Fanfic su attori > Josh Hutcherson
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Autore: youcantjudgeme    01/01/2014    0 recensioni
"Ero una costate di equilibrio, poco equilibrata. Nessuno capiva realmente cosa passassi, nessuno sapeva niente di me; in compenso, io non volevo sapere niente di loro. Avevo tremato al freddo, ma non era il gelo ad avermi fatto rabbrividire."
Rachele non stava bene; ma non voleva essere salvata, lei era sempre stata così brava a salvarsi da sola; ne era così fiera. Era a Los Angeles, se ne era andata da un passato tormentato, da un padre che la picchiava, da una madre poco presente, da un fratello che se ne era andato, da chissà quanto tempo. Poteva andare ovunque lei volesse; poi incontrò lui, i suoi occhi la incantarono, ma temé per se stessa, temé che lui potesse ferirla, come avevano sempre fatto tutti; lui poteva essere come gli altri, o essere l'unico a poterla rendere felice. Spettava a lei la scelta.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
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I don't know when I cross the line



Avevano determinato la mia vita tante cose, eppure è sempre rimasta tanto imperfetta. In Italia non stavo bene; non lo sarei mai stata. Avevo una laurea triennale in giornalismo; il mio sogno era andare a Londra; ma con uno stipendio da department manager, non potevo vivere a Londra.
Mi diedero la possibilità di andare a Los Angeles; la colsi al volo.

Ero in viaggio da otto ore, le hostess passavano e io mi assopivo sempre di più. Mi svegliarono arrivati a Los Angeles, dopo tre scali. Prendendo il borsone mi accorgo che un signore alquanto anziano era seduto guardando avanti a se, seguendo i miei movimenti; sorrido, è l’unica cosa che mi viene in mente, che mi viene naturale.



«Signorina cara; potresti prendermi la valigia, che è qui?» Lo chiese così amabilmente, che poggiando le mie cose sul sedile, lo aiutai anche ad alzarsi. «Quanti anni hai, se non sono indiscreto?» mi chiese; esitai un attimo, non lo avrei più rivisto probabilmente «Ne ho ventuno, signore » «Anche io cinquantun anni fa, ne avevo ventuno. Ma ultimamente non mi sento più giovane come un tempo…Sai queste anche».



Stavo sorridendo sentendo le storie di questo signore appena conosciuto, parlava dei suoi anni in aeronautica, delle sue avventure amorose, di come incontrò sua moglie, dei suoi figli, dei nipotini.



«Chi la viene a prendere, signore?» «Verrà mio nipote, è un bel giovanotto; alto, aitante. Te lo presenterò!» «Volentieri!» Aspettammo insieme il nipote; che come ogni giovane, era in ritardo; aspettammo mezz’ora, che volò con i racconti del signor Gamon. Era arrivato.



«Caro Natan, in ritardo come al solito?» «Scusa nonno. Ho trovato traffico». Natan continuava a guardarmi, non riusciva a collegare chi io fossi; era naturale. «Lei è la hostess?» il signor Gamon esplose in una risata sonora «Che sbadato! Lei è Rachele, mi ha dato una mano con le valige, e ha ascoltato le mie storie da vecchio rimbambito» «È stato un piacere signor Gamon! Io ho conosciuto solo un nonno, quando è morto ero piccola e non sono riuscita a farmi raccontare tutte queste cose.»



Porsi la mano al nipote, che afferendola la strinse compiaciuto. «Vuole un passaggio?» «Oh, no. Grazie, comunque. Prenderò un taxi». Natan insistette sotto obbligo del nonno, al che, accettai. «Dove devi andare?» sfogliai un biglietto e leggendolo pronunciai: «Hollywood Blvd 820, S 46th Ave».



«La zona da ricchi!» disse Natan. Io risi, non sapendo se essere offesa o onorata. Natan mi tolse la valigia dalle mani e la caricò nel fuoristrada insieme a quella di suo nonno. «Sei inglese?» chiese Natan; prima ancora che io rispondessi il signor Gamon replicò al nipote: «Dall’accento si direbbe inglese, ma il nome non lo è! Rachele deve essere francese.» Risi, probabilmente mi presero per scema e rispondendo alle loro facce perplesse, spiegai che ero italiana. Loro strabuzzarono gli occhi, come se quella detta da me fosse una sorta di eresia. «Non l’avrei mai detto!» disse il signor Gamon. Allora iniziò a parlarmi del suo viaggio in Italia e mi chiese da che città io venissi. «Vengo da Venezia, ma gli ultimi due anni ho abitato a Milano; perché c’è una buona università di giornalismo, dopo essermi laureata, volevo andare a Londra come avevo programmato, ma il lavoro non mi dava la possibilità e tra le città ho scelto Los Angeles» «Ottima scelta- disse Natan -qui ci si diverte sempre».



Arrivammo al palazzo del mio appartamento, chiamai il proprietario, che mi diede la chiave; Natan il suo numero. «Chiamami quando vuoi!- disse -A volte qui ci si può sentire soli, se non si ha nessuno».



Ero entrata nella mia nuova casa; nella mia nuova vita, appoggiando la borsa sul tavolo, e la valigia sul pavimento della camera. Stavo chiudendo con un capitolo della mia vita, sperando sarebbe stato meglio di quello passato in precedenza. Ero sempre stata io il mio problema, era una vita che convivevo con me stessa, ma non trovavo quiete, non stavo bene con me stessa, di conseguenza non stavo bene tra gli altri. Gli altri mi avevano sempre messo addosso insicurezze, che poi si trasformavano sempre in complessi; di complessi ne ero piena zeppa, stufa morta. Non sapevo se Los Angeles mi avrebbe fatto bene; non sapevo niente! Forse, era meglio così. Chiamai mia madre e mio fratello per avvisare che ero arrivata, che stavo bene, che l’aereo non era caduto; sembrava ne fossero sollevati. Avevo dormito più di tredici ore, mi ero già abituata al fuso orario; mi ero sempre abituata in fretta; anche l’ultima volta che ero andata in Canada per trovare i miei zii e i cugini; ci vollero solo otto ore per abituarmici.



Erano le nove e trenta, al mio risveglio. Andai in una delle catene di caffe e schifezze; «Potrei avere un espresso grande?» chiedo gentilmente alla ragazza al bancone; lei annuendo gestisce velocemente l’ordine nel computer di cui la cassa è dotata, apro il portafoglio e ne sfilo una banconota da cinque dollari, chiedendo alla ragazza se posso aggiungere un muffin, lei sorride e accenna un segno di acconsentimento con la nuca. Pagando, mi porge il caffè in una mano e il muffin in una busta, dandomi lo scontrino mi porge anche il resto, che velocemente metto in tasca.



Mi avvio verso STREET SUITE Q4, verso THE GROVE dove il mio capo mi aveva affiliato nello store.



Prendendo il telefono digito la meta dalla posizione attuale; seguo minuziosamente il percorso segnalato dalle mappe del mio cellulare, cercando punti di riferimento, percorrendo la strada che dovrò fare tutti i giorni, da oggi in poi, per chissà quanto tempo. Intanto penso che dopo essere uscita dall’università con il mio 108, non mi è rimasto molto, perché quello che faccio non c’entra niente con la scrittura; mi sento irrealizzata, forse dovrei cercare altro; ma sono appena arrivata, faccio fuggire questo pensiero dalla mente, proseguendo per la mia strada.



Entro nel negozio, mi presento, spiego che sono quella che si occuperà degli orari dei modelli e dei runner, compresi i manager degli altri dipartimenti, che i colloqui dei futuri assunti sarò io a farli. Sono sempre stata molto autoritaria, sul lavoro. Ho sempre lavoricchiato da quando ho diciassette anni e qualsiasi fosse il mio ruolo sono sempre stata molto intransigente. Tutti si presentano; mi avvio poi io verso l’ufficio dello store manager.



Mi presento; porgo le referenze assegnatemi in Italia da Paul il capo del negozio. È un lui; biondo, alto almeno un metro e novanta (ad intuito), con spalle possenti e occhi azzurri; gli porgo la mano, sono arrossita, e non poco «Piacere, Rachele!» «Ciao Rachele. Io sono Ossian; è un piacere conoscerti. Paul mi ha parlato molto bene di te, tre promozioni in un anno e mezzo sono parecchie. Devo farti i miei complimenti. Questo store si aspetta grandi cose da te». Fatico ad accennare un misero grazie; uscendo mi fa un occhiolino e io divento sempre più rossa in faccia. «Oggi fai mezza giornata; ti devo spiegare dei procedimenti alternativi tra Europa e America; ok? Non prendere appuntamenti per pranzo.»



E chi li prende? Penso tra me e me, mai visto ragazzo più bello in vita mia, anche lui deve essere giovane, non dimostra più di ventott’anni. Sbrigo le mie faccende, ci sono un sacco di ragazzi, vedo poche ragazze nei dintorni.



È scoccata l’una e mezza, arriva Ossian di fianco alla mia postazione, chiedendomi se io sia vegana, perché lui non lo è. Qui tutte le tipe sono mezze vegane e lui di posti vegani ne conosce un sacco «Mi spiace deluderti, ma io adoro gli hamburger» rispondo interrompendo il suo monologo su verdura e soia, mi fissa deluso e poi mi sorride «Grazie a Dio non sei una fissata- è come sollevato -tutte le ragazze che lavorano qui vanno pazze per tofu, soia, alghe. Io provo a mangiarle, ma dopo sto in bagno per giorni.» Gli sorrido amabilmente, come per confortarlo, sembra un tipo abbastanza logorroico, non fa altro che parlare. «Ti porto in questo posto dove fanno hamburger da chilo. I più buoni di tutta Los Angeles» dice lui soddisfatto «Ti credo sulla parola. Sai com’è, sono qui da neanche un giorno!» dico io.



È un posto a dieci minuti dal THE GROVE; hanno hamburger di dimensioni improponibili, prendo la misura più piccola, con formaggio e pomodori. Ossian prende la misura media con quattro tipi di salse, pancetta, uovo e lattuga.



Mi spiega che sentimentalmente parlando, non si dovrebbero avere relazioni con ruoli maggiori o inferiori, a lavoro. Aggiunge che basta solo non farsi beccare.



«Quanti anni hai Rachel?» qui è difficile per tutti pronunciare il mio nome Italiano, quindi li lascio fare, non suona poi così male. «Ne ho vent’uno, tu?» chiedo un po’ imbarazzata «Io ne ho ventisei» risponde come se fosse intenerito dalla mia improvvisa timidezza. «Sei diventata tutta rossa!» mi fa notare; tento di fingere un accenno di soffocamento, che pare vano. Non sono una brava attrice. Che cosa mi sta succedendo?

  
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