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Autore: _eco    04/01/2014    4 recensioni
A Chiara piacevano i mattoncini di legno colorato dell’asilo. E ancor di più, la riempiva di un frizzante orgoglio il fatto che Livia abbattesse le mura di cristallo del suo mondo per costruirne di nuove, di vere, insieme a lei.
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Come on, friend, get up now...
...you're not alone at all.

"Perché non possiamo salvare tutti?"
"Non lo so".

- Noi siamo infinito.


A Chiara piacevano le pareti azzurre dell’aula. E ancor di più, amava il luccichio negli occhi di Livia, che vi vedeva uno scorcio di cielo intrappolato lì solo per loro.
A Chiara piacevano i mattoncini di legno colorato dell’asilo. E ancor di più, la riempiva di un frizzante orgoglio il fatto che Livia abbattesse le mura di cristallo del suo mondo per costruirne di nuove, di vere, insieme a lei.
A Chiara piaceva inventare storie e avventure al limite della fantasia, animando i corpi di plastica di bambole perfette e bellissime. E ancor di più, amava il fatto che Livia, muovendo le articolazioni snodabili della sua Barbie, mormorasse di continuo, come in una dolce nenia, che lei, Chiara, o meglio, la sua bambola, era sua sorella. E che la proteggeva sempre. E che le voleva bene. Tanto bene.
A Chiara piaceva la matematica, l’affascinava come la somma tra due numeri potesse avere un unico risultato: quello giusto. Le trasmetteva ordine, equilibrio, sicurezza. Le piaceva anche suggerire la corretta soluzione a Livia, che non riusciva mai a risolvere un’operazione in meno di due minuti pieni.
 
I bambini la chiamavano stupida. Livia piangeva. Chiara la consolava.
 
Arrivò il momento in cui Chiara iniziò a domandarsi perché, mentre lei svolgeva i suoi compiti con ordine magistrale, Livia tracciasse segni troppo rozzi e quasi illeggibili con mano malferma.
E perché, all’età di dodici anni, Livia continuasse a pretendere quadernoni con personaggi di sciocchi cartoni animati sulla copertina.
E perché, mentre lei le raccontava di quanto le piacesse il sorriso di Marco, Livia si ostinasse a chiudersi nel suo mondo, a giocare con le sue bambole di plastica, sempre perfette, sempre bellissime, sempre inanimate.
E perché, sebbene ci mettesse tutto il suo impegno, non riuscisse a insegnarle a risolvere calcoli algebrici in meno di due minuti pieni. 
E perché, mentre Livia le piangeva su una spalla, e quegli stupidi mocciosi la chiamavano “idiota” o “ritardata” o “deficiente”, e lei sentiva le sue lacrime inumidirle la maglietta, e odiava non riuscire a farla smettere, non potesse salvarla.
Arrivò il momento in cui Livia, gli occhi appannati da acqua salata, le domandò se fosse scema, e Chiara le ripeteva che no, non lo era.
Arrivò il momento in cui il dottore di Livia, con sguardo triste, disse che, finita la scuola, sarebbe stato meglio per lei vivere in un centro dove avrebbe potuto condividere le proprie esperienze con “quelli come lei”.
Chiara pensò che fosse un idiota, ma Livia, in quel centro, ci andò lo stesso.
Chiara odiava il puzzo di sudore stantio e di deodorante scadente di quei luoghi. Detestava le pareti bianche e pregne d’umidità.
E odiava il fatto che, ogni tanto, Livia le ponesse quella domanda.
- Sono scema? –
- No, non lo sei. Non pensarlo nemmeno. –
 
A Livia piaceva il venerdì, perché Chiara, puntuale come un orologio svizzero, andava a trovarla.
Mentre Livia giocava con le sue Barbie, lo sguardo attraversato da lampi di un entusiasmo quasi folle, Chiara le raccontava dell’università, del suo sogno di diventare avvocato, del suo lavoro come cameriera e dei clienti scorbutici, del sorriso di Marco, che era bello come quando era ragazzino e non era cambiato, delle lenti a contatto che le bruciavano sempre più spesso e del fatto che, controvoglia, sarebbe dovuta andare dall’oculista.
E Livia dubitava che, forse, Chiara pensasse che lei non l’ascoltasse, solo perché giocava. E invece l’ascoltava, e le dispiaceva che Chiara pensasse il contrario, e a volte lasciava cadere le sue bambole e le faceva capire che sì, l’ascoltava.
 
Una volta, il dottore le chiese chi fosse la persona a cui voleva più bene.
Livia indicò Chiara.
Era un venerdì di maggio. Le piacevano i venerdì. E Chiara era stata puntuale anche quel giorno.
Il dottore sorrise. Chiese: - Perché? –
Livia ci pensò su. Anche Chiara sorrise.
- Perché mi salva sempre. – 

Angolo autrice.
Sto tipo inondando i fandom, yep. Scusatemi v.v 
Questa storia è nata ieri pomeriggio, nella mia testa, e mentre la scrivevo mentalmente, avevo un nodo in gola che minacciava di strozzarmi. 
Mi hanno ispirata due bambine meravigliose. Adesso non descriverò nei dettagli le circostanze in cui si trovavano, perché non mi pare rispettoso, ma sappiate che una delle due ha, purtroppo, qualche problema di apprendimento, e l'altra, che è molto, molto matura, sa, capisce, e presto si porrà delle domande sul perché la sua amica rimane intrappolata in un corpo che cresce a dispetto della sua mente. Presto si renderà conto che lei non potrà far altro che starle accanto, perché non la si può "salvare", nel senso in cui la gente intende, chiaramente.
Sto sparando un mucchio di boiate. 
Spero che vi sia piaciuta, anyway.
Baci.
S.
 
  
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