Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: amandasilbermond    03/01/2014    1 recensioni
Johan è scappato di casa. Non vuole più vivere con la sua famiglia, non vuole più vivere in casa sua.
Per le vie della città incontrerà un gatto, Comeunastella, e con lui riscoprirà l'amore vero.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
I’ve got a Nightmare to remember
I’ll never be the same
What began as laughter
So soon would turn in pain.



Le ultime note si persero tra i muri della mia camera.
La decisione di andar via era arrivata all’improvviso, in seguito all’ennesima lite scoppiata con mio padre, per una banalità facilmente trascurabile.
Gettai in valigia alla rinfusa qualsiasi cosa trovassi, compreso un maglione mai indossato, e varcai la soglia, con le urla di mio padre ancora dietro le spalle.
Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, non avrei dato peso a nessun altra delle sue parole.
Non più.
I miei piedi parvero conoscere a memoria la strada da percorrere, perciò continuai a muoversi quasi per inerzia.
Vagai per tutta la notte, incurante delle miglia che stavo interponendo tra me e la mia famiglia.
Mi limitai a camminare, mettendo un piede davanti all’altro senza sapere dove andare.
Dicembre sa essere freddo quando vuole, mi ritrovai a pensare, seguendo il fil rouge delle mie emozioni.
Il vento mi solleticava le dita dei piedi, intirizzendomi il naso già congelato.
Dove sarei andato, non lo sapevo.
Cosa avrei fatto, lo ignoravo.
Dove avrei potuto trovare rifugio, mi era ignoto.
Cosa avrei mangiato nei giorni a seguire,  era un dato ancora da puntualizzare.
Con la mia fida Zen sulle spalle, mi sedetti su una panchina a contemplare il cielo notturno, che tanto m’aveva affascinato da bambino e che non smetteva di catturare il mio sguardo.
L’universo è un mistero, disse qualcuno.
Il mistero fa figo, avevo aggiunto, quindi l’Universo è figo e siccome siamo tutti nell’Universo, siamo tutti fighi.
Al ricordo di quei momenti, un sorriso affiorò sulle mie labbra.
Quei giorni mi parvero improvvisamente lontanissimi, persi nel tempo e nella mia memoria.
Teorie assurde, le mie: le bollavano tutti così.
E forse lo ero davvero, assurdo.
O forse ero solo un mistero, così come il mio destino da quella notte.
Dovetti, con rammarico, ammettere la sconsideratezza della mia decisione, sconsiderata quanto affrettata.
La consapevolezza avrei dovuto pensarci meglio mi colpì come un pugno allo stomaco, che brontolava affamato.
Complimenti, Johan.
Ancora una volta avevo dimostrato di essere lo sconsiderato descritto dalla maggior parte delle persone che mi rivolgevano critiche.
Mi tornò alla mente il volto di Jeanette.
Si ama per “noia”, secondo alcuni, perché il tedio cerca nei sentimenti un riscatto, un metodo per combattere se stesso, un antidoto per salvarsi, poiché preferisce gettarsi tra le braccia di qualcuno piuttosto che sopravvivere a se stesso.
Capisci di amare una persona quando la perdi o piuttosto quando perdi la paura di amare per la prima volta, amare di nuovo, amare con dolcezza, con rabbia, con gelosia?
Comprendi di esserlo quando i suoi baci ti sono negati o piuttosto quando tremi al solo pensiero di rubargliene uno?
Diventa improvvisamente chiaro che ami quando trovi la tua Jeanette, quando hai il coraggio di accogliere nella tua vita il ciclone di emozioni che ella provoca in te, quando ti scordi di te perché il tuo cuore improvvisamente è lei.
Zen, appoggiata accanto a me sulla panchina, sembrava volermi riportare alla memoria i lunghi pomeriggi che avevo trascorso componendo rapsodie.
Ti si tatua addosso, l’amore, raggiungendo luoghi a te invisibili e continui a sentirlo, come in una sorta di sindrome dell’arto fantasma.
Ti resta appiccicato, come il francobollo di una lettera dimenticata in un cassetto, tra le scartoffie, ma le cui parole sono ancora vive in te.
A quei tempi era il mio piacere quotidiano, modesto, senza pretese di alcun genere.
Poi qualcosa cambiò e con quel qualcosa cambiai anch’io.
Misi da parte le mie rapsodie, le note che avevo usato, i miei sogni; accantonai l’idea che avevo di lei.
Ed ora eccomi: solo, in un parco.
Il rumore metallico delle catene delle altalene che ondeggiavano sospinte dal vento mi riportò alla realtà.
Ancora una volta mi ero perso nei miei pensieri.
Non ci posso credere, mi ritrovai ad affermare mentalmente, prendendo nota dell’ennesimo trip a cui avevo sottoposto i miei neuroni.
I miei fratelli se la sarebbero cavata benissimo e di certo non avrebbero perso tempo con inutili pensiri.
Loro sì che se la sarebbero cavata.
Loro non sarebbero scappati di casa in quel modo.
Loro avrebbero trovato vie diplomatiche per risolvere la situazione.
Furono per anni il mio incubo, loro. E allo stesso tempo la mia ancora di salvezza.
Dopo una vita trascorsa accanto a loro o, piuttosto, al riparo della loro ombra, ero da solo a combattere contro la notte e contro i demoni del mio passato.
E’ strano come la notte porti consiglio.
E’ assurdo come di notte si abbia il coraggio di dirsi la verità, di accendere la luce sul proprio buio, quando nessuno può vederla.
Avevo vissuto nel grigio per molto tempo, nel mezzo: tra bianco e nero, tra arte e musica, tra vita e morte.
In una situazione di limbo, d'instabilità eterna.
Attorno a me, tra le luminarie natalizie intermittenti, mi facevano compagnia miliardi di stelle all’apparenza indifferenti.
Mi guardano, so che mi guardano.
Con il conforto di quella considerazione, mi feci coraggio e mi preparai ad affrontare la notte più gelida della mia esistenza.
Io, perennemente infreddolito, passo una notte al freddo…un eufemismo del destino. Un eufemismo bello e buono!
Tremai e lasciai che un sospiro fuoriuscisse dalle mie labbra congelate dalla temperatura.
Stavo ancora ragionando, quando un rumore attrasse la mia attenzione.
Non seppi bene cosa mi spinse a voltarmi, ma quando nella mia visuale entrò il corpo esile di un gatto, capii improvvisamente che la fuga era stata la scelta giusta.
Quel gatto.
Ero uscito di casa per incontrare quel gatto
, realizzai con un brivido.
Mi alzai con lentezza, nel tentativo di avvicinarmi a lui il più possibile senza spaventarlo, ma uno dei miei movimenti lo irritò visibilmente, poiché immediatamente si rizzò e corse via.
Altro non potei fare che ricorrerlo, senza sapere neppure il motivo della mia folle corsa al suo seguito.

Successe tutto così in fretta. Ed in effetti non saprei indicare con certezza le coordinate temporali della mia avventura.
Lo chiamai Comeunastella, in onore di tutti gli astri che quella notte mi fecero compagnia nel mio lungo viaggio verso quella che sarebbe diventata la mia nuova casa: la strada.
Casa è dov’è il cuore, recita un vecchio proverbio.
Se pioverà comprerò un ombrello per proteggermi, se nevicherà una coperta per riscaldarmi.
Il mio animale da compagnia divenne quel gatto randagio dal pelo scuro, insolitamente attratto da un umano quale ero io.

Facemmo amicizia in modo singolare, rincorrendoci tra i vicoli come due cuccioli.
Prima che il Sole fosse sorto, lui mi scelse.
                                                                             Fu così che cominciò.


Non fu semplice per me abituarmi ai ritmi della strada, ma in breve mi adattai alla vita urbana.
Trovai il metodo più efficace per cibarmi, iniziando con il comprare alimenti da discount con i pochi soldi che avevo risparmiato negli anni e portato con me nella mia fuga.
La sera, in quelle strade, la tristezza arrivava senza neanche bussare all’uscio del mio cuore: pretendeva di entrare, a volte forzava la porta.
Imparai l’altruismo tipico degli abitanti del tessuto urbano, dividendo le mie cibarie con il mio piccolo amico peloso.
Iniziai a dormire per strada, trovando rifugio nelle stazioni o sulle panchine come qualsiasi barbone degno di questo nome, prendendo il posto di coloro che per anni avevo guardato con curioso sospetto.
Ogni notte, accoccolato su una panchina o una gradinata, condividevo il mio calore corporeo con Comeunastella, che era solito acciambellarsi tra le mie gambe accavallate.
Avevo a malapena diciotto anni ed ero il proprietario di un gatto randagio precedentemente privo di padrone, vivevo per strada alla mercé delle intemperie.
Ma, a differenza della maggior parte dei ragazzi della mia età, lasciavo che il sonno m’avvolgesse già alle dieci, riverso su una panchina con il ronfare del mio micio a farmi compagnia.
Attorno a me, i rumori della città si spegnevano a poco a poco fino a sparire del tutto.
Gli sguardi delle persone attorno a me non mi ferirono mai particolarmente: tante erano le persone che mi fissavano con sdegno anche prima della mia fuga.
Attirare sguardi benevoli non era mai stata una mia prerogativa, probabilmente a causa dei miei capelli un tempo lungo o per il mio mancato senso d’omologazione.
Che la società dettasse stili e modi d’essere, mi era chiaro, così come la necessità di seguirli.
Non ero mai stato propriamente il prototipo del ragazzo ben voluto dalla società, dovetti ammettere.
“Che stai facendo?” domandò una voce femminile, dal tono velatamente irritante.
“Dormo” le risposi, senza neanche aprire gli occhi.
“No, non è vero. Sei sveglio” constatò lei, visibilmente contrariata dalla mia bugia.
“Dormivo” mugugnai nuovamente, accarezzando Comeunastella con il dorso della mano.
“Sulla panchina?” mi domandò, sicuramente accigliandosi a giudicare dal tono usato.
Mi issai a sedere improvvisamente, provando la caduta accidentale del mio gatto domestico che atterrò sull’asfalto con un rantolo.
“Cosa vuoi?” chiesi, guardandola per la prima volta.
Nel buio della sera, con la luce del lampione a coronarle il capo, il viso di quella ragazza così petulante mi suscitò un moto di antipatia quasi immediato.
“Mi chiamo Amanda”
“Chi te lo ha chiesto?” le domandai, dimostrando un astio a me non usuale.
Mai mi ero comportato così con qualcuno, men che meno con una ragazza, pensai, senza riuscire tuttavia a trovare un metodo per porre fine alle mie risposte al vetriolo.
Cercai Comeunastella, per sfuggire alla petulante presenza della ragazzina di fronte a me, e lo ritrovai in un angolino a pulirsi il pelo.
“Mi chiamo Amanda” ripeté ancora una volta.
“Johan” le dissi, alla fine, cercando di rivolgerle il sorriso più genuino che fossi in grado di fare.
“Posso rimanere con te?” domandò sedendosi sulla panchina sulla quale stavo dormendo, quasi dando per scontato la mia risposta.
Ero scappato di casa per vivere in solitudine ed eccomi insieme ad una ragazzina sconosciuta, di cui sapevo solo il nome, intenta ad accarezzare un’amabile Comeunstella, acciambellatosi sulle sue ginocchia.
Qualcosa mi trattenne dal far presente il mio desiderio di solitudine: accettai la sua permanenza sulla quella che ormai, per abitudine, identificavo come la mia panchina.
“Questo parco è tuo?” mi domandò all’improvviso, con i suoi occhi verdi spalancati dalla curiosità.
“Sì” risposi, gonfiando il petto, sperando con tutte le mie forze di non apparire ridicolo “Questo posto è tutto mio. ”
Amanda sorrise della mia pantomima, vedendomi imitare Napoleone, e lo stesso feci io spinto dalla sua risata cristallina.
“Però questo gatto è mio davvero. Si chiama Comeunastella” le spiegai, sedendomi accanto a lei ed accarezzando il soggetto della frase, come a testimoniare la veridicità delle mie parole.
“Piacere, piccolo Comeunastella” si presentò lei, quasi fosse umano.
Il felino, da buon traditore, si lasciò accarezzare amorevolmente il dorso da quella ragazza a me sconosciuta.
“Quante ragazze si sono già sedute su questa panchina, prima di me, bel Casanova?” mi canzonò, fingendo un serio interesse.
“Dozzine, probabilmente” risposi, vantandomi di conquiste inesistenti “Centinaia… Migliaia, milioni...Non ricordo cosa viene dopo i milioni, ma sicuramente anche quelli”  
Finse di credermi e non mi domandò più nulla al riguardo, troppo impegnata a ridere sotto i baffi della mia bugia.
“Cosa ti porta sulla mia panchina?” le domandai, ragionando sulla stranezza di quella situazione.
Amanda decise di ignorare la mia domanda e mi si lanciò contro, abbracciandomi più forte che potè.
Probabilmente fu lo shock, pensai, ad anestetizzarmi: non reagì.
Lasciai che mi abbracciasse, lei e quel suo odore di patchouli.
Sussultai, colto alla sprovvista. 
“Che stai facendo?” balbettai, incredulo, a quella sconosciuta che mi stava abbracciando. 
“Ti stringo.”
“Perché?”
“Ti stringo” sentenziò lei, aumentando lo stretta “Così spremo via il dolore.”
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: amandasilbermond