E' l'attimo l'arco di tempo a cui la tragedia appartiene. Quell'istante che cambia tutto, irrimediabilmente. Non riesco a non pensare a ieri, ventiquattro ore fa a questa stessa ora, quando ancora non sapevo cosa sarebbe successo, quando mi muovevo nel mondo ignaro dell'orrore che mi attendeva. Ieri non era morto, oggi sì. Ieri c'era, oggi no. Un attimo.
Ci sono cose che non capisco della morte: cose semplici, niente di trascendentale. Ad esempio non capisco come possa una bara contenere una persona. L'anno scorso al funerale di Cedric era questo che mi disturbava di più: guardavamo quella cassa e ci disperavamo pensando al contenuto e giuro, giuro che non riuscivo a capire come Cedric potesse starci là dentro. Per non parlare del momento in cui l'hanno sepolto. Costretto, rinchiuso... continuavo a pensare al termine "riposto". Ecco, come se morendo uno venisse messo via, riordinando in un certo senso il disordine che la sua presenza corporea significa nel mondo. Non credo di riuscire a spiegarmi... so solo che mi ha preso un attacco di claustrofobia al pensiero che qualcosa di così grande (una vita, con pensieri, sentimenti, affetti, un sistema complesso a cui erano legati altri sistemi altrettanto complessi) fosse contenuto in qualcosa di così piccolo.
Un'altra questione che trovo totalmente ingiustificabile è proprio quella dell'attimo. Davvero, penso che un fatto così atroce meriterebbe molto più tempo. Insomma, conosci una persona, inizi ad amarla, diventa parte di te, della tua routine, dei tuoi pensieri... la assimili, in un certo senso, no? Il processo è così lento e graduale che non te ne rendi nemmeno conto. Diventa un pezzo della tua esistenza, averla con te è scontato come è scontato avere un braccio. Ma ti viene sottratta in un attimo. Un secondo prima c'è, il secondo successivo no. E niente sarà mai, mai più lo stesso. Un secondo spazza via ore, giorni, mesi, anni. Non ha senso, garantisco, non ha senso.
Infine c'è il motivo per cui non riesco ad alzarmi dal letto. Al di là del fatto che in un istante mi è stato sottratto un pezzo di corpo e ancora non riesco a capacitarmene, intendo. Insomma, adesso potrei strisciare fuori dalle lenzuola, lavarmi il viso, vestirmi, scendere a fare colazione e... e niente, trovarmi a contatto con decine di persone ancora intere. Quel secondo ha mutilato me e pochi altri, lasciando intatto il resto del mondo. C'è gente che ride. C'è gente che non si dispera. C'è gente che non sa che Sirius Black è morto. Com’è possibile? Dovrebbero tutti urlare, dovrebbero essere tutti piegati a metà, senza fiato, ogni cellula del corpo che sembra voler fuggire in direzioni diverse, smembrandolo… Come fanno a camminare? Come fanno a pensare? Come fanno ad ascoltare quello che dicono, quando a me sembra tutto contemporaneamente assordante e ovattato, mentre mi sfinisce lo sforzo di riuscire a sentire nuovamente quella voce che non tornerà mai più?
Mi chiedo quanti prima di me si siano posti queste domande e quanti lo stiano facendo in questo esatto momento, ma non pensando a lui. Quanti in questo momento si sentano soli, come me. Quanti stiano pensando che ventiquattro ore fa a quest’ora andava tutto bene... o, almeno, non così male.
E’ l’attimo l’arco di tempo a cui la tragedia appartiene, il punto che divide la tua vita tra il prima e il dopo.
Nota dell’autrice: portate pazienza. E’ il mio primo scritto e non so cosa mi sia preso.