenere a mente la dimensione dello scandalo che potrebbe scoppiare se altri uomini dovessero scoprire la verità.”

“Quindi dovrei fare finta di nulla?” chiese Simone furibonda. Non le piaceva quell’aspetto di Robert. Non era da lui chiudere gli occhi davanti a un’ingiustizia.

Ma era davvero tale? Lei era stata fortunata. Aveva sposato l’uomo che amava, che la comprendeva ed era suo complice. Ma non per tutte era stato così.

“Sono sicuro che troverai una soluzione ricorrendo ai tuoi metodi, Simone” le rispose Robert ridendo. “Perché non è il comportamento libertino di un gruppo di giovani francesi il nodo della questione, quanto una collana di zaffiri che si trasforma in vetro nel giro di due ore.”

I miei metodi…

Robert stava tentando di dirle qualcosa? Sì, Simone lo sapeva benissimo. E in fondo non stava aspettando altro. Il suo costume, il suo mantello, la sua spada. La maschera. Non aveva più una maschera. L’ultima era bruciata insieme a Jeroul. Avrebbe dovuto cucirne una nuova.

Se.

Se avesse deciso di ritrovare i suoi metodi. Se si fosse rivelato necessario.

Se.

Non era ancora il momento. Poteva entrare in casa di madame de Villegrand dalla porta principale. La Stella della Senna non aveva il diritto morale di muoversi in quel mondo che non le apparteneva. E faceva freddo in quell’autunno londinese per aggirarsi nella notte a gambe nude.

Si ritrovò a sorridere. Ricordava la sera in cui aveva chiesto a Robert se quel costume composto da una quantità minima di stoffa lo avesse studiato per pura funzionalità.

“Niente affatto. Ho pensato soprattutto a deliziare i miei occhi.”

Lei si era arrabbiata ma non più di tanto. Non aveva più quindici anni ed erano marito e moglie. Sarebbe stato ridicolo per lei tirare fuori in quel momento scrupoli e timidezze che non l’avevano neppure sfiorata allora.

“Domani le farò visita” affermò decisa. “Sarà il caso che mi faccia dire quali sono le sue intenzioni per il prossimo Natale. Non ho idea se da queste parti i cattolici festeggino da soli.”

Lui rimase zitto per un po’, poi sospirò. “Due raccomandazioni, Simone. Cerca di essere prudente. E soprattutto tieni a distanza i pargoli della contessa. Sono fuori forma per impelagarmi in duelli per difendere il tuo onore. E, sì, sono anche piuttosto geloso.”

 

A Jean Pierre quel gioco piaceva. C’era qualcosa di assolutamente geniale nel modo di operare di Clarisse. All’inizio non credeva che potesse funzionare. Invece la loro banda non commetteva mai errori. Non che gli inglesi si fossero rivelati particolarmente intelligenti. E le loro donne avevano un’aria davvero triste. Solo con il trascorrere dei mesi Jean Pierre aveva visto le guance delle proprie amanti rifiorire e il loro sorriso illuminarsi. Lady Banbreck era una delle più belle. Anche in quel momento pensò che era stato particolarmente fortunato a conquistarne il cuore. Giovane, chiara di pelle ma con i capelli scuri, occhi grandi e azzurri, i fianchi non ancora rovinati da troppe gravidanze e un marito particolarmente generoso nel ricoprirla di regali costosi.

“Matilde, la luce della luna disegna sul tuo viso un’espressione incantevole” le disse sapendo che frasi simili, recitate con un determinato tono di voce, sortivano sempre il loro effetto.

Le sue ciglia tremarono. Bastava davvero poco. Le labbra che le sfioravano il collo, le mani che armeggiavano con il corsetto. E poi i capelli che si impigliavano nei suoi orecchini in modo che lei si affrettasse a toglierli per liberarlo. Una collana che intralciava le sue carezze. Un bracciale che gli impediva di baciare i suoi polsi delicati. Sarebbe finito tutto sul pavimento insieme ai suoi vestiti.

“Quando Luigi XVIII ricomparirà, quando i sovrani torneranno sul trono, io ti porterò con me, Matilde. Faremo in modo che tu ottenga il divorzio e ci sposeremo…”

Favole. Non avrebbe saputo dire se lei ci credesse o meno, ma era certo che le piacessero comunque. Era uno scambio fruttuoso per entrambi.

Quella sera Lady Banbreck indossava diamanti.

 

A Simone Loraine piaceva cucire. Non i ricami delicati che le dame intrecciavano per passatempo e neppure iniziali svolazzanti su fazzoletti di lino. A Simone piaceva cucire i propri abiti. E poi tovaglie e lenzuola. Le piaceva prendersi cura di quella grande casa e preparare da mangiare con le proprie mani. Per questo la servitù era ridotta al minimo. Perché lei era e restava una donna del popolo, abituata a lavorare e incapace di lasciarsi spaventare dalla fatica. Gli studi classici, l’educazione in convento e i modi aristocratici non erano che una maschera che celava la sua vera essenza.

Ma in quella sera di dicembre, mentre le sue dita agili facevano scorrere l’ago nella stoffa rossa, Simone si stava rendendo conto che qualcosa aveva perso comunque in quei mesi sul suolo straniero. Il suo corpo non era più agile e scattante come prima. La Stella della Senna stava dormendo. Ora, l’idea di saltare da una finestra le evocava l’immagine di se stessa piangente sull’acciottolato con buona parte delle ossa rotte. Sorrise pensando che sarebbe dovuta tornare a fare i propri esercizi. Nell’evenienza della necessità di dover fuggire rapidamente, di nascondersi nell’ombra o di…

Scavalcare cancelli? Lanciarmi appesa ad una fune da un campanile? Ho fatto davvero simili sciocchezze?

La risposta era affermativa. Spericolata, senza mai concedersi il tempo di riflettere sui rischi e fierissima di se stessa. Non si era mai sentita tanto viva come quando Robert… il Tulipano Nero. Per me allora lui non era Robert… le aveva regalato quella nuova identità che la rendeva assolutamente libera.

Lo osservò con la coda dell’occhio mentre leggeva accanto al camino con Charles sulle ginocchia. Chissà se davvero aveva capito cosa le stesse passando per la testa. Molto probabile. Nonostante amasse fingere indifferenza, Robert riusciva a scrutare in lei come un indovino in una sfera di cristallo.

Fermò l’ultimo punto di cucito.

“Zia Simone, è finita? Posso vederla?” L’impazienza di Therese era commovente. A volte a Simone dava l’impressione di aver dimenticato di essere stata la principessa di Versailles. Mai un capriccio, mai una lamentela, mai la richiesta di un abito troppo lussuoso. Il periodo trascorso in prigionia aveva reso il suo animo saggio e maturo.

Simone le drappeggiò il manto rosso ricamato di perle sulle spalle e la sentì sospirare felice. L’indomani, quando si sarebbero recate insieme da madame de Villegrand sarebbero state così simili da essere credute davvero madre e figlia.

 

Tomas de Villegrand detestava l’inverno. La stagione fredda lo orbava del piacere della caccia, delle cavalcate e dell’esercizio con l’arco all’aperto. Sebbene non potesse fare nulla per i passatempi venatori e l’equitazione, aveva fatto riempire una grande sala del palazzo di piante e fiori per concedersi l’illusione di un’eterna primavera mentre incoccava le proprie frecce e colpiva uno dopo l’altro i bersagli approntati per lui dalla servitù solerte. Non commise errori neppure quando il suo servo personale gli annunciò la visita di Simone de Vaudrel e della sua figliola. Cercavano Clarisse, ovviamente. Tomas diede ordine che venissero fatte accomodare e che venisse loro annunciato che la signora era andata a farsi acconciare e che sarebbe tornata di lì a poco.

Simone de Vaudrel era stata saggia a portare con sé la giovane Tess. La sua presenza le avrebbe permesso di intrattenersi in conversazione con individui di sesso maschile con fama libertina senza danni per la propria reputazione. Probabilmente aveva calcolato che madame de Villegrand potesse non essere in casa ma desiderava fermarsi comunque fino al suo ritorno.

Tomas la raggiunse in salotto, ancora avvolta in uno splendido mantello di velluto rosso bordato di pelliccia di volpe. Stava al suo fianco, composta e aggraziata, la figlia, anch’ella in rosso, ma con un manto ricamato a motivi floreali di piccole perle. Due immagini da dipingere immediatamente su una tela per immortalarne la bellezza. Se Etienne fosse stato nei paraggi gli avrebbe ordinato di chiedere alla dama e alla fanciulla di posare per lui.

Simone de Vaudrel lo aveva colpito immediatamente. Nascondeva di certo un segreto, aveva detto a Clarisse, e lui credeva di sapere quale. Quegli occhi non erano cupi e afflitti come quelli delle altre fuggiasche spezzate dalla Rivoluzione. E i suoi modi perfetti mal celavano il fremito della ribellione.

Clarisse aveva riso delle sue idee. Ma Tomas non si era lasciato ingannare. Sapeva di avere fatto centro. Sarebbe stata una magnifica conquista, quella che attendeva da anni, una volta riuscito a scalfire lo scudo di correttezza che la proteggeva.

Tentò di nuovo e riuscì ad incrociare il suo sguardo mentre le baciava la mano, ma stavolta, a differenza della sera in cui si erano conosciuti, Simone de Vaudrel sostenne il peso dell’occhiata sfacciata con fierezza.

I mantelli delle due donne vennero prelevati da una cameriera. L’istinto di Tomas colse lo splendore della spilla di diamanti che poco prima fermava il mantello intorno alla gola della contessa e che era ancora fermamente vincolato al velluto sanguigno. Ma era troppo presto. I gioielli di quella signora non potevano ancora essere definiti territorio di caccia.

Si accomodò con le sue ospiti e fece servire cioccolata e dolciumi.

“Vi prego di perdonarmi se vi accolgo in disordine. Mi stavo esercitando nel tiro con l’arco. Spero che la cosa non vi infastidisca troppo.”

L’inizio di una schermaglia resa per forza di cose delicata per la presenza della ragazzina. Simone de Vaudrel rispose con grazia ad ogni provocazione o motto. Tuttavia non gli concesse il minimo passo avanti nella conquista. Alla fine Tomas si convinse che fosse ben consapevole dei suoi veri scopi. Che forse la voce di ciò che accadeva davvero tra quelle mura era giunta al suo orecchio. Questo rappresentava un notevole svantaggio che gli imponeva di cambiare strategia. Doveva giocare a viso aperto e conquistare qualcuno dei segreti che madame de Vaudrel, e lui ne era certo, celava.

“Ho sentito dire che tirate di scherma, madame. Mi fareste l’onore di incrociare la lama con me?”

Il proprio fiuto lo aveva immediatamente messo in guardia nei confronti di quella donna. Alla fine tirare le somme era stato più facile del previsto. Anni e anni passati a sfuggire alla polizia parigina gli avevano insegnato istintivamente a riconoscere un segugio. Ora stava a lui invertire i ruoli prima che il cane da caccia lo azzannasse. Una spadaccina bionda. E quel collo da cigno… La sola idea era pazzesca. Eppure si sarebbe tolto gli ultimi dubbi solo vedendola impugnare un fioretto.

“Devo rifiutare, monsieur. Non sono abbigliata nel modo più adatto. Dovremo rimandare ad un’altra occasione. E comunque la mia abilità non è affatto eccezionale.”

“Suvvia, non siate così modesta…”

Clarisse era entrata in salotto scivolando alle spalle di Simone de Vaudrel. Quest’ultima, colta di sorpresa, si voltò verso di lei.

“Madame, vi attendevo. Desideravo parlarvi dei preparativi per un eventuale ricevimento di Natale.”

Così aveva lasciato cadere l’argomento. Tomas si congedò sapendo che un’altra occasione sarebbe arrivata. E stavolta la preda non avrebbe potuto dirgli di no.

 

Ogni volta che lasciava il palazzo di madame de Villegrand, Simone Loraine si sentiva stordita. Forse era stata ingenua ad aspettarsi che le cose andassero come aveva immaginato. La spilla di diamanti che aveva usato come esca era ancora appuntata sul suo mantello, autentica e intatta. Aveva creato, nella propria mente, la fantasia di scaltri ladri nascosti negli angoli bui del palazzo, pronti a sottrarre a una dama distratta i propri gioielli ma così non era andata. D’altra parte era insensato credere che una cosa simile potesse accadere. Come avrebbero potuto celare la mancanza di una spilla o come sarebbero riusciti a rimpiazzarla con una copia? Avrebbero dovuto sapere quale…

Trasalì per un attimo. Therese se ne accorse.

“Zia Simone, hai l’espressione di chi ha scoperto qualcosa.”

“Forse è così. Forse…”

Madame de Villegrand non aveva negato nulla quando Simone aveva fatto scivolare cautamente la conversazione sull’argomento “dame e cavalieri”. I suoi figli e i suoi nipoti erano giovani e passionali. Era più che normale che facessero conquiste. Se fossero stati ancora in Francia un simile comportamento non avrebbe di certo dato scandalo.

Sembrava tutto molto sensato. Purtroppo Mary Minniclore aveva posto la questione in tutt’altro modo. Ma Mary Minniclore era eccentrica nei modi e nei pensieri. E per un attimo Simone aveva creduto di essersi sbagliata. Ma ora immaginava signore fuggiasche che, nella notte, si infilavano in una carrozza che le avrebbe condotte dal loro amante. Signore fuggiasche abbigliate per la sera.

“Simone.” Di nuovo la voce di Therese richiamò la sua attenzione. Il sorriso sul viso della ragazza era colmo di una furbizia fanciullesca. “È avanzata un po’ della stoffa che hai usato per cucire il mio mantello, vero? Io trovo che sia un punto di rosso meraviglioso…”

 

“Qualunque cosa sappia…”

Clarisse interruppe con un gesto Tomas. Quella conversazione aveva dell’assurdo. Perfino gli altri sei giovani non sembravano prenderlo sul serio. Coloro che lei stessa aveva fatto risplendere come sette copie del dio Apollo attendevano che lei rendesse palese la propria opinione circa i sospetti di Tomas. Lei li rassicurò immediatamente.

“Sono sicura che tu ti stia agitando per nulla, Tomas. È normale che a madame de Vaudrel siano giunte voci sul vostro conto. Con la curiosità tipica di ogni donna è venuta a verificare con i propri occhi. Ma essendo pudica e farcita di propositi onesti, e di alta morale, quanto un cappone può esserlo di mele e funghi ha dovuto comunque mostrarsi sdegnata. La qual cosa è molto poco… francese, se posso dirlo. Almeno se pensiamo all’idea dei francesi che hanno da queste parti.”

Tomas sembrava tutt’altro che convinto. Clarisse aveva un’adorazione speciale per lui. Era il più bello fra le sue creature, o almeno quello che incontrava principalmente il suo gusto. Aveva qualcosa di moresco e selvaggio in sé. Era assolutamente diverso da tutti gli altri. Sembrava in grado di condurre una donna alla pazzia.

“Io sono certo di non sbagliare. E ne avrei le prove se solo fossi riuscito a tirare di scherma con lei.”

Clarisse non ne dubitava. Era una delle sue abitudini più prudenti informasi sulle nuove conoscenze. Simone de Vaudrel da questo punto di vista si era rivelata una miniera inesauribile di segreti e misteri. Fortunatamente lei aveva ancora qualche amicizia sul suolo francese che le aveva permesso di svelarli uno ad uno. I tasselli mancanti li aveva aggiunti usando la propria sagacia. Ma questo non lo avrebbe detto a Tomas e agli altri. Era necessario che non perdessero la calma.

“Anche se fosse come tu dici” lo rassicurò. “Cosa credi che potrebbe fare? Questa non è Parigi. Non c’è alcun bisogno di un eroe. Almeno non nella nostra nuova cerchia di amici.” Non sapeva se lo avesse convinto o meno. Ma Simone de Vaudrel era una questione che avrebbe dovuto trattare di persona.

 

Il ricevimento natalizio si tenne, nonostante le previsioni, in casa di Mrs. Minniclore. All’inizio Simone aveva pensato di organizzarlo nella propria dimora, ma Mary aveva insistito .

“Siete troppo distanti da Londra. Da qui potremo andare a Westminster per la messa di mezzanotte.” Simone aveva riflettuto e alla fine cedette, confidando infine i propri progetti a Robert che rise di cuore.

“Proprio la notte di Natale? Oserei dire che la tua anima è in pericolo.”

“Non potrei comunque scampare il Purgatorio grazie a una messa celebrata da un prete che non è tale e che non conosce il latino” gli rispose finendo di cucire le calze bianche che avrebbe indossato per l’occasione. Il cielo prometteva neve. Avrebbe avuto bisogno anche di un paio di guanti nuovi, di pelle robusta, e neri, perché fossero in tinta con il mantello. Erano i piccoli dettagli a rendere immortale una leggenda.

“Non ti facevo tanto fedele ai dettami della Santa Romana Chiesa” la schernì Robert.

Lei lo ignorò. Le importava ben poco dei protestanti e delle loro bizzarre abitudini. E la sua anima non sarebbe stata in pericolo più di quanto non lo fosse stata nel momento in cui la sua spada aveva passato da parte a parte il cuore di un altro essere umano. Le parole ‘leale duello’ e ‘difesa di me stessa’ le avevano fatto da scudo contro ogni sorta di rimorso. E l’arcivescovo di Notre Dame le aveva sempre concesso l’assoluzione quando si era presentata nel suo confessionale come la Stella della Senna. Era stato Robert a renderla ciò che era ora oppure il seme si annidava da sempre dentro di lei? Simone non avrebbe mai potuto scoprirlo e in fondo neppure le importava. Tanto tempo prima si era ripromessa di dimenticare per sempre il proprio alter ego e di tornare ad essere solo una semplice ragazza del popolo. Ma aveva fatto marcia indietro più in fretta di quanto amasse ammettere. In quel momento aveva capito che lei era diventata ‘l’altra’ e che la vera maschera era Simone Loraine.

Quella maschera si presentò a casa Minniclore la notte della vigilia di Natale avvolta in una morbida pelliccia di volpe bianca mentre la vera se stessa attendeva di essere risvegliata grazie al costume nascosto sotto il sedile della propria carrozza. Lei, Robert e i loro figli presero parte al ricevimento gustando i piatti delicati della tavola di Mary, cantando inni al Bambino che stava per nascere e concedendosi il vezzo della danza. Poi venne il tempo del giro per le elemosine.

Simone attese con pazienza e fece il proprio dovere nella Londra notturna e innevata. Poi, tra la folla della cattedrale, sgusciò via nella luce di migliaia di candele, sotto lo sguardo comprensivo di Robert. Sapeva di non avere troppo tempo. Doveva tornare prima del Missa Est, o qualunque cosa dicessero gli inglesi al suo posto.

Cambiarsi nella carrozza fu meno scomodo del previsto. Esitò solo un istante prima di indossare la maschera rossa che Therese aveva insistito per cucirle personalmente. Dopo divenne tutto facile. Con il cuore che le batteva a mille si gettò nell’aria fredda della notte.

 

Anche la servitù aveva diritto alla propria messa. Per questo si trattava del momento propizio per introdursi in casa altrui eludendo la sorveglianza di pochi guardiani intenti a bere per festeggiare il Natale. Madame de Villegrand e i suoi protetti li aveva visti l’ultima volta salmodiare convinti a tre panche da lei. Aveva un margine di tempo ristretto ma il palazzo avvolto nel buio era a sua completa disposizione. Entrare non era stato difficile. A opporre resistenza era stato solo il ghiaccio incrostato su una finestra al primo piano. Non appena i suoi occhi si abituarono all’oscurità, Simone Loraine, nei panni di una nota eroina, esplorò cautamente la stanza in cui la sorte l’aveva fatta entrare. Era un lussuoso appartamento con mobilia risalente al secolo precedente con tanto di immenso baldacchino. Ma le era impossibile cogliere altri dettagli. Corse il rischio di accendere il lume ad olio trovato sulla cassettiera e si concesse l’imprudenza di guardare in giro con più attenzione. Era la camera di uno dei figli di madame de Villegrand. Nel guardaroba c’erano esclusivamente abiti maschili. La porta fortunatamente non era chiusa a chiave.

Simone si assicurò che non ci fosse nessuno in vista e percorse il corridoio fino alla stanza successiva. Le lettere d’amore di Cecilia Causfield-Smythe erano abbandonate su uno scrittoio. Simone provò istintivamente pietà per lei. Non stava concludendo molto. Anche la camera da letto padronale non le riservò sorprese. Aveva sperato di trovare negli scrigni di madame de Villegrand qualcuno dei gioielli misteriosamente diventati vile metallo, ma dovette arrendersi all’evidenza. Questo fino al momento in cui entrò nella stanza dell’ultimo dei ragazzi. Aveva sentito parlare del talento del giovanissimo Etienne per la pittura. E poté constatare che tali lodi non erano eccessive. Forzò uno dei cassetti con la punta della spada e si trovò davanti degli schizzi a carboncino che ritraevano dettagli ornati di dame ignare. Orecchini, bracciali, collane, riprodotti con precisione, con dettagli appuntati circa le pietre e il colore dell’oro. Non dimostravano nulla se non il talento di un adolescente e i suoi soggetti bizzarri. Ma a lei dicevano moltissimo. Clarisse aveva dei complici. Faceva forgiare dei falsi in città, usando quei disegni come modello? Le sembrava ovvio e infinitamente banale. All’improvviso si chiese cosa ci facesse lì. Trovare prove per convincere quella gente a restituire il maltolto? L’idea era semplicemente ridicola. Si chiese se anche la sua spilla di diamanti fosse diventata il soggetto di uno di quei disegni, ma non aveva il tempo per scoprirlo. Le occorreva mettere le mani su almeno uno dei gioielli rubati. Poi avrebbe cercato un modo di usarlo come prova per spingere madame de Villegrand a confessare.

Scese cautamente al piano inferiore chiedendosi quale fosse il luogo più idoneo per nascondere della refurtiva. Non riuscì a darsi una risposta, ma l’istinto la guidò verso le cantine. Le sue sortite notturne non trovavano quasi sempre la loro naturale conclusione nei sotterranei di qualche palazzo, dai quali far fuggire il prigioniero di turno? Le era successo talmente tante volte che ne aveva perso il conto. Questa volta era diverso. Nessuno la attendeva per essere salvato.

Aprire la porticina in ferro in fondo alla scala si rivelò un’impresa che le portò via diversi minuti, ma stavolta, anche se non trovò ciò che stava cercando, il forno, la sabbia e i falsi riposti sulle mensole in legno le rivelarono che madame de Villegrand provvedeva da sola a fabbricare le copie perfette dei monili.

Nonostante tutto subiva il fascino di quell’ambiente. Le ricordava allo stesso tempo la bottega del fabbro dell’Î de la Cité e la stanza in cui il bandito Goriac torturava i propri prigionieri. L’odore di metallo fuso e di fuliggine era pesante e aspro. Si legò alla cintura una collana di finti oro e zaffiri e lasciò il sotterraneo. Non poteva fare nulla. Ma sapeva che in futuro avrebbe potuto pentirsi di non avere portato via un ricordo di quella notte…

Ma nessun gioiello in vista. Possibile che abbia già venduto tutto? E chi è il suo ricettatore?

Avrebbe dovuto seguire i movimenti della gente di quella casa. Ma, in un modo o in un altro, ne sarebbe venuta a capo.

Attraversò il salotto in cui il bel Tomas l’aveva ricevuta, diretta alle scale che portavano al piano superiore. Intendeva uscire come era entrata, cancellando ogni traccia del proprio passaggio.

Eccettuata la collana che sto… rubando.

Una luce improvvisa la strappò a quell’assurdo rimorso. Trasalì trovandosi di fronte Clarisse, con in mano un candelabro e senza soprabito, segno che era rincasata da un po’ e che la stava aspettando. Simone si sentì incredibilmente sciocca.

La padrona di casa sorrideva in modo comprensivo. “Allora, piccola Stella, vi è piaciuta la visita alla mia dimora? Scusatemi se non vi ho fatto da guida. Ma ho pensato che preferiste fare da sola.”

Simone la osservò accendere una ad una le candele e le lampade del salotto. Solo il lampadario rimase spento. Ora l’atmosfera era calda, tenue e decisamente natalizia. Non sapeva come comportarsi. Estrasse istintivamente la spada. Era un gesto che le dava sicurezza.

“Oh” commentò Clarisse. “Dunque desiderate fare un po’ di esercizio mentre parliamo? Tomas sarà verde d’invidia quando glielo racconterò.” Madame de Villegrand tolse una delle spade che ornavano il camino dal fodero. Era antica e probabilmente parecchio più pesante della sua. La puntò contro di lei. Simone la incrociò con la propria. “Tomas desidera battersi con voi da anni. Da quando lo feriste in Rue Condé sorprendendolo mentre usciva con l’incasso dalla bottega di un pellicciaio. Continua a ripetere che a lui, ladruncolo e straccione, appariste bella come la Madonna e eroica come Giovanna d’Arco. Vi ha riconosciuta immediatamente. Dal vostro collo, asserisce lui. Quello la maschera non può nasconderlo. All’inizio non l’ho preso sul serio. Poi avete cominciato ad apparirmi sospettosa. Allora ho fatto muovere i miei contatti in Francia.”

Un affondo. Simone arretrò parando. Di nuovo una pausa.

“Chi siete, madame? Perché fate… quello che fate?”

Clarisse rise apertamente. “Non vi interessa il perché, piccola Stella lontana dal suo fiume, ma il come. È solo la curiosità che vi porta qui. In realtà è molto semplice. Facevo lo stesso sul suolo francese. Ma senza pretendere di essere nobile, e a viso aperto. In questo la nostra gente è più onesta, non credete?”

Attacco. Clarisse schivò con calma.

“Onesta? Cosa c’è di onesto in tutto questo? Siete una ladra.”

“Definitemi dedita al libero commercio.” L’espressione sul viso della donna continuava ad essere divertita. “I miei ragazzi offrono a queste rigide signore piaceri a loro ignoti e chiedono in cambio molto poco. Che si spoglino di abiti e gioielli. Gioielli dei quali abbiamo provveduto a fare delle copie con le quali sostituirli prontamente al momento. È molto facile. Etienne, il piccolo, l’ho preso con me dopo averlo visto al Pont Neuf fare ritratti ai passanti. Ora finalmente la sua arte gli permette di vivere. Le dame che passano di qui sono tutte inconsapevoli modelle. E quando si ritroveranno ad indossare la medesima toeletta del loro ritratto, le copie saranno pronte per essere sostituite mentre l’ignara innamorata si abbandona nell’alcova. Ora, guardatevi intorno, Simone.”

Lei non abbassò lo sguardo ma lanciò un’occhiata alla stanza rischiarata. Non vedeva nulla che potesse colpirla in modo particolare.

Clarisse sospirò. “Il mio inganno è troppo efficace, a quanto sembra. Guardate gli occhi del Mercurio d’oro che sostiene il vaso sul tavolo ad angolo.”

Simone rimase senza fiato. Erano sempre stati davanti a lei durante le sue visite. Due orecchini le cui pietre verdi non erano neppure state tolte dalla loro struttura. Studiò l’ambiente con occhi nuovi. Collane a tenere ferme le tende, perle a decorare i vasi, gemme sulle maniglie delle porte e delle finestre. E il lampadario era un trionfo di pietre splendenti.

“Un pezzo alla volta. Per non destare sospetti. Solo così possiamo vendere senza correre rischi.”

Simone si trovava a metà strada tra il disgusto e l’ammirazione e la cosa non le piaceva. “Lo fate solo per denaro?” chiese.

“Mi sembra evidente” rispose Clarisse. “E anche per provare a me stessa di essere migliore di loro.”

“Migliore?” Simone si trovò a rabbrividire.

“Migliore, Simone. Sono sicura che sai cosa voglia dire. Non hai forse provato la stessa cosa quando ti sei trovata a Versailles tuo malgrado? Non ti sei chiesta forse se per quella gente a contare non fossero solo le piume e le sete di cui si ornavano? Tanto da lasciarsi ingannare da una come me e dall’illusione che offro. Cosa importa se le collane che indossano quando escono da qui sono prive di valore? Non vedono perché non vogliono vedere. Cedono all’inganno perché è quello che vogliono. L’amore di un giovane francese, una dama che ha perso tutto ma non la propria dignità aristocratica e la certezza di tornare a casa con la stessa immagine che avevano quando hanno varcato questa soglia. E tu vorresti distruggere la magia? In nome di cosa?”

Perché è giusto, fu l’unica risposta che le venne in mente, ma non la pronunciò, rendendosi conto di quanto sarebbe sembrata stupida.

Clarisse abbandonò la spada contro il camino, si mosse verso una delle vetrine e prese una bottiglia di cognac. Riempì due bicchierini e ne offrì uno a Simone. “Fa freddo, stasera. Questo ti farà stare bene.”

Nonostante tutto lo prese e si bagno le labbra. Quella strana Vigilia assomigliava a una fantasmagoria.

“Niente guardie, niente cani, nessun servo o sorvegliante. Sai perché ho fatto in modo che entrassi qui stasera indisturbata? Perché io e te siamo della stessa razza, Simone Loraine, fioraia di Parigi.”

Ormai più nulla era in grado di sorprenderla, quindi tacque e la lasciò continuare.

“Presa in casa come figlia adottiva dal conte de Vaudrel, rinchiusa per tre anni nel convento di Pantemon dal quale uscivi nottetempo per giocare all’eroe. E poi cos’altro? Già, la cosa più importante. Entrata misteriosamente nelle grazie di Maria Antonietta. Qui le mie informazioni si fanno nebulose. Una figlia bastarda di Giuseppe I? O di Leopoldo? O addirittura di Francesco di Lorena, padre della nostra defunta regina? Non credo che abbia importanza, ormai.” Clarisse alzò il bicchiere. “Quello che conta è l’eredità del vostro piccolo Charles, l’erede legittimo del fu Luigi Capeto.”

Simone vuotò il bicchiere. Il liquido le bruciò la gola. Non poteva giocare quella partita. Non se la posta era Charles. Nessuno doveva sapere di lui, del suo sangue blu e del fatto che fosse l’erede al trono di Francia.

Clarisse afferrò di nuovo l’elsa della spada. “Ogni eroe ha bisogno di un nemico all’altezza. Io accetto di essere il tuo. Come ti farai chiamare, ora? Con il tuo inganno. L’ennesimo. Con ciò che ci rende simili. Attenta. Il tuo accento potrebbe tradirti. Sarai una vendicatrice silenziosa? E riuscirai a incastrami e al tempo stesso a proteggere il principino? È una sfida interessante.”

Sollevò la lama verso il lampadario e quando la riabbassò, avvolto sulla punta c’era un nastro di velluto sul quale spiccava un grosso rubino ovale.

“Un segno della mia stima. Mary lo indossava stasera. La copia, intendo dire. Gliel’ho tolta dal collo mentre era intenta alle sue orazioni. Restituiscile l’originale. Trova il modo. Puoi fingere di averlo trovato in terra.” Clarisse fece scivolare il gioiello nel bicchiere ormai vuoto. “Siamo in ritardo e dobbiamo affrettarci, Simone. Non essere in collera con me. È solo l’inizio di un nuovo gioco. Sappi che ti ammiro moltissimo da anni.”

Simone le sorrise. Sarebbero tornate insieme alla cattedrale? L’idea non le dispiaceva. Era vero, Clarisse si sarebbe rivelata un’avversaria interessante. Ma di una cosa non si rendeva conto. Lei non l’avrebbe mai lasciata vincere. Perché quell’inverno non sarebbe finito molto presto.

E lei avrebbe detto a una qualunque delle loro comuni amiche “Che orecchini. Vi prego, posso vederli da vicino?” E la dama le avrebbe porto quei pendenti di presunti diamanti e lei, Simone la fioraia, li avrebbe osservati con volto estasiato. Sarebbero stati piacevoli, quei pomeriggi tra donne. Anche se gennaio si sarebbe rivelato gelido e crudele.

Si sarebbe avvicinata a una finestra per fare in modo che i pallidi raggi del sole colpissero le gemme di vetro.

“Una magnifica fattura” avrebbe esclamato mentre la dama avrebbe lodato il suo gioielliere.

Le dita si sarebbero allentate. L’orecchino sarebbe caduto. Il suo tacco distratto l’avrebbe calpestato.

“Cielo, scusatemi, Jane” avrebbe detto, chinandosi a raccoglierlo, per poi atteggiare il viso ad un’espressione perplessa. “Ma si tratta di falsi! Le pietre si sono scheggiate.”

Sguardi smarriti rivolti a Jane. Mormorii scandalizzati. Sa già che quel giorno non potrà aspettarsi alcuna arguzia da parte loro. “Jane, è possibile che il gioielliere vi abbia ingannata?” La pista giusta da regalare a tutte loro. “O che quelli autentici vi siano stati rubati? Qualcuno ne ha avuto l’occasione? Qualcuno della servitù? O li avete indossati in qualche luogo insolito?”

Pallori improvvisi. La conventicola di dame avrebbe scrutato i propri monili, forse notando per la prima volta strane opacità e piccole imperfezioni. Certamente avrebbero scelto il silenzio. Ma avrebbero fatto in modo di evitare, da quel momento in poi, di portare le loro gemme troppo vicino alle mani dei loro amanti.

Clarisse l’avrebbe guardata e sarebbe stata lei, allora, a lasciar trasparire rabbia e ammirazione.

Mentre la piccola carrozza conduceva di nuovo la dama impellicciata e la ragazza avvolta in un mantello nero verso la cattedrale in quella nevosa notte natalizia Simone le sorrise davvero. I dettagli erano ancora da curare. I rischi tanti, soprattutto per quanto riguardava Charles. Ma sapeva che sarebbe arrivata fino in fondo.

Sì, la Stella della Senna non è abituata a perdere. A te la prossima mossa.

 

 

 

 

 

   
 
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