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Autore: Silvar tales    05/01/2014    6 recensioni
"Sei davvero presuntuoso Ratonhakè:ton, se credi di potermi insegnare a cavalcare".
"Cavalcare?" La provocò Connor strizzandole l'occhio. Il cavallo soffiò in direzione di Faline, che arretrò di almeno dieci passi. Ma impiegò soltanto mezzo secondo per recuperare la sua grinta.
"Nel senso primo del termine. Purtroppo credo che per un altro tipo di cavalcata abbia tu bisogno di prendere lezioni da me, Ratonhakè:ton".
Genere: Avventura, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Connor Kenway, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Troy’s Wood



Al calare del sole, Ratonhnaké:ton scavalcò il mare di corpi che disseminavano la valle. Stretto in mano teneva il gambo della sua bandiera. Lo conficcò con forza nel terreno molle di pioggia e sangue, dietro le spalle di Faline.
La luce toccava di rosso l’erba intirizzita, le rocce, i pinnacoli degli alberi: onorava tutto il sangue che era stato versato.
Faline respirava a fatica, aveva le vesti ridotte a brandelli ed era ricoperta di sangue e fango. Ma era viva.
Quando si accorse della presenza di Connor, si voltò con gli occhi bianchi di lacrime.
Entrambi caddero in ginocchio tra il fango imperlato di brina, e si strinsero, con la gioia e il dolore di due superstiti.
Connor le annusò i capelli stopposi e grumosi di sangue, e gli sovvenne un pensiero. Un formicolio pieno di angoscia.
Gran parte dei suoi uomini giacevano morti, inghiottiti dalla mota sudicia, come se già la terra li reclamasse come parte di sé. I pochi sopravvissuti si erano rifugiati sul promontorio soprastante, a guardare il tramonto, con occhi che gridavano libertà!.
Il sole scendeva in fretta, e il loro abbraccio si faceva più tenue, più freddo. Le loro braccia allentavano la presa, come se fossero state improvvisamente richiamate da un impellente senso di pudore. Faline si eresse in piedi, e guardò Connor con occhi stanchi, seppur profondi. Occhi che volevano dire tutto e niente, occhi che tuttavia rafforzarono i brutti presentimenti di Connor.
Valley Forge era stata liberata, ma la Guerra d’Indipendenza poteva davvero dichiararsi un capitolo chiuso?


*


“I vecchi libri che abbiamo in biblioteca parlano di molte cose, Falì. Puoi leggerli, ma sfogliali con cautela. Alcuni cadono a pezzi e perdono le pagine, altri invece sono menzogneri, ed è con questi ultimi che devi usare ancora più cautela”.
“Certo maman, e li ho letti, molti, parlano di storie mirabolanti al di là del mare, o più a nord dell’Inghilterra. Molti altri invece sono in latino, e li ho lasciati perdere. Ma c’è un libro che ogni volta che entro qui dentro, più di tutti, vorrei leggere. Quello con inciso in coperta il sigillo degli Assassini, che tu tieni sottochiave in quella teca di vetro. Perché poi?” Aggiunse la ragazzina, incrinando le sopracciglia e guardando la madre con accusa.
“Perché? Mi sembra ovvio. Contiene segreti, storie della nostra stirpe passata che ancora non puoi conoscere, perché influenzerebbero le idee che hai ora, Figlia del Vento. Soprattutto le tue attitudini verso les autre, verso gli altri Assassini, gli Assassini della Confraternita”.
Faline scosse la testa con profonda indignazione. Non si sarebbe mai e poi mai aspettata di ricevere una risposta del genere.
“No, maman. La verità deve essere al di sopra di tutte le altre cose. Non importa le conseguenze che comporta, la verità è da inseguire sempre, ad ogni costo”.
“Anche se spezzerà le alleanze? Anche se verserà altro sangue inutile? È solo da due generazioni che ci siamo riavvicinate agli Assassini della Confraternita, Falì!”
Faline alzò le spalle, e non poté impedire che un sorriso da volpe le scivolasse sulle labbra.
“Così mi rendi ancora più curiosa, però. Chissà cosa racconta di così scabroso, quel libro. Chissà quali fattacci contiene. Ma potrebbe anche non accadere nulla, maman. Potrei non cambiare affatto attitudine”.
Il silenzio che impregnava quella grande biblioteca si fece ancor più pesante. La polvere fluttuava nell’aria densa, tagliata dai raggi del sole.
Dopo alcuni minuti, Faline parlò di nuovo. “Non sono né stupida né cieca”.
“No”, si affrettò a rimbeccarla la madre, con profonda serietà, “ma sei troppo vendicativa. E fin troppo giovane”.



*


La notte Faline e Ratonhnaké:ton correvano con i lupi, tra i rami di Troy’s Wood. Inseguivano i loro ululati, ringhiavano nel tentativo di imitarli, giocavano come bambini.
La loro corsa forsennata non aveva proprio nulla di razionale, anzi era del tutto bestiale e spontanea, ma serviva loro per affrontare il gravoso peso di vite umane che avevano perso.
La neve cadeva silenziosa e ricopriva i cadaveri che abitavano Valley Forge, costruendo con pazienza per ognuno un sepolcro di ghiaccio.
Ma né Connor né Faline volevano pensare ai morti, quella notte. Piuttosto li onoravano con la loro incessante voglia di vivere. La luna era tutta per loro, e li condusse a un capanno abbandonato e cadente, senza porta né pavimento. Faline vi si accasciò all’istante, e fu subito seguita da Connor che con foga animale le sfilò di dosso le poche vesti che le rimanevano.
La possedette più e più volte quella notte di neve, assaggiando ogni centimetro della sua bianca pelle salata, non badando a sfogare il proprio piacere dentro di lei, forse addirittura sperando che il suo seme crescesse in quel ventre freddo e trasparente.
Videro sorgere un’altra alba senza che avessero chiuso occhio.
Quando il sole sorse, si recarono in cima alle vicine rocce di Troy’s Wood, e restarono in silenzio a mirare il cielo che da blu diventava azzurro, poi rosa poi arancione.
Fu quella l’ultima luce della loro storia.


La notte seguente giacquero ancora insieme, stavolta in un giaciglio di fronde e sterpi, nascosto sotto un arco di roccia. Connor la strinse a sé con cautela, poiché le sembrava più gracile, più magra e più stanca del solito, come se nel suo piccolo seno covasse un morbo silente. Fu tentato più volte dal chiederle se stesse bene, ma gli venne invece naturale dar voce ai suoi sospetti.
“Può essere che tu sia incinta?”
Neanche a dirlo, Faline scoppiò in una risata roca e canzonatoria, mentre continuava a intrecciare le gambe a quelle del ragazzo. Ma non gli rispose.


Aveva atteso che Ratonhnaké:ton scivolasse nel sonno; allorché si era alzata senza fare il minimo rumore.
Era frastornata, ma non più combattuta.
Alcune cose andavano fatte.
Alcuni debiti dovevano essere pagati.
Come il debito di sangue che i suoi antenati avevano da sempre con gli Assassini che seguivano gli antichi precetti di Al Mualim.
C’era stato un tempo in cui lo scisma che attanagliava l’Ordine era pressoché invisibile; un tempo in cui gli Assassini combattevano uniti la croce templare. Ma poi Edward Kenway non aveva avuto il tempo di insegnare nulla al figlio, che era rimasto incastrato nell’infida rete dei Templari. La linea si era interrotta.
Ora Connor Kenway aveva cercato di porre rimedio agli sbagli del padre, tuttavia il dubbio e il rimorso rimanevano in lui. E dubbio e rimorso erano i peggiori nemici di un Assassino, per come la vedeva Faline.
Il ragazzo dormiva riverso su un fianco, stretto nei suoi vestiti sporchi di sangue, fango e neve.
Sulla sua guancia spiccava una brutta ferita da taglio, che tuttavia era già in via di guarigione.
Guardando le sue mani, Faline notò che metà delle unghie erano rotte. Si ritrovò a chiedersi cose futili, se le avesse rotte danzando tra gli alberi, forse nel tentativo di afferrare un ramo fuori portata, oppure nella battaglia appena trascorsa.
Aveva il mento e le guance appena ruvidi di barba, e un filo di occhiaie sotto le palpebre chiuse.
Quanti anni poteva avere? Venti, venticinque? Sicuramente più di diciotto e meno di trenta. Ma i tratti indiani, cui Faline non era abituata, nascondevano ai suoi occhi la sua vera età.
Senza più rimuginarci sopra, prese un coltello, se lo rigirò un po’ tra le dita, come se scottasse.
Poi, con un taglio netto, aprì da parte a parte la gola di Ratonhnaké:ton.
Questi fece appena in tempo a spalancare gli occhi, e ad emettere una sorta di gorgoglio che si tramutò nel rumore del sangue che defluiva fuori dalla carotide.
Faline lo guardò morire con freddezza, sentendosi una codarda per non averlo affrontato direttamente.
Ma ormai non c’era più alcuna possibilità di porre rimedio a ciò che aveva fatto.
“Rimani pur sempre il figlio di Haytham Kenway”, bisbigliò in un soffio di vento.
Il debito era stato pagato.
Ora nessun dio avrebbe potuto espiare le sue colpe.
   
 
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