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Autore: Loveless    25/05/2008    2 recensioni
[Immortal ad vitam]
Perdonare ciò che non si ricorda è ben più facile che odiare per ciò che hai cancellato dalla memoria.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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LACRYMOSA

- Bene, direi che ora possiamo passare al prossimo test.

Jill alzò lo sguardo con un nervoso movimento del collo, mentre si risistemava con due dita la manica della maglietta lungo l’avambraccio. Anche se nascosto dalla stoffa, il livido violaceo causatole dalla siringa del test sanguigno continuava a pulsarle dolorosamente sulla pelle. Jill si visualizzò una serie di minuscoli microaghi che le trafiggevano con precisione meticolosa lo stesso punto dolorante.

- Ho già fatto i miei test giornalieri, dottoressa.

La dottoressa Turner ridacchiò a bassa voce. La sua sarebbe stata una risata gradevole se una scarica di statico non ne avesse deformato il suono, riducendolo ad una sorta di gracchiare metallico. L’immagine ebbe un guizzo color arcobaleno, e per un attimo il sorriso della donna si deformò in modo quasi grottesco. Passò qualche secondo prima che l’immagine sullo schermo al plasma si stabilizzasse nuovamente, anche se i pixel apparivano deformati in più porzioni.

- Accidenti, - sibilò seccata la dottoressa, tirando una ciocca dei suoi artificiali capelli neri per esprimere il suo disappunto, - Non ne posso più di questa faccenda. Tolgono fondi alla divisione Medicina Sperimentale per finanziare quella dell’Eugenetics, e la tecnologia che siamo costretti ad usare è quella che quei bastardi buttano via. Sono di manica dannatamente stretta. Ma non perdiamo tempo con queste cose, non ci interessano. Il prossimo esame è un po’ diverso da quelli a cui ti sottoponi di solito… Chiamalo un’extra, va bene? La stanza è la prima del corridoio a destra. Ti aspetto là.

Con un ultimo fruscio elettrostatico, l’immagine della dottoressa Turner si spense. Jill rimase a guardare con occhi disincantati il paesaggio paradisiaco, - una pubblicità? - che aveva riempito lo schermo: acqua trasparente, vegetazione ricca, un’isola. Il mare era così trasparente che si potevano quasi contare i granelli di sabbia sul fondale, così come le foglie delle palme erano così verdi da sembrare sintetiche.

Guardò fuori dalla stanza. Un taxi passò sferragliando davanti alle finestre, che tremarono per la vicinanza a cui era passato. La torre grigio ferro dell’Eugenetics si ergeva sopra tutti gli altri edifici color rame sporco di New York. Una piramide egizia fluttuava sopra i tetti della città, indisturbata. Era comparsa all’improvviso qualche giorno prima e nessuno era ancora riuscito a contattarne gli abitanti.

Questo è il duemilanovantacinque, pensò Jill, toccando lo schermo al plasma con la punta di un’unghia, chissà se mai sono esistiti posti come questo… Ma probabilmente è tutto un’ennesima illusione ottica creata dall’alta tecnologia.

Prese in mano il suo impermeabile ed uscì. La dottoressa aveva detto la prima porta del corridoio a destra: quella era una sezione dedicata unicamente alle analisi degli esseri umani, non delle cavie da laboratorio mutanti. Perché le aveva chiesto di andare lì?

La stanza aveva le pareti bianche ed asettiche di una camera d’ospedale, completamente priva di finestre o schermi. La dottoressa Turner l’aveva realmente aspettata, stavolta in carne ed ossa, e sorrideva divertita di fronte al suo stupore.

- Dove sono i macchinari? – domandò Jill, puntando lo sguardo a casaccio, sul pavimento e sulle pareti, tentando di scovarne qualcuno.

- Nessun macchinario, - replicò tranquilla la donna, - Te l’ho detto che era un esame extra… Oh, ecco che arriva la nostra attrezzatura. Paul, fammi un favore, sii delicato con quella roba… Quelli del quinto piano hanno fatto un sacco di storie per prestarmi tutto.

- Quinto piano? – chiese Jill, fissando interessata l’ometto calvo in camice bianco appena entrato nella stanza. L’ometto scosse la testa ed appoggiò sul pavimento quella che sembrava una grossa scatola da scarpe in legno, prima di asciugarsi la fronte.

- No, io sono del sottolivello uno, - corresse, come se la domanda fosse rivolta a lui, - Sono in prestito al quinto per ragioni burocratiche.

- Gioia, non abbiamo tempo, - tagliò corto la dottoressa Turner con un sorriso tirato, - Fai quello che devi fare e poi vai, per l’amor del cielo.

- Scusa Elma… Dimenticavo che quando lavori sei intrattabile.

L’ometto si rimise al lavoro con la sua scatola, mentre la donna prendeva Jill sotto il braccio, con fare confidenziale, e le faceva fare un giro della stanza.

- Vedi Jill, - disse, - Ti ho già detto che tu sei la cavia da laboratorio più straordinaria che io abbia mai visto non appena ci siamo conosciute… Riesci a ricordare?

- Sì. Mi ha trovato alla selezione per le cavie alla Eugenetics.

- Bene, quelle strane pillole rosse che prendi non hanno cancellato questo ricordo… Sì, sei straordinaria per via dei tuoi organi, che hanno la stessa struttura di chi è nato tre mesi fa, e per il processo metabolico che il tuo corpo sta attraversando. Ma anche la tua psicologia è interessantissima, per una creatura mutante. Prendi quelle pillole che ti procuri chissà dove per bloccare i tuoi ricordi, giusto? Ma tu non ricordi cosa vuoi dimenticare, o non vuoi dirmelo. Per questo sarei contenta di vederti alle prese con quella che gli umani chiamano vena artistica… “Che cos'è l'arte se non un modo di vedere?” chiedeva uno scrittore di cui non ricordo mai il nome… Ed io desidero vedere il mondo come lo vedi tu.

- Dottoressa, per quello può prelevarmi un campione di cornea.

La Turner rise come ad una battuta, e le diede bonariamente qualche buffetto sul braccio.

- Su, Jill, non ho mai chiesto a nessuno dei miei pazienti di fare una cosa del genere… Mi serviva una persona speciale, e ho trovato te. So che non mi deluderai.

L’ometto se n’era andato, quando smisero di girare per la stanza. Al suo posto, faceva bella mostra di sé una strana impalcatura di legno con sopra fissata una tela di morbida stoffa bianca.

- Quello è un cavalletto, - spiegò la dottoressa, - Risale al secolo scorso, quindi trattamelo bene. Ah, lì ci sono le tempere, servono per dipingere… Sai di cosa parlo per dipingere, vero?

Sì, Jill lo sapeva. Era stata in un museo che raccoglieva opere del novecento solo qualche giorno prima, ed era rimasta affascinata per come gli autori riuscissero ad esprimere i loro sentimenti con semplici pennellate. Il rosso, tracciato con la furia di un graffio sulla tela? Quello vuol dire rabbia. L’azzurro, il colore di un cielo che New York osservava solo immerso nelle tonalità cupe e spente del fumo? Quello vuol dire che sono sereno, che va tutto bene, ma è così triste che il cielo non sia più di quel colore, Jill… E poi c’è il blu. Oh, è quello il tuo colore, Jill! Si usa il blu quando si è tristi, per questo le tue lacrime sono blu…

La dottoressa Turner fece un cenno soddisfatto quando la vide annuire.

- Molto bene, ci siamo capite. Puoi rappresentare tutto quello che vuoi, Jill. Non hai limiti di tempo. Io esco, così puoi concentrarti meglio…

La donna probabilmente disse qualcosa d’altro, ma Jill non lo sentì. Il sangue prese a ronzarle prepotentemente nelle orecchie, facendole dimenticare anche il dolore al braccio, quando prese in mano il primo tubetto di colore. Blu.

Svitò il tappo e lo annusò. Dopo qualche secondo decise che l’odore le piaceva, perciò spremette un poco il tubetto per lasciarsi qualche traccia di tempera sul polpastrello. Quando provò a assaggiarlo scoprì che no, il sapore era orribile. Peccato.

Jill premette con forza l’indice umido di colore sulla tela, e quando lo tolse scoprì che aveva lasciato una piccola striscia grumosa di un bel colore turchino. Si accorse del pennello e di quelle sue morbide setole di pelo solo in seguito, quando abbassò lo sguardo sulla valigetta dei colori per cercare un altro tubetto.

Allora, ricordandosi di un autoritratto di pittore che aveva visto al museo, collocò una sedia davanti alla tela e ci si sedette sopra, sforzandosi di ricordare l’esatta postura del braccio dell’artista e delle grazia con cui lui reggeva il pennello.

Scoprì che dipingere le piaceva. Fuori da una finestra lontana, New York ammuffiva dietro pareti d’acciaio e croste arrugginite: davanti a lei, i colori splendevano vividi.

Cambiò tela tre volte, prima di decidersi a lavorare seriamente. Non lo faccio per la Turner, si disse Jill, - non la considerava, in fondo, solo una speciale e strana cavia da analizzare? – ma lo faccio per me. Voglio vedere. Voglio veder vivere quel giardino alla televisione e prendere tra le mani la sabbia del mare.

Eppure, mentre la sua mano si muoveva con sicurezza sulla tela, tracciando e correggendo, abbozzando e riempiendo, scoprì che non era un giardino ciò che stava creando.

Era un uomo. La figura non si distingueva bene, perché una luce calda lo investiva da dietro, lasciando i lineamenti nell’ombra, eppure uno spicchio di colore rosso della maglietta riusciva a mostrarsi agli occhi dello spettatore. Al posto dei riflessi colorati di un locale notturno, la fantasia di Jill lo aveva collocato in un immaginario cubo di vetro. Anche se non c’era traccia di blu, in quel quadro, la postura stessa dell’uomo, - sguardo verso il basso, spalle curve, - esprimeva un senso di tristezza ed impotenza.

Jill sentì che era terribilmente sbagliato nel momento stesso in cui diede la pennellata finale.

- No! – esclamò, allontanandosi di colpo dal suo esperimento. Si prese la testa tra le mani, schiacciandosi con violenza le ciocche di capelli blu fra le dita.

- No! – ripeté - Non era quell’uomo che volevo dipingere!

Come aveva fatto a non capirlo? Anche se ringiovanito, prigioniero della solitudine che attanagliava la stessa Jill, anche se in ombra, dove i suoi lineamenti marcati ed induriti non si vedevano… Era lui, l’uomo del bar! Sapeva che era lui!

Ah, bastardo! Non solo l’aveva violentata, dopo essere entrato con lei nella sua stanza, - Jill non lo ricordava, ma sapeva che era stato così, - ma si era infiltrato di prepotenza anche nei suoi pensieri! Ah, maledetto umano! Come l’aveva odiato!

Eppure quell’uomo sembrava così diverso, la mattina dopo, quando Jill l’aveva sorpreso nel suo letto… Dopo quella notte non c’era più quel bisogno selvaggio che aveva animato lui ed aveva immobilizzato lei, troppo debole di fronte a quella forza, era rimasto solo un essere umano qualsiasi, - ma quanti anni aveva? – quasi dispiaciuto di quello che era accaduto, come se la cosa non fosse dipesa da lui ma da qualcosa di più grande e potente.

E lei che non ricordava niente… Solo quando l’uomo le aveva sorriso, accennando ad un saluto con la mano, e le aveva detto “ben svegliata, Jill”, lei aveva sentito una sorta di disagio profondo, senza ricordarne bene il motivo. Ovviamente, quando lui le aveva fatto presente la notte appena trascorsa, Jill aveva come prima cosa impugnato la pistola. Sarebbe stato meglio per tutti e due che lei gli avesse sparato davvero, invece di minacciarlo soltanto… Eppure non l’aveva fatto, si era girata ed era andata dalla Turner per fare i suoi esami giornalieri.

Jill si accorse di stare piangendo solo quando vide le mani striate dal blu delle sue lacrime. Scosse la testa, disgustata da se stessa e dall’uomo che era ancora nella sua camera, - vivo! -, e scrollò le mani in aria, come per purificarle.

Alzò gli occhi, dopo che si fu asciugata il viso con la stoffa plastificata dell’impermeabile. Alcune gocce di blu erano finite sulla tempera ancora fresca, chiazzandola in più parti. Una era finita sul volto dell’uomo e stava colando giù dall’abbozzata guancia di lui, giù dai suoi solo immaginati occhi.

Ora anche lui sembrava davvero triste.

Per me non ha importanza chi sia. Non mi importa di come si chiami.

Lo dimenticherò con una pillola di John. Mi basterà inghiottire quel piccolo punto rosso o giallo e tutto sarà nebuloso, dalla nebbia vorticante che mi occuperà la testa verrà l’oblio. Non ricorderò nulla.

Farò così. Tornerò a casa e vedrò il mio letto ancora occupato. Andrò in bagno e prenderò la pistola, ne sentirò il freddo metallo sotto i polpastrelli, le mie dita sposteranno la sicura con uno scatto automatico ed io sarò pronta.

Appoggerò la fronte contro lo specchio, il gelo di quel contatto mi entrerà nelle ossa, e lascerò che le mie lacrime tornino a scorrere per un’ultima volta.

Aspetterò che i miei occhi siano asciutti e tornerò nella mia camera con le guance ancora striate di blu.

Imbraccerò con entrambe le mani la pistola. So usarla, e so usarla bene. Non sbaglierò il colpo.

Lo ucciderò, quell’uomo, un solo proiettile. Gli bacerò la fronte, gli scosterò dalle tempie i capelli e gli appoggerò la bocca dell’arma contro la sua calda pelle umana.

Premerò il grilletto. Il suo corpo darà un sussulto, quando il cervello macchierà il bianco del cuscino, e se sarà fortunato morirà subito. Altrimenti girerà i suoi occhi spaventati verso di me, le sue labbra riarse sillaberanno il mio nome, forse anche lui spenderà qualche lacrima vedendomi così triste.

Morirà, comunque. Vedrò il colore grigio cielo spegnersi lentamente nei suoi occhi, la vita fuggirà via tra i denti, come dice uno di quei vecchissimi poemi che la mia memoria ha conservato senza motivo, gli terrò la mano e sentirò il suo palmo diventare freddo, sempre di più, con la lentezza di una fiamma che consuma l’ultimo tratto di stoppino. E’ un’immagine così poetica... Morire lentamente, come si spegne una stella o una candela senza più nulla da bruciare.

Mi sbarazzerò del cadavere senza problemi. Lo getterò dalla finestra e nessuno si accorgerà di nulla. Molti cadaveri si trovano a bordo delle strade e nessuno se ne cura, né mutanti né umani. La mia forza è maggiore di quella di una donna normale, non avrò problemi a sollevare il corpo e a spingerlo fuori.

Correrò in bagno. Piangerò molto, le mie lacrime blu bagneranno il metallo rovente della pistola ancora fumante. Laverò le mie mani rosse del suo sangue con un getto d’acqua gelida, vedrò quel colore cremisi sfilacciarsi nella porcellana del lavandino, lo osserverò cambiare colore e diventare arancione, di un giallo sporco, diverrà bianco ed infine l’acqua lo trascinerà con sé nel suo risucchio.

Appoggerò la pistola sul bordo della basca ed aprirò l’armadietto dei medicinali con le mani ancora umide. Le mie dita tremeranno, quando prenderò il flacone, ma la mia presa si salderà come una morsa attorno alla plastica del flacone.

Prenderò una pillola fra due dita: la rigirerò, osservandone il colore alla luce del neon, premerò il palmo sulla mia bocca per costringermi ad inghiottirla.

Sentirò quel piccolo nodo all’altezza della gola e deglutirò più forte. Lo sentirò scendere nel mio stomaco e poi sarà tutto finito.

Finito. Come quel quadro, quel disegno fatto di vivi colori che ora è ridotto ad una tela lacerata. Ho preso la spatola, l’ho colpito con tutta la mia forza, e del mio lavoro non è rimasto nulla.

Finito. Fine, black out.

Facile. Come quando si spegne un televisore.

- Sei ancora qui, umano?

La sua mano corse ad una tasca dell’impermeabile ed afferrò la capsula di plastica contenente le pillole di John. Se ne versò alcune sul palmo, - uno, due, tre pillole gialle, - e se le infilò in bocca con un tremito.

Le inghiottì subito.

Jill spinse leggermente la porta della sua stanza d’albergo, sporgendo la testa verso l’interno…

Il silenzio, il benedetto silenzio, regnava nella stanza. Se ne sentì sollevata.

Era così sollevata che lasciò la giacca sulle lenzuola ancora sfatte, - le butterò via più tardi, si ripromise Jill mentalmente, - e corse ad aprire la porta del bagno. Aveva bisogno di lavarsi il viso e di farsi un bel bagno tonificante, poi avrebbe dormito fino all’indomani. Quando si sarebbe svegliata, la mattina dopo, le pillole avrebbero già agito sul suo organismo e le avrebbero cancellato quei ricordi orribili.

Gli anfibi scivolarono sul pavimento di piastrelle con uno schiocco e la mutante fu costretta ad aggrapparsi allo stipite della porta con entrambe le mani per non cadere.

Le mattonelle erano bagnate. Jill si abbassò cautamente per guardare meglio. Erano impronte di piedi umani. Anche i bordi di ceramica della vasca erano umidi, lo sentì passandoci sopra il dito.

Jill si portò le mani alla gola con un rantolo. Le pillole. Si sentiva il palato secco.

Quando avrebbero fatto effetto? Lei si sarebbe trovata con uno sconosciuto in camera senza avere la possibilità di ricordare del perché lo odiasse così tanto?

Clac! La porta della stanza si aprì di nuovo. Sentì qualcuno sbuffare ed avanzare nella stanza.

Jill spalancò l’armadietto a muro mentre un tremito le scuoteva le braccia. La pistola era ancora lì.

- Jill, sei tu?

Qualcosa, nella sua testa, esplose. Il fatto che quel bastardo la chiamasse per nome ruppe definitivamente ogni suo dubbio.

- Facile. Come quando si spegne un televisore, - mormorò lei, togliendo la sicura all’arma. Le mani non le tremavano più.

- Jill?

I passi si erano fermati. L’uomo doveva trovarsi in mezzo alla stanza, ma non riusciva a vederla. Jill aveva chiuso la porta del bagno con un calcio, quando si era allungata per prendere la pistola. L’arma era così fredda che le pareva scottare in mano.

- Sono qui, - esclamò lei, aprendo la porta di scatto.

Non ebbe neanche bisogno di mirare.

***

Si premette con forza una mano sulle labbra. Aveva ancora il gusto acidulo della bile a sfregarle contro il palato ed il suo stomaco continuava ad essere attraversato da conati violenti.

Aprì la bocca sul lavandino, ma quello che uscì fu solo una bava di saliva amara. Non c’era più niente che lei potesse rigettare. Girò la manopola del rubinetto e bevve avidamente l’acqua fredda, per poi pulirsi le labbra umide sulla manica.

La pistola era ancora sul pavimento, dove l’aveva lasciata cadere quando l’arma aveva smesso di saltarle in mano. Gli anfibi avevano tracciato una serie di orme insanguinate sulle piastrelle bianche.

Anche la manica dell’impermeabile, chissà come, si era macchiata. Quando si era pulita, il sangue le aveva lasciato una striscia rossa e vischiosa lungo la guancia.

Jill si passò la mano ancora umida d’acqua sul viso per lavarsi. La striscia scarlatta le rimase impressa sulla pelle come un sigillo. La mutante si passò ancora il dorso sulla faccia, sfregandolo più volte sulla guancia, eppure il sangue non veniva via.

- Merda, merda, merda! – gridò Jill quasi istericamente, cercando di resistere alla tentazione di affondare le unghie nella carne per strapparsi la pelle dal cranio. Dio, non voleva avere quella cosa in faccia! Non quel sangue, no!

Il flacone di plastica si ruppe per la violenza con cui lei lo afferrò. Senza nemmeno contarle, Jill si infilò in bocca le pillole che si trovò in mano.

Per un attimo sentì nella testa il ronzio insistente di una televisione senza volume.

Prima di raggiungere il pavimento era già svenuta.

***

- Buona serata, signorina, - gracchia il buttafuori quando la vede uscire dal ripostiglio.

Jill non risponde. Affonda le mani nella tasca dell’impermeabile e tocca il flacone di pillole che le ha dato John, giusto per sicurezza.

E’ ancora lì, per fortuna. Jill sospira di sollievo.

John le ha appena detto a che cosa servono quelle pillole. Hanno la funzione di bloccare i ricordi del passato sopiti nella sua mente e di cancellare il presente, se serve. Jill sente ancora la mano inguantata del suo mentore infilare una pillola rossa fra le labbra, e sente ancora la sua voce nelle orecchie.

Vuole bene a John. Lo conosce da quando ha memoria… Cioè, dalla memoria che ha conservato.

Si fida di lui, perché John la considera come sua figlia e lei lo considera suo padre e guida. Questo anche se i mutanti non hanno genitori, solo creatori.

Ma non è il momento di pensare a John: sa che se continua a pensare a lui vorrà rivederlo subito, ma lui le ha detto che passeranno giorni prima del loro prossimo incontro.

Perciò porta pazienza, Jill, e trova qualcosa da fare per distrarti. Per esempio, puoi continuare a fare da cavia a quella strana dottoressa che sembra essersi affezionata a te…

Così le ha detto John. E lei lo ascolterà, come sempre.

Le luci del bar pulsano come la musica che esce dalle casse. Sulla pista ci sono mutanti ed umani, anche se sono questi ultimi i più presi dal ritmo ed i più scatenati.

Jill sorride, anche se stavolta non è per merito di John. Le piace osservare gli umani, ma non li invidia.

Se le chiedessero quale sia la più grande paura, Jill risponderebbe che è quella di diventare come loro. Sono troppo deboli ed emotivi.

Però le piace ballare con gli esseri umani. Hanno dei buoni odori. Perciò lascia cadere l’impermeabile su una sedia vicina al bancone, - il flacone di pillole riposa nella tasca dei jeans, - e scivola tra i corpi caldi dei ballerini, cercando uno spazio per sé nella folla danzante.

Chiude gli occhi. Le luci che lampeggiano le feriscono gli occhi, non vuole che la distraggano. Ascolta il ritmo ed il suo corpo balla da solo. La mente è altrove.

Qualche giovane umano la trova avvenente, la trova brava, perciò le si avvicina esitante. Gli altri mutanti non osano: sanno quando una loro simile è pericolosa, lo sentono a pelle.

Jill si porta le mani alle tempie, seguendo la musica, e sorride al ragazzo che la osserva estasiato. La guarda a pezzi: capelli, occhi, labbra, una donna tutta blu che al suo sguardo deve assomigliare più ad una dea che ad una mutante.

Lei smette presto di ballare. Lascia la pista veloce come quando è arrivata, e la sua uscita è seguita da una serie di occhiate maliziose o dispiaciute.

Quando si rimette l’impermeabile nero, i ballerini sulla pista l’hanno già dimenticata. E’ tornata ad essere un’anonima mutante, nell’aria fumosa ed acida di birra del locale.

Ordina un cocktail ed il barista si mette a mescere con precisione i liquori del drink. Lei si siede ed aspetta che il rituale della bevanda sia finito.

- Balli proprio bene, sai? Ed è raro vedere una persona danzare quando è completamente sobria… A meno che non sia pazza.

Jill si gira verso il proprietario della mano che le si è posata, possessiva, sulla sua spalla. Si aspettava di vedere il giovane della pista, invece ad avvicinarla è stato un uomo, un adulto e non un ragazzino imberbe.

Le luci colorate del locale le impediscono di vedere bene il suo viso. Comunque sembra un bel volto, anche se segnato da qualche ruga sulla fronte. Gli occhi sono azzurri grigi, il sorriso cordiale.

- Me lo dicono in tanti, - ribatte Jill, rivolgendo la sua attenzione al cocktail appena arrivatole. La conversazione è già finita, per lei, ma pare che per lui non sia la stessa cosa.

- Non dovresti bere quella roba. E’ molto alcolica.

- Il liquore non ha effetto su di me, umano.

- Non lo sapevo. In questo caso, ti chiedo scusa per essermi impicciato.

- Visto che ci sei, potresti chiedermi scusa anche per avermi infastidito ed andartene.

Lui ridacchia. Forse si sta chiedendo se quell’aggressività è genuina oppure se è una tattica seduttiva… Non che la cosa le importi, sia chiaro.

- Sei qui da sola?

- So difendermi, quindi risparmiati la battuta “le ragazze non dovrebbero venire in un locale come questo da sole”

- Tu sei una mutante, non una ragazza.

- Appunto. Guardati in giro, umano. Non vedi in giro qualche “ragazza” che possa accettare di buon grado le tue avance?

- Ne vedo, ma non sono graziose come te.

Jill sente di averne abbastanza. Trangugia il suo cocktail con un sorso e scende dallo sgabello. L’uomo rimane a fissarla divorandosela con gli occhi.

- Hai bisogno di qualcuno che ti accompagni a casa?

Lei sta per rispondergli per le rime quando qualcosa, nella sua voce di lui, la costringe ad alzare lo sguardo.

Il sorriso che gli piega le labbra ha una piccola ruga in più, all’angolo della bocca, che lo rende assolutamente agghiacciante… E, come scopre Jill incredula, non privo di un certo fascino. Anche la voce ha assunto una tonalità quasi metallica, come se due persone stesse parlando sovrapponendosi l’un l’altro.

- Hai bisogno di qualcuno che ti accompagni a casa? – ripete lui. Voce metallica e ruga ad angolo della bocca.

Stupefatta di se stessa, Jill sente la sua testa abbassarsi da sola in un cenno d’assenso.

***

…Finito. Come quel quadro, quel disegno fatto di vivi colori che ora è ridotto ad una tela lacerata. Ho preso la spatola, l’ho colpito con tutta la mia forza, e del mio lavoro non è rimasto nulla.

…Vorrei dire così. Invece no, l’ho lasciato dov’era, intatto. La dottoressa sarà contenta di vedere cosa ho fatto… O forse no. Comincerà a chiedermi chi è quest’uomo, dove l’ho visto o perché mi ha colpito così tanto.

Ma per me, ormai, la faccenda è finita.

Finita. Fine, black out.

Facile. Come quando si spegne un televisore.

- Sei ancora qui, umano?

La sua mano corse ad una tasca dell’impermeabile ed afferrò la capsula di plastica contenente le pillole di John. Se ne versò alcune sul palmo, - uno, due, tre pillole gialle, - e se le infilò in bocca con un tremito.

Le inghiottì subito.

Jill spinse leggermente la porta della sua stanza d’albergo, sporgendo la testa verso l’interno…

Una leggera musica, un programma tenuto a basso volume, si spandeva dolcemente per la stanza, come del miele lasciato scivolare lungo una superficie liscia.

Un uomo cantava. La voce registrata risultava stranamente calda, anche se si sentiva che il suono era molto datato. Doveva essere una di quei video del secolo scorso… Programmi che risultavano abusivi, secondo il governo.

Comunque, quella musica era bella. A Jill faceva venire in mente della pastella morbida che un dito allargava lentamente, tastandola e spostandola con delicatezza, come per fare una torta. Oh, una rugosa mano di donna che preparava la pasta… Un ricordo molto umano. Si chiese da dove le fosse venuto quel pensiero.

Sexual healing is something that's good for me , whenever blue tear drops are falling, and my emotional stability is leaving me, there is something I can do… - intonava il cantante, con la sua voce calda e dolce da blues.

Però qualcosa disturbava la musica: un ticchettio costante, quasi fastidioso. Non era un orologio.

Jill spalancò la porta e la richiuse. L’uomo del bar c’era ancora. Si era seduto al tavolo sotto la finestra – chi gli aveva dato il permesso di farlo? – e batteva con energia sopra una macchina simile alla scatola nera di un aereo. Un foglio di carta bianca si spostava veloce da una parte all’altra, sotto l’attento sguardo grigioazzurro dell’uomo. Quando il foglio si spostava troppo sulla destra, con un trillo scattava a sinistra per poi tornare a spostarsi, a scatti, nella direzione opposta.

Quando la vide entrare, l’uomo smise di battere sulla tastiera e le sorrise.

- Bentornata, Jill.

- Tu non hai un altro posto dove andare, umano? – chiese Jill, infastidita. Qualcosa in lui la feriva profondamente, eppure non riusciva a ricordare nulla del motivo. Sapeva solo che “conosceva” quell’uomo dalla sera prima, dove lui aveva cominciato a parlarle in un bar, e che dopo le aveva fatto qualcosa di molto spiacevole… I suoi pensieri si incappavano quando si sforzava di ricordare il “cosa”. Comunque doveva avere una casa, un posto dove recarsi che non fosse camera sua… No?

- No, mi spiace, - rispose lui, alzandosi. Sembrava giovane, malgrado le rughe scure che gli solcavano pensierose la fronte; gli occhi color cielo di New York sembravano vivi più che mai, a dispetto di un corpo che sembrava stanco. Si chiese quanti anni avesse, quell’uomo.

- Ti spiace?

- Di non avere un altro posto dove andare.

Jill ebbe la sensazione che qualcosa non quadrava. Doveva prendere la pistola e sparargli subito, prima di…

Già, prima di fare che cosa? Non aveva già fatto qualcosa di simile?

- Fammi un favore, imbocca la porta e vattene, - disse Jill, quando l’uomo le accarezzò la guancia con la mano ruvida, ignaro della confusione che imperversava in lei.

- Non posso.

- Perché?

Lui rise. Quella risata le fece male, per quanto era profonda. Le ricordava un po’ John.

- Jill, Jill, - continuò a ridere l’uomo, sfiorandole la tempia con le dita, - Perché ti tormenti con le domande quando è più facile non sapere o ricordare?

Per la mutante fu troppo. In preda ad un panico indescrivibile ed ingiustificato corse in bagno e si chiuse l’uscio alle spalle. Il cuore pareva battere senza più controllo, e pulsava talmente forte da farle male.

No, no.

Dei passi, dietro la porta. Lenti, misurati. Li sentiva, mio dio.

- Jill.

Si tappò le orecchie, premendosi i palmi più forte che poteva. Non voleva sentirlo. Eppure le parole venivano scandite allo stesso ritmo del suo cuore impazzito.

- Jill, ti prego.

Crollò sul pavimento, in ginocchio. Persino oltre la stoffa plasticata dell’abito, sentiva il freddo delle piastrelle. Se le sentiva aderire sulla pelle delle gambe, e bruciavano.

La maniglia si girò, si aprì. Due braccia le circondarono le spalle.

La pistola, pensò confusa Jill, devo prendere la pistola…

Ma dove aveva messo la pistola? Non se lo ricordava.

- Shhh, calma, - le sussurrò l’uomo accarezzandole l’orecchio, una corta ciocca di capelli blu, - Calma, Jill…

Lei sussultava, spasimi che la scuotevano perché non voleva scoppiare in lacrime. Non davanti a lui. Voleva odiarlo, ma quello sguardo gentile glielo impediva. Eppure sapeva che doveva odiarlo… Anche senza rammentare il motivo.

- Sei stanca. Ti porto a dormire.

La sollevò dal pavimento come se si fosse trattato di prendere in braccio una bambola fatta di fragile vetro. Jill si sentiva stanca, stanchissima: gli lasciò fare quello che voleva e gli appoggiò la testa sulla spalla.

Forse andava bene anche così… Perdonare ciò che non si ricorda è ben più facile che odiare per ciò che hai cancellato dalla memoria.

- Vedo che la pittura ti sta cominciando a piacere, Jill, - commentò la dottoressa Turner.

Jill annuì, prendendo a sfogliare con la mano libera dal pennello un libro sulle opere di Van Gogh che la donna le aveva portato. Si soffermò pensierosa su un mazzo di girasoli: ne contò quindici nel vaso, poi cominciò a riprodurre freneticamente il dipinto sulla tela davanti a sé.

- Straordinario, - mormorò ancora la Turner. La mutante non capì se era riferito al dipinto che stava prendendo vita sotto il pennello oppure ai tre quadri che riposavano ad asciugare sul pavimento.

I girasoli di Van Gogh era la quinta opera di quella mattina: la quarta era fra le mani della dottoressa, che la studiava divertita.

- E’ un uomo oppure è un ragazzo? – le chiese, girando il quadro verso di lei. Jill non lo guardò neppure.

- Un uomo.

- Nelle prime versioni era un ragazzo dalla maglia rossa…

- Siamo cresciuti tutti e due.

La Turner non le domandò altro, anche se era chiaro che era stupita. Forse pensava che quella creatura umana che popolava i quadri di Jill fosse solo un parto della fantasia della mutante… O forse cominciava a sospettare che esistesse un “lui” reale. Jill dipingeva lo stesso personaggio nella stessa situazione almeno una volta al giorno, anche se quel ritratto finiva con lo stonare in compagnia alle nature morte o dei paesaggi al tramonto… Ma era solo una piccola ed innocente fissazione.

Jill pensava a lui, naturalmente, anche quando cominciava a tratteggiare opere che non lo ritraevano. Era una settimana, o quasi, che dormivano assieme, e per tutti quei giorni Jill non aveva preso le pillole di John.

Non ne aveva sentito il bisogno.

Non sapeva come lui si chiamasse, - “umano” andava benissimo, - e non sapeva il motivo per cui continuasse a prendersi cura di lei, ma in fondo non aveva importanza.

Non avevano parlato molto, in quei giorni. Lui le aveva raccontato di aver passato trent’anni in ibernazione per reati politici e di aver perso la gamba quando la capsula che lo rinchiudeva si era rotta e lui si era scongelato. Aveva battuto scherzosamente le nocche sulla gamba di ferro, mentre parlava.

Lei gli aveva parlato del suo lavoro di cavia da laboratorio e della dottoressa Turner.

Il loro rapporto era strano, molto strano, se si considerava quanto poco si conoscessero effettivamente, ma andava bene così. Jill non aveva mai avuto l’impressione di essere trattata come un oggetto. Se si fosse sentita così, l’avrebbe sicuramente ucciso… Per poi pentirsene subito dopo.

- Finito, - esclamò soddisfatta, dando l’ultima pennellata al quadro. I girasoli riposavano nel loro vaso di ceramica, le corolle tendenti verso il basso ed i petali sporchi e flosci. Era perfetto, era uguale all’originale.

La dottoressa Turner si lasciò sfuggire un fischio.

- Il miglior Van Gogh che abbia mai visto. Un bel pezzo da museo, direi.

- Devo andare a casa, ora, - fece Jill, posando attrezzatura e pennelli nella valigetta che le avevano prestato. Prese l’impermeabile e se lo gettò distrattamente sulla spalla, pensando già all’uomo che la aspettava davanti alla macchina da scrivere, nella loro stanza condivisa.

- Mi fa piacere che siamo riuscite a scoprire la tua vena artistica assieme, Jill, - disse la Turner, posandole la mano sulla spalla, - Di certo non mi aspettavo che tu avessi un così grande talento naturale nella pittura… Penso che dovrei ringraziare il tuo amico John per avermi consigliato questo esperimento.

Jill sbatté gli occhi un paio di volte, per assicurarsi di aver capito bene. Come faceva la dottoressa a conoscere John? Lei gli aveva raccontato che era lui a darle le pillole, ma nient’altro…

- E’ venuto qui al laboratorio, - le spiegò la donna con un sorriso sornione, - E mi ha detto di provare a darti in mano un pennello e dei colori… Mi ha detto che era l’unica cosa umana che voleva che ricordassi.

La mutante aprì la bocca, poi la richiuse. Non aveva parole.

Forse era stata donna anche lei, un tempo? Prima di diventare mutante aveva avuto una pelle calda come quella del suo umano, aveva provato le stesse emozioni?

Si infilò l’impermeabile ed uscì. La dottoressa Turner la richiamò indietro.

Jill continuò a camminare.

- Cancellami, Jill.

Lei lo guardò negli occhi, per capire se scherzasse. Ma Nikopol era serio, terribilmente serio, tanto serio che il cuore sembrava volersi spezzare a metà per il dolore.

- Perché?

Nikopol rimase in silenzio, incapace di rispondere. Horus, dentro di lui, sbuffò spazientito.

Andiamo, Nikopol. E’ fatta, ora dobbiamo solo eliminarci dalla sua testa…

Ma non era così facile come credeva l’entità divina che, da dentro il suo stesso corpo, lo comandava a bacchetta. Lui amava quella ragazza, si era innamorato di lei fin dal primo momento in cui il dio l’aveva spinto ad abbordarla al bar per i suoi divini scopi.

Certo, ad Horus era interessata solo la procreazione: aveva avuto a disposizione sette giorni per trovare una donna mortale capace di dargli un figlio, ed aveva trovato in Jill la sua prescelta. Era l’unico modo per mantenere la sua immortalità quasi perduta, gli aveva spiegato il dio la prima volta, doveva abitare per un po’ di tempo in un corpo umano per fecondare la donna adatta ad essere portatrice di un nuovo semidio.

Ma per lui, Nikopol, Jill non era stata solo un involucro dove lasciare il seme divino: per lui era diventata una donna, un amore da proteggere ed accudire, da preservare da ogni male del mondo.

Horus aveva accettato con divina tolleranza gli atteggiamenti “così umanamente stupidi” dell’uomo che l’ospitava, e si era detto disposto ad assecondarli finché il suo obbiettivo non fosse stato raggiunto.

Ed ala fine aveva vinto lui.

Horus di Heracropolis, condannato alla mortalità, si era riguadagnato il posto nella piramide sospesa sopra i cieli di New York, fra gli dèi suoi simili. La ragazza era stata fecondata e lui era di nuovo immortale.

Ma cosa rimaneva a Nikopol e a Jill, due pedine usate per un bieco scopo divino?

Solo un ordine: cancellami, Jill.

Condannare lei all’oblio e lui alla memoria eterna: era questa la ricompensa, per loro?

Basta sentimentalismi, Nikopol. Se ti sentirai così disperato, potrai prendere una pillola e dimenticare Jill come lei dimenticherà te… - commentò Horus nella sua testa, con diabolica premeditazione.

Già, le pillole. Una volta aveva visto Jill tenere pensierosa il flacone in mano, dopo averlo tirato fuori dall’impermeabile, e le aveva chiesto spiegazioni.

- Cancellano ciò che si vuole dimenticare, - aveva risposto lei, con un sorriso triste.

Sarebbero morti, lui ed Horus, se non fosse stato per le pillole di John. Ce n’erano due tipi, gialle e rosse: queste ultime cancellavano totalmente dalla memoria i ricordi, se prese in grandi quantità, mentre le pillole gialle, oltre alla rimozione temporanea della memoria, provocavano forti fenomeni allucinatori. Quando aveva visto Jill mentre si infilava tre pasticche in bocca, appena fuori dalla porta della camera d’albergo, ovviamente non sapeva nulla di tutto questo. Era rimasto nascosto nel corridoio un altro po’, prima che l’umano dentro di lui trovasse il coraggio di entrare in camera e guardarla negli occhi.

Quando l’aveva sentito entrare nella stanza lei aveva aperto la porta del bagno con la pistola in mano. Invece di sparargli era rimasta a guardare il vuoto per lunghissimi minuti, senza mai premere il grilletto, prima di lasciar cadere l’arma a terra e correre verso il lavandino.

Lui ed Horus, che sghignazzava divertito da dentro la sua testa, erano rimasti ad ascoltare i violenti conati di lei fino a quando non li avevano sentiti smettere. Nikopol aveva aperto con delicatezza la porta ed aveva visto Jill sfregarsi con isteria la guancia pallida, come se volesse pulirsi a tutti i costi da qualcosa che la sporcava.

Poi erano venute le pillole: erano rosse. Jill era svenuta, lui l’aveva presa affinché non battesse contro il pavimento e si facesse male.

Potremmo girare la situazione a nostro vantaggio, aveva gracchiato Horus dopo aver analizzato le pillole ed aver scoperto, per mezzo dei suoi poteri, la loro efficacia.

Nikopol aveva obbedito. La povera Jill, grazie all’effetto di poche pillole rosse, aveva dimenticato parte di ciò che era accaduto: avevano ricominciato tutto daccapo ed Horus aveva avuto campo libero finché non era stato sicuro che Jill sarebbe stata la madre di suo figlio.

Ed ora… Era tardi per tutti e due.

Nikopol guardò le cinque pillole rosse, le ultime del flacone di John, che riposavano nel suo palmo.

- Soffriresti troppo, amore mio, se ricordassi, - mormorò. Jill piangeva, lacrime blu le solcavano il bellissimo viso diafano.

- Non so nemmeno come ti chiami, - singhiozzò lei. Lui le passò la mano libera fra i capelli, prima di prendere fra due dita la prima delle pillole.

- Nikopol, - mormorò, prima di infilarla nella bocca di Jill. Lei accettò con rassegnazione quel gesto ed inghiottì.

- Nikopol, - ripeté la mutante, come se volesse imprimerlo nella sua mente, - Nikopol, quanti anni hai?

- Trentadue, - rispose lui, premendole sulle labbra la seconda pillola.

- Nikopol, trentadue anni. Nikopol, dove sei nato?

- In Polonia… Sono di Varsavia…

Terza pillola. Ne mancavano solo due.

- Nikopol, trentadue anni, nato a Varsavia… - sussurrò Jill, con gli occhi appannati. Incominciava a perdere conoscenza ma si aggrappava con disperazione alle sue parole.

- Nikopol… Dimmi cosa hai scritto su quella vecchia macchina da scrivere…

- La mia autobiografia… Ci sei anche tu, tesoro, rimarrai in quelle pagine… Sarai sempre lì, quando gli leggeranno di me…

Quarta pillola. Ormai lei era praticamente semicosciente, ma trovò la forza di ripetere con voce flebile: - Nikopol, trentadue anni, nato a Varsavia, nella sua autobiografia io ci sarò… Nikopol, sto morendo…

- No, Jill, no, non morirai… Dimenticherai, un ultimo sforzo e non soffrirai più… Ecco, l’ultima pillola e poi passerà tutto…

- Ho freddo… Nikopol, io non ricordo più come ti ho conosciuto…

- Non è importante, tesoro… Credimi, non è importante…

- Nikopol… Non dimenticarmi, ti prego…

La quinta pillola venne deglutita con sforzo. Gli occhi di Jill, ancora pieni di lacrime, si chiusero con un ultimo sospiro di lei. Nikopol la sentì abbandonarsi fra le sue braccia di colpo, come una bambina.

Le rimboccò il lenzuolo sotto il collo e guardò la stanza d’albergo. La macchina da scrivere era sparita così come gli ultimi segni del suo passaggio.

Jill si sarebbe svegliata e non avrebbe ricordato nulla di lui.

Stavolta fu il turno dell’uomo di deglutire per cercare di dissipare il nodo che gli stringeva la gola. Quando si sentì mancare le forze seppe che Horus era uscito dal suo corpo, per l’ultima volta. Nikopol si girò e vide la testa di falco ed il corpo possente e seminudo del dio egizio torreggiarlo in tutta la sua divina altezza.

- Grazie, Nikopol, - disse Horus, guardandolo dall’alto dei suoi occhi rapaci, - Mi sei stato di grande aiuto. Ma adesso devi dirle addio.

L’uomo si girò. Jill dormiva rannicchiata come lo stesso feto che, involontaria, portava ora nel suo corpo.

Povera, povera Jill.

- Addio, - disse semplicemente.

Non aveva altro da dirle.

Dall’alto della Torre Eiffel il paesaggio al tramonto era splendido.

Jill guardò oltre la tela per imprimersi meglio nelle retine il panorama. Le occhiate curiose dei visitatori, mutanti e non, che la fissavano intenta nel suo lavoro non la infastidivano.

La dottoressa Turner era andata a trovarla solo due giorni fa. Voleva sapere se Parigi era di suo gradimento.

- Certo, - aveva risposto lei. Come non si poteva adorare quella città? Era ottima perfino per leggere ad alta voce le poesie di Baudelaire.

Il quadro era quasi finito, ma Jill volle aspettare a dargli gli ultimi ritocchi perché la luce che le piaceva stava già svanendo. Tempo quaranta minuti ed avrebbe potuto dipingere la Parigi dei boulevard illuminati a giorno e gli edifici scintillanti. Era così diversa dalla sua New York, fusa tutt’uno con le fabbriche!

Jericho gorgheggiò, indicando che il suo piccolo stomaco brontolava. Jill appoggiò i pennelli nella tavolozza ed allungò le mani verso la culla per prendere in braccio il suo bambino. Il piccolo rise, sentendosi sollevato dalla madre, e provò a prenderle una ciocca di capelli che le cadeva sulla fronte.

- Buono, piccolo, shh

Ma Jericho sembrava non pensare già più alla fame. Uno stormo di colombe bianche sorpassò i due, sfrecciando verso l’altra parte della torre. Il piccolo si imbronciò quando si rese conto che gli uccelli erano troppo lontani per poterli raggiungere e cominciò a brontolare ed a tendere le mani verso il cielo.

Jill lo appoggiò con delicatezza nella culla. Quando il bimbo faceva così, era questione di attimi prima che si trasformasse e cominciasse a svolazzare di qua e di là senza controllo. Jill aveva imparato che era meglio non irritarlo, se non voleva trovarsi le braccia segnate dalle sue unghie.

Un falchetto sostituì dopo qualche attimo il piccolo nella culla, azzurro come lo erano i capelli del bimbo. Benché la Torre fosse quasi deserta, qualcuno era rimasto sulla terrazza a guardare il paesaggio sottostante. Era un uomo sui trentacinque, dai capelli brizzolati ed occhi azzurro grigi.

Jericho volò da lui in forma di falco, trovandolo più interessante delle colombe di poco prima. Evidentemente doveva averlo preso in simpatia. L’uomo parve sorpreso da quell’uccello che gli si era appoggiato sul braccio, ma quando tentò di accarezzargli confidenzialmente la testa Jericho volò di nuovo via, lasciandogli due graffi profondi sulla manica del pastrano.

- Mi dispiace così tanto, - si scusò Jill, lasciando la sua postazione di pittrice e facendo qualche passo in direzione dell’uomo, - ma è sempre così sfacciato… Le ha fatto male?

- No, - mormorò l’uomo, fissando i graffi. Quando la vide, i suoi occhi parvero illuminarsi di colpo, senza motivo.

- Mi dispiace ancora. Sul serio sta bene?

- Sul serio. Non potrei stare meglio.

Jill allungò la mano per presentarsi. Quell’uomo le stava simpatico a pelle, anche se non lo aveva mai visto prima.

- Mi chiamo Jill.

L’uomo sorrise con dolcezza, come se il solo sentire quel nome avesse scatenato in lui un’ondata irrefrenabile di ricordi. Allungò la mano a sua volta e strinse quella di lei.

- Io mi chiamo Nikopol.

NOTE FINALI: Questa storia è stata scritta per la terza Disfida dei Criticoni, Braimstorming. E’ la prima storia che scrivo per un concorso… E devo ammettere che non so bene cosa pensare. Personalmente ho trovato un po’ difficile inserire ogni prompt che mi è stato affidato, così non sono riuscita, ahimè, ad inserirli tutti. Per la storia che avevo in mente all’inizio la canzone dei My Chemical Romance era perfetta, ma poi ho cambiato sia soggetti sia serie… E questo è il risultato finale.

Qui sono presenti i prompt utilizzati per la storia:
Sexual Healing - Marvin Gaye: è la canzone che Jill sente alla televisione quando entra per la seconda volta nella sua camera. Sembra praticamente scritta per questa situazione, visto che Jill e Nikopol tentano di curare se stessi attraverso il contatto fisico… Mi è parsa particolarmente adatta per una scena “di tenerezza” fra i due.

Immagine 079: è il primo quadro di Jill. Ho pensato che una figura umana triste e sola (spero di non essere stata l’unica a pensare che il ragazzo sembra triste e solo…) potesse ricordare alla protagonista il suo Nikopol più per il fattore psicologico che fisico. Successivamente anche questo quadro subirà una trasformazione ed assomiglierà fisicamente sempre di più al protagonista maschile.
Che cos'è l'arte se non un modo di vedere? (Thomas Berger): citazione iniziale della dottoressa Turner, quando cerca di spiegare a Jill i motivi dell’esperimento pittorico.
Almost nobody dances sober, unless they happen to be insane. (Howard Phillips Lovecraft):
questa frase è citata da Nikopol quando lui incontra Jill nel bar-discoteca.

E questo è tutto. Avrei voluto mettere più prompt nella storia, ma purtroppo l’ispirazione non mi è venuta in aiuto. Spero comunque che il risultato sia almeno apprezzabile.
Il mio ringraziamento finale va a tutti coloro che hanno letto questa storia e sono arrivati fin qui.

Grazie, ed alla prossima!

  
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